"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 7 novembre 2023

Piccolegrandistorie. 59 “StoriedaiFrontidiGuerra”.

 


StoriedaiFrontidiGuerra”. Vietnam (1975). “L’attimo prima di cadere” di Natalia Aspesi pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 4 di novembre 2023:

Forse era attorno ai primi di aprile, e io ero molto impegnata a fare femminismo, certo eravamo moltopiù avanti di adesso, in quanto avevamo tutte cose epocali ottenute rompendo le scatole ai maschi che non ne potevano più: il nuovo diritto di famiglia, e l'interruzione di gravidanza tutta nostra, e soprattutto l'amabile divorzio. Il mio direttore al Giorno era Gaetano Afeltra, da cui desideravo fuggire con tutti i mezzi, e qualcuno nel giornale mi chiamò: adesso preparati perché devi andare in Vietnam! O mamma! C'era la guerra dall'altra parte del mondo, una guerra che, iniziata nel 1955, continuava ed eravamo nel 1975, e si capiva che stava per finire, con i rossi che vincevano e i poveri americani che per l'ennesima volta gli andava male, come poi gli è sempre successo. E adesso arrivavo io! Adesso le ragazze giornaliste vanno in guerra e mi pare anche più degli uomini, ce ne è una a ogni spaventosa battaglia e io senza invidia le ammiro moltissimo. Ma allora, che senso aveva mandare una poveretta magari facendosi poi fotografare con l'elmetto addosso scaricando mitra? E no, una ragione c'era; ed era che ovunque ci fosse una guerra, l'Oriana (Fallaci n.d.r.) appariva perfettamente con l'elmetto e tutto carica di armi, a combattere eroicamente per il vincitore. In quel momento non c'era nessuno al Giorno, di donne, se non la divina Maria Pezzi che tutte le settimane allietava le signore con, mi pare, un giornale pieno di suoi disegni. Quindi toccava per forza a me. (…). Nulla mi ricordo del viaggio, un po' l'ictus un po' la memoria, ma finalmente arrivai a Saigon e chi incontro per prima? L'Oriana! Che arrabbiatissima di suo, mi chiese di indicarle il corso di un fiume mai sentito nominare. Siccome io, innocente, nulla, ma proprio nulla, sapevo del Vietnam e dei suoi fiumi, cercai di svicolare, non aspettandomi la furibonda reazione di chi sapeva e poteva giustamente andare in bestia. In un furor di popolo la graziosa signora per mia fortuna scomparve; da quello che è stato il peggior servizio della mia vita, di cui, se ancora ci penso, mi viene tristezza e vergogna. Dunque, adesso, eravamo lì, io contro Saigon! Che era una città magnifica, piena di frivolité francesi, ed essendo in guerra da vent'anni anche troppo pacifica; è vero, anche con pochi vietnamiti che se ne erano scappati via per non essere presi per americani. Ormai la fine della guerra era vicina e io mi ritrovai in una battaglia solitaria: io contro il mondo, che poi non sapevo se dalla parte vietnamita o americana perché, noi ormai da anni si tifava per i vietcong, i comunisti vietnamiti. Noi come occidentali stavamo dalla parte degli americani, che con tutta la loro forza, stavano perdendo: ma non a Saigon, dove eroicamente, i miei colleghi passavano le mattinate in piscina, poi passavano al mercato dove bambini vietnamiti di 5, 6 anni, bravissimi, erano diventati trafficanti abili nel vender ciò che i genitori, fuggendo, avevano abbandonato. C'era anche un molto simpatico collega romano che era riuscito a far venire una gran bella signora, e dalla camera dell'hotel alla francese uscivano solo per inviare un pezzo al giornale e immagino fosse piuttosto sanguinario. Io, di nuovo sola contro Saigon, mi accontentavo dei vietcong, che ogni sera ci mandavano a prendere, noi italiani, e ci raccontavano col permesso degli americani, quella che oramai era la battaglia finale. Mi conquistai una bella borsa di stoffa stracciona e verdognola, regalo di un soldato vietcong piccolino (come tutti i vietnamiti). Poi scrivevo quel che arrivava a me, cioè nulla. Gli americani intanto ci avevano informato che se alla radio si sarebbe sentita White Christmas dovevamo correre all'aeroporto e prendere il primo volo disponibile per tornare alla nostra libertà. Tutte le mattine, per una settimana, andavo all'Air France a prenotare un posto, fin quando, pur non sentendo affatto White Christmas, mi ritrovai accanto all'ultimo aereo con cui gli ultimi vietnamiti di Saigon venivano cacciati, e me ne tornai in Italia in attesa di essere umiliata in pubblico ludibrio. Era successo questo, roba che non mi sono mai perdonata: un pomeriggio il dittatore del Vietnam che mi ospitava, Nguyènvan-Thìèu, pronunciò la resa del Vietnam del Sud, che per vent'anni con gli Stati Uniti aveva compiuto atrocità terribili sulla popolazione. I gentili segretari me lo tradussero e io trionfante per lo scoop scrissi il pezzo della vittoria. Bisognava però andare dove i corrispondenti col mondo avevano i loro mezzi (di internet non c'era neanche l'idea); io diedi cento dollari e una camionetta con gente in divisa mi ci portò: c'era in quello stanzone fumoso una folla di impazienti corrispondenti di tutto il mondo e tutti a fare la fila per mandare in giro i loro pezzi. Io consegnai il mio trionfo, e poi ubbidii ai vietnamiti per tornare in albergo, anche se sapevo che era sbagliato: e se poi quelli me ne facevano di ogni colore? Figuriamoci, lo stanzone era pieno di facce giapponesi (da allora li ho sempre odiati) e il mio povero trionfale pezzetto arrivò spegnendosi, a poche righe. Milano non ebbe il mio pezzo (neanche gli altri, mi pare) mettendone uno a caso: io tornai senza gloria guardando le facce scure dei miei datori di lavoro. Poi quando Repubblica mi chiamò, alla fine dell'anno, io me ne scappai felicissima. (…). E poi laggiù, alla fine, dopo venti anni di guerra: 58.272 morti degli Stati Uniti, Vietnam del Sud e del Nord, 1.100.000 morti.

StoriedaiFrontidiGuerra”. Libano (1991). “Il grande inganno” di Gabriele Romagnoli pubblicato sullo spesso periodico “d”: Quando, vent'anni fa, mi trasferii a Beirut, la frase più ricorrente che sentii dire fu: "Avresti dovuto venirci vent'anni fa, allora sì...". Si riferivano alla città com'era prima della guerra civile. A quel paradiso per orientalisti ed evasori fiscali. Qualcuno, più spietato, preferiva la città dieci anni prima, in pieno conflitto, per quell'estrema gioia di vivere provocata dal contatto con la morte. Erano tutte trappole della nostalgia, quel retrovisore che mostra gli oggetti con forme diverse da quelle reali. L'avevo già conosciuta al Cairo, da dove venivo, che era stata immancabilmente splendida ("Ah, l'avessi vista allora!"), venti, o dieci, o quindici anni prima. Per cui posso dirlo senza timore di smentita: dovevate vedere Beirut, vent'anni fa. Mai stata un non luogo, viveva un non tempo: sospesa tra una guerra e l'altra. Si camminava sulla miccia, in equilibrio tra lo scoppio di due bombe. Bastava non pensarci. E chi ci pensava? Reduce da New York e Parigi, non avevo mai visto bar così belli come a Beirut. Bastava sedersi al bancone del Central, nel quartiere ricostruito (secondo discutibili canoni) dal consorzio Solidere e aspettare. Che cosa? L'apertura della cupola. A un comando del bari-sta la curvatura alle sue spalle si sollevava e tornavamo a riveder le stelle. Un bar cabriolet. Lo preferivo alle situazioni sotterranee che richiamavano i rifugi antiaerei. O lo erano stati: il Night Quarantine, il ristorante giapponese sotto la Green line, il club Basement aperto dal mio allora amico Ahmed, figlio del presidente del Senato, che aveva una società finanziaria e una seconda vita nell'America profonda. La Dolce Vita 2, sequel libanese del successo Anni Ottanta, sarebbe stata insipida, senza il rovescio della medaglia dorata. C'era già nell'aria il futuro. E sapeva di polvere. Ogni volta che al Cristal, il favoloso locale frequentato da sauditi in vacanza, saltava un tappo di champagne e il tabellone luminoso aumentava il punteggio di chi lo aveva ordinato, qualcuno trasaliva, pensando a uno scoppio che riteneva imminente. C'era questa sensazione di intervallo tra i due tempi di un film drammatico: mangiamoci i popcorn adesso, che le luci sono accese e ci possiamo guardare in faccia. E che facce! La moglie di George Clooney è probabilmente l'unica della sua generazione a non aver fatto ricorso alla chirurgia per modificarsi il naso. Era il classico regalo per le ragazze che raggiungevano la maggiore età. Così comune da non aver alcuna necessità di nasconderlo. Dal giorno successivo circolavano con un grande cerotto, retaggio dell'intervento. La guerra civile aveva lasciato una prevalenza di donne rispetto agli uomini, caduti combattendo o esiliati. L'impegno nell'abbigliarsi e truccarsi per conquistarli era impressionante. Maschi in jeans e maglietta neppure lavata attendevano all'appuntamento femmine agghindate in boutique occidentali. Lo facevano, però, davanti a un'auto di grossa cilindrata in cui avevano investito soldi che non avevano. Era il dominio dell'apparenza che, si sa, inganna. Il grande gioco (…) era l'imbroglio. Niente, nessuno era come sembrava. Al, il mio migliore amico libanese! Che splendida persona! Che raffinato scrittore! E che storia, la sua! Era fuggito dalla guerra: prima in Australia, poi in Svezia. Era sopravvissuto al cancro. Lo aveva raccontato in uno struggente memoir che cercai, invano, di far tradurre in Italia. Il titolo sarebbe stata una frase chiave: "L'amore è la fine dell'attesa". Era stato scritto in inglese. In Egitto avevo studiato un po' di arabo di strada. I libanesi ne ridevano. Non lo capivano, ma soprattutto dicevano: "Non sai l'inglese o il francese?". L'avevano imparato nelle loro migrazioni, tutti. Anche Jad. Un giorno, prima di un mio viaggio, mi chiese una copia delle chiavi di casa. Disse che gli serviva un rifugio per portarci un'amante. Gliele diedi. Al rientro trovai ogni cosa fuori posto: spariti la macchina fotografica, soldi, un biglietto aereo nominativo per Muscat. Non ci voleva molto a capire che fossero passati i servizi. E chi avesse aperto loro la porta. Altroché amante. Ecco come aveva ottenuto la libertà dopo aver tramato con l'Olp per un attentato a Stoccolma ed essersi fatto scoprire. Si era venduto. E aveva venduto me. Capita, nella capitale degli inganni. Mai più fidato di nessuno. Mi sono messo ad aspettare, come gli altri: che la miccia finisse e il banco saltasse. I casinò al confine con la Siria erano sempre pieni e all'alba gli uomini di Assad venivano da Damasco a svuotarne le casse. Chi avrebbe osato ribellarsi? Un giorno arrestarono due palestinesi. Dissero che stavano preparando un attentato all'ambasciata italiana nel cuore della città. Che fesseria. Quanto era lontana Roma dalla mente di chiunque. Stavano invece osservando i movimenti di un uomo che usciva ogni giorno dal vicino Parlamento. E delle sue scorte: quella vera e quella finta. L'ennesimo inganno di Beirut, che sarebbe stato svelato individuando il corteo di auto in cui davvero quell'uomo viaggiava e facendolo saltare in aria sul lungomare, con un cratere delle dimensioni di quello di Capaci, un carico di tritolo messo a più mani, dopo essersele strette come accadde prima di Dallas. Era la fine della tregua. La fine della musica. Il tempo di andarsene.

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