"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 6 novembre 2023

ItalianGothic. 79 Gustavo Zagrebelsky: «Dobbiamo ammettere che è una riforma fatta per noi. Quantomeno, per il futuro ci libereremo di fastidiose incombenze».

 
Ha scritto Ezio Mauro in “La verticale del potere” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, lunedì 6 di novembre 2023: (…) Meloni si muove partendo da una crisi della rappresentanza, testimoniata dalle urne vuote e dalla disaffezione crescente per la politica. Crede che dare ai cittadini una figura istituzionale di riferimento, investita direttamente della loro fiducia col voto, possa avvicinarli di più alla cosa pubblica. Presidente della Repubblica o presidente del Consiglio, poco importa: ciò che conta è trasmettere l’idea che la sovranità non si parcellizza più nel concorso di soggetti istituzionali diversi, attraverso il libero gioco tra decisioni e controlli, ma si raccoglie e si potenzia concentrandosi in un dominus, elevato in una posizione di primato, e consacrato dal voto popolare. Naturalmente ridisegnare il vertice del sistema non è semplice come spostare la statua di un pastore nel presepio, e avvicinarla alla sacra capanna per farla investire dalla grazia: perché si tratta di trovare un nuovo equilibrio tra le istituzioni, in particolare il Capo del governo con la sua dotazione supplementare di potere, il Parlamento sorpassato dal voto popolare nell’investitura del premier, e il Capo dello Stato che tra le sue prerogative conserva la nomina del presidente del Consiglio, ma non la scelta. E qui, dopo la consacrazione popolare, entra in gioco la seconda motivazione di questa riforma: la semplificazione, ossessione di ogni populismo, di qualsiasi segno. (…). La democrazia liberale andava bene negli anni del benessere, oggi è un impaccio novecentesco. Diamo spazio al comando legittimo, il quale manifestandosi creerà automaticamente un nuovo ordine: che ha già un nome. In Russia la chiamano “la verticale del potere”. È il tracciato che compie il processo decisionale di vertice, ma è anche l’articolazione che prende la leadership complessiva, la configurazione dei ruoli e delle funzioni istituzionali dello Stato nelle loro combinazioni. Nello spirito del tempo il verticale ha già sconfitto l’orizzontale, quel ventaglio di poteri interdipendenti che condizionandosi tra di loro secondo la Costituzione garantiscono la procedura democratica, mentre secondo le democrature zavorrano la sovranità, impedendole di mostrare la folgore della sua decisione. Ma intaccare il monumento fondativo della Costituzione è probabilmente un obiettivo della destra italiana, che alla nascita di quella Carta è stata estranea, come anche al suo spirito. E oggi? Meloni non ha ancora detto cosa pensa della nostra Costituzione: lo capiremo dunque dai fatti. Non c’è però dubbio che la riforma vuole portare il Paese in un’altra Repubblica, la Terza, dopo la Prima della lunga era democristiana e del bipartitismo imperfetto e dopo la Seconda con la sperimentazione berlusconiana del bipolarismo. Un cambio di Repubblica che perderà per strada il mito originario della Resistenza come lotta italiana per la riconquista della democrazia. Meloni è finora riuscita a non dire una parola (importante per il mondo da cui proviene) sull’antifascismo come fonte di legittimazione della Repubblica dopo 21 anni di dittatura, e valore fondativo: oggi vuole cambiare la Repubblica - disegnandola disincarnata dalla storia - prima e invece di cambiare idea. Ma l’antagonismo permanente della destra al sistema che pure governa, la sua alterità custodita a oltranza rispetto al costume democratico repubblicano, indicano il vero e principale obiettivo di Giorgia Meloni con questa riforma: cambiare il regime e non solo il governo, costruendo attorno alla conquista del potere della destra ex missina una cornice eroica e una pretesa epocale, con uno sfondamento culturale, una correzione della storia, l’avvio di una nuova era. Questa è la posta in gioco, il giorno del referendum.

“Il popolo al voto ogni cinque anni per celebrare l’uomo (o donna) soli al potere”, testo di Gustavo Zagrebelsky pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, domenica 5 di novembre 2023: (…). Se le novità le guardiamo dal punto di vista del mondo politico, ci sono e ci saranno dissensi. Ma, se le guardiamo dal punto di vista dei cittadini - il nostro punto di vista - dobbiamo ammettere che è una riforma fatta per noi. Quantomeno, per il futuro ci libereremo di fastidiose incombenze. Prevedibilmente, voteremo una volta sola ogni cinque anni per scegliere contemporaneamente il presidente del Consiglio e il Parlamento. Non abbiamo tante volte detto che in Italia si vota troppo? Le elezioni sono state una nostra persecuzione e, difatti, sempre più sono i cittadini che si sottraggono, disertando le urne elettorali. Ecco qua, allora: una volta sola ogni lustro. In più, si voterà “tramite un’unica scheda elettorale”. Non ci avevamo mai pensato finora: un voto che vale due. Altro che complicazioni nelle cabine elettorali, con l’elettore che ha in mano più schede, ci si perde, magari gli viene in mente di dare un “voto disgiunto” o qualcosa del genere. Finalmente, le Camere la smetteranno di intralciare il lavoro del governo. Sapranno che, se mai passerà per la testa di sfiduciare il presidente del Consiglio che è stato “eletto per cinque anni”, oppure anche solo se gli daranno qualche fastidio inducendolo a “cessare dalla carica”, cioè a dimettersi di sua iniziativa, andranno incontro alla propria rovina, lo scioglimento. Parlamento e Governo saranno strettamente avvinghiati in vita e in morte ed entrambi vorranno vivere, mica morire. Basta tensioni; e basta anche prevaricazioni governative (l’altro lato della medaglia) come i decreti-legge a pioggia; i voti di fiducia per stroncare gli emendamenti del Parlamento; le forzature regolamentari: non ce ne sarà più bisogno. Ciò malgrado, se qualche pur inimmaginabile incidente si verificasse, cioè se si incrinasse quel tacito patto di vita e di morte, poco male. I patti si basano sulla fiducia: fiducia per tutti i cinque anni successivi. Data la simultanea elezione del presidente del Consiglio e del Parlamento sarebbe assai strano che il governo non ottenga la fiducia all’inizio della sua vita. Ma, se per assurda ipotesi, ciò accadesse, poco male. Il presidente del Consiglio può riprovarci e, se di nuovo non ci riesce, c’è la sanzione: scioglimento delle Camere, a riprova che esse sono lì solo per dire sì al governo. Se invece la fiducia venisse meno in corso d’opera, cioè nel quinquennio, il presidente del Consiglio potrebbe - primo - tentare la pacificazione; oppure – secondo – un parlamentare della maggioranza potrebbe essere chiamato a sostituirlo, purché s’impegni ad attuare lo stesso programma del presidente del Consiglio precedente, sfiduciato; infine, se nemmeno questo risultasse possibile, allora scioglimento delle Camere. È l“anti-ribaltone”, invenzione al posto della “sfiducia costruttiva” che, sia pure piuttosto ipoteticamente, consentirebbe la formazione di un altro governo con diversa maggioranza. Qualche malpensante (…) potrebbe rilevare una contraddizione: il presidente del Consiglio si vuole che nasca per il voto popolare diretto, invece così potrebbe essere uno dei tanti che sono stati, sì, eletti, ma per fare altro, cioè il parlamentare. E potrebbe anche pensare che così si voglia dare a un uomo forte della compagine governativa la possibilità di insidiare il presidente eletto direttamente, trafficando e tramando dentro la coalizione. Ma, insomma, qualche difetto siamo disposti ad accettarlo, anche a costo di complicazioni e raffazzonamenti. Chiaro, comunque, è che non avremo più “governi tecnici”. Di fronte alla paralisi della politica, almeno ci saranno risparmiati i Ciampi, i Monti, i Draghi che tanto male hanno fatto al nostro Paese. Se la politica non riuscisse a produrre un governo, pazienza. Sempre meglio che mettersi nelle mani di qualcuno che dalla politica non proviene. C’è comunque, a garanzia, l’elezione diretta del capo del Governo, ogni volta “per cinque anni”. Questo è il cuore della riforma. Come si può dubitare che un tale “eletto” non sarà capace di governare, avendo dietro di sé una tale immensa spinta popolare? Come debba essere eletto, su questo la riforma è reticente. In unica tornata, bastando, per vincere, un voto in più rispetto agli altri; oppure, in due tornate, la seconda di ballottaggio? Sono due sistemi molto diversi, il secondo aprendo la strada alle coalizioni. Speriamo che non si finisca per scegliere quest’ultima: di coalizioni ne abbiamo avute fin troppe e ora è il tempo dell’uomo o della donna soli al potere, con la loro corte, anzi coorte, senza dover cedere a mediazioni e compromessi. Basta, poi, con limiti, controlli, contrappesi. Sono zavorre. Perciò ben venga un sistema elettorale che garantisca a chi vince comunque, anche se con pochi voti, il 55% dei seggi in Parlamento. Garantirà la “governabilità”. Secondo il significato passivo della parola, saremo tutti felici d’essere governati: noi, così fastidiosamente indisciplinati e indocili. Con quel facile e bel premio a portata di mano, la maggioranza da sola potrà eleggere “il suo” presidente della Repubblica, rendendo obsolete le discussioni attuali circa la riduzione delle sue attuali prerogative; potrà con poca difficoltà eleggere “i suoi” giudici costituzionali e “i suoi” componenti del Consiglio superiore della Magistratura. Avendo vinto le elezioni, potrà occupare tutte le istituzioni, come è giusto che sia. Insomma, c’è un gran bisogno che ci si metta in riga, e la riforma promette bene. Se poi non basta, con quella maggioranza si potrà anche cercare di cambiare e ricambiare ancora la Costituzione, finché non si arrivi a ciò che serve. Insomma, stiamo tranquilli perché siamo in una botte di ferro. Sì, stiamo tranquilli perché la volontà di questo governo di procedere senza sbavature è chiara, fin nei dettagli. Ne è l’esempio l’abolizione futura dei senatori a vita e la “categoria a esaurimento” in cui saranno messi e umiliati gli attuali. Esaurimento a uno a uno, fino a che morte non sopraggiunga o essi stessi non decidano di andarsene. Bene anche qui: chi credono di essere? Hanno “illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. E con ciò? Forse che anche noi non siamo ugualmente patrioti? Dove va a finire l’uguaglianza se tolleriamo la presenza di questi signori che, la Patria, se la possono benissimo illustrare a casa loro? Ma, il maggior merito di questa riforma sta indubbiamente nel “presidente eletto” direttamente. È il modo migliore per animare la competizione elettorale: si combatte per vincere e umiliare. Un poco di verve in più sarà benvenuta. Già ora, anche da noi, lo scontro elettorale è “personalizzato”, ma non basta. Altri sono molto più avanti di noi, quando si tratta di eleggere il “capo del Governo”. Dossieraggi, maldicenze, insulti, sicofanti, “macchine del fango”, intimidazioni, violenze sono tutte cose utili. Non che non le conosciamo già, ma si può certo migliorare per spaccare il Paese e poi reprimere chi non ci vuole stare. C’è solo un timore, il timore che le componenti minoritarie della maggioranza, si accorgano, dati alla mano, che la riforma servirebbe solo alla componente più forte, mentre loro diventerebbero quasi irrilevanti. Qualora si accorgessero - e speriamo di no – che rischiano di essere poi ricordati come i classici utili idioti, gli auspici di quanti pensano positivo andrebbero facilmente in fumo. Ora, però, deve venire – se pur superfluo - l’avvertimento ai lettori che siano giunti fin qui. Si saranno chiesti se il “pensare positivo” proposto all’inizio non sia altro che un artificio paradossale per mettere in guardia e non cadere in trappola. Cioè per sollecitare proprio il contrario, cioè un “pensiero negativo” o oppositivo o almeno circospetto. Norberto Bobbio ha scritto: «Non dico che gli ottimisti siano sempre fatui, ma i fatui sono sempre ottimisti». La posta in gioco non è da poco. Molto meglio cauti che fatui.

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