“
Della
Guerra”.
“Guerra è propaganda dai Persiani a Gaza”, testo di Filippo Maria
Pontani - professore ordinario presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia –
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, venerdì 10 di novembre 2023:
“Ares,
cambiavalute di corpi". Questo verso di Eschilo (Agamennone 438) cattura
la contabilità incrociata delle vittime, l'oscena pesa quotidiana dei cadaveri
sulla bilancia di Zeus e di al Jazeera. (…). Al principio delle Storie di
Erodoto, Persiani, Fenici e Greci danno tre versioni opposte del principio
remoto della lotta tra Oriente e Occidente, che sfocerà nelle Guerre Persiane
(492-479 a.C.); e poi il fatale incendio del tempio di Cibele a Sardi (Erodoto
5.102) fu accidentale o voluto? E la conseguente distruzione dei templi greci
da parte dei Persiani fu una "proporzionata vendetta", o un
sacrilegio da rinfacciare ai "barbari" per generazioni, ancora ai
tempi di Alessandro Magno? E chi ha iniziato la Guerra del Peloponneso tra
Ateniesi e Spartani, la più grande del mondo antico (431- 404)? Tutti e due,
risponde Tucidide, che da storico obiettivo osserva che gli Ateniesi
"divenuti grandi e offrendo motivo di paura agli Spartani, li costrinsero
a fare la guerra" (1.103). Tutti dicono di voler evitare il conflitto, di
averlo intrapreso solo in via difensiva (conviene fingere in tal senso, dice il
tattico Onasandro, 4.1-3); e poi magari, come Putin, lo negano o lo
ribattezzano financo quando è conclamato. Tutti invocano un principio di
Giustizia ("Dike" sta incisa sullo scudo di Polinice come sulle
labbra del fratello Eteocle: si ammazzeranno l'un l'altro alle porte di Tebe),
tutti sono convinti che Gott mit uns, "gli dei sono con noi", come
reclamano sia il persiano Ciro sia Alessandro Magno che ostenta alle truppe (…)
le viscere delle vittime da cui trae auspici favorevoli. Tutti - come Netanyahu
l'altroieri, come Pericle nel 430 - sono il Bene contro il Male, in una
sindrome DMA (Dicotomizzazione, Manicheismo, Armageddon, secondo Johan Galtung)
che non lascia scampo. La distanza dalla "verità", naturalmente,
varia, ma anche le narrazioni più auguste sanno di manipolazione: nel
Panatenaico il retore Isocrate celebra la grandezza di Atene (479-431 a. C.),
che abbatteva tirannidi e garantiva prosperità agli alleati, ma - al pari degli
odierni cantori della pax Americana dimentichi dell'ex Jugoslavia o dell'Iraq -
omette di citare i massacri dell'imperialismo ateniese, a cominciare dalla
distruzione della piccola isola di Melo, rea di volersi mantenere neutrale
nella guerra (416 a. C.: il famoso "dialogo dei Melii" in Tucidide è
l'illustrazione impietosa della legge del più forte). Una volta scoppiato il
conflitto tra Atene e Sparta, gli Stati "si scontrarono in guerra,
sobillati dai demagoghi e dai guerrafondai che volevano la guerra reciproca,
senza che ci fosse nessuno a interporsi per separarli" (Plutarco, Cimane
19.3). Ecco: la mediazione fu impossibile perché dentro gli Stati il clima di
sospetto non tollerava dissenso, sebbene i più diffidassero della retorica del
"vincere o morire", della mistica del sacrificio, dei costanti
richiami all'eroismo per conto terzi (ché poi, non è che Pericle entrò in
guerra per distogliere lo sguardo dalle sue grane personali? Non è che magari
Cleone dava fuoco alle polveri per coprire le sue malversazioni? non è
che...?). Il troiano Antenore propose saggiamente di chiudere la guerra di
Troia restituendo Elena ai Greci (Iliade 7.345): è passato alla storia come il
traditore per antonomasia. Nel 415ad Atene anche chi era contrario alla
spedizione iri Sicilia - destinata alla catastrofe - "stava in silenzio
per paura di apparire un cattivo patriota votando contro" (Tucidide 6.24).
Nel 405, dopo la disastrosa sconfitta di Egospotami, Cleofonte minacciò di
sgozzare chiunque avesse solo pronunciato la parola "pace" (Eschine,
La mala ambasceria 76). E così mille altre volte: la propaganda e la disinformazione
servono a impressionare, a intimidire il nemico e a consolidare con violenza il
fronte interno: il conto iperbolico dei propri soldati o dei nemici uccisi,
l'esibizione di flotte senza fine, la damnatio memoriae degli avversari
(secondoErodoto5.67, a Sicione, nella guerra contro Argo, furono proibiti i
poemi epici perché parlavano troppo degli "Argivi": cancel culture
all'antica?). Putin mostra la Russia ricca in barba alle sanzioni, così come
Trasibulo di Mileto dinanzi all'ambasciatore del nemico mette in piazza ricche
tavole imbandite (Erodoto 1.21). Si impressiona infierendo sui prigionieri
(buttati in mare, stuprati, venduti come schiavi, sgozzati a sangue freddo,
crocifissi, mutilati, usati come scudi umani), e ricorrendo a pratiche che a
scuola credevamo relitti di usanze primitive (insultare e sfigurare il cadavere
del nemico, uccidere ogni Troiano maschio, "anche chi la madre porta
ancora nel ventre") e oggi sono invece i servizi dei tg. Non è
l'eccezione: (…). La tecnica della guerra non conosce distinzioni né limiti:
essa è, per definizione, uno stato d'eccezione rispetto a ogni regola",
perché (Tucidide 1.122) la guerra "procede meno di ogni cosa secondo leggi
prestabilite; invece, essa escogita da se stessa molti mezzi a seconda delle
circostanze". Impadronitosi degli uomini, "Ares impazza alla
rinfusa", "Ares è comune, e uccide chi uccide". Soprattutto (…)
"quando si comincia una guerra non si può più tornare indietro": non
lo permette la costante illusione della guerra-lampo (da Agamennone a Pericle a
Brasida), non lo permette la costante fiducia in un rivolgimento favorevole
(Kuleba che rievoca Milan-Liverpool del 2005), non lo permette il terrore di
vanificare i sacrifici già compiuti, come paventa Ulisse nel II libro
dell'Iliade, o, ancora nel 415 a.C., Alcibiade che sostiene contro il più
prudente Nicia la necessità di proseguire la fatale campagna di Sicilia
(Tucidide 6.48). Enea, un retore di Gaza del V secolo d.C., scrisse un giorno
che l'unico vantaggio della guerra sulla pace è che essa "ci induce a
parlar molto gli uni con gli altri". Nella nostra sovrana impotenza, ci
resta la parola, specie dinanzi ai giovani che crescono in questo clima di
sangue, e che per ardore, speranza e coraggio sono sempre i più pronti alla
guerra (Aristotele, Retorica 2.1389a). (…).
Perché (ancora Tucidide, 3.82; o Gino Strada?) "la guerra è un
maestro violento, e rende conforme alle circostanze lo spirito della
gente": solo parlandone, parlandone, e demistificandone la retorica, si
può provare a evitare che diventi anche - un verso di Giorgio Seferis, che
riscrive l'Eschilo da cui siamo partiti - un "cambia-valute d'anime".
Di seguito, l’intervista di Salvatore Cannavò - “Hamas non è solo terrorismo e Israele ha
sbagliato risposta” – a Lucio Caracciolo pubblicata sulla stessa edizione
de’ “il Fatto Quotidiano”: (…). Dedicate molto spazio a Hamas: pensa
che pagherà un prezzo per questa guerra? “La cosa più importante su Hamas, che
svisceriamo nel numero, è che non chiaro cosa ci sia dentro. Il grado di
controllo della testa politica appare limitato (…). Inoltre, a bocce ferme, in
campo palestinese si faranno i conti e qualcuno potrà chiedere a Hamas perché
ha provocato Israele in una reazione abbastanza probabile. Va anche detto che
l’operazione del 7 ottobre non è stata solo delle Brigate al-Qassam, oltre al
Jihad islamico ci sono stati anche cani sciolti e probabilmente semplici
criminali che hanno approfittato della situazione. L’operazione non è andata
esattamente secondo i piani e se fossi un civile palestinese qualche domanda la
porrei”.
Cosa pensa dell’accusa a Hamas di essere
un’organizzazione terrorista? “Il terrorismo è una modalità di guerra
particolarmente vile, ma non è un soggetto politico. Tanto che il più noto
terrorista palestinese ha avuto un Nobel per la Pace (Arafat). Non c’è una
definizione incontrovertibile. Il 7 ottobre, Hamas ha certamente utilizzato un
metodo terroristico, ma nel definirlo semplicemente terrorista, come al Qaeda,
si perde di vista che è un movimento di massa, che ha vinto le elezioni, che è
stato sostenuto prima da Rabin in funzione anti Arafat, e anche da Netanyahu
che favoriva il trasferimento di soldi qatarini verso Hamas”.
E Netanyahu? Lui pagherà un prezzo? “Se non
lo paga adesso non paga più. La mia previsione è che il suo futuro oscilli tra
un pensionamento dorato e il carcere. È vero che ci ha abituato a sette vite,
ma le ha spese tutte. Un governo futuro non potrà averlo come capo a meno che
la guerra non sia eterna”.
Paolo Mieli nei dibattiti in tv chiede
provocatoriamente: «Cosa avreste fatto al posto di Netanyahu?». “Si può
rispondere tranquillamente: Israele ha fatto quello che quasi tutti si
aspettavano. Ma non credo che a mente fredda possa essere considerato utile
allo Stato di Israele. La vendetta sproporzionata, che sempre caratterizza
Israele, non lo ha favorito. Nel giro di pochi giorni i bombardamenti, nella
percezione internazionale, hanno indotto a perdere di vista il massacro del 7
ottobre e a schierarsi con i palestinesi. L’elemento della propaganda è
decisivo in un tale contesto, e quindi è stato un errore. Israele sta facendo
la guerra che Hamas voleva, asimmetrica in cui i terroristi devono solo
perpetuare se stessi. Tu che avresti fatto, chiede Mieli? Rispondo con un
paradosso: nulla. Il problema non è vendicarsi, ma proteggere il proprio popolo
e, nel caso di Israele, anche quello della diaspora che fa i conti con ondate
di antisemitismo o di simpatia per i palestinesi. Se Israele, dopo una pausa di
qualche giorno, avesse deciso di non entrare a Gaza, da cui era scappata, ma di
chiudere tutte le uscite in maniera seria cominciando a colpire selettivamente
i capi di Hamas, anche in Iran nel caso, avrebbe stravinto la guerra di
propaganda e salvato molte vite tra gli ostaggi o tra i propri soldati. E
avrebbe potuto presentarsi a un futuro tavolo negoziale in una posizione di
forza politica e morale”.
È vero che c’è una nuova stagione di
iniziativa degli Stati arabi? “Non mi pare. Il Qatar gioca sempre su tutti i
tavoli. Essendo un giacimento con uno Stato sopra si tiene buoni tutti. Parla
con Usa, Russia, israeliani e palestinesi, cercando di comparsi la
tranquillità. Doha sembra un centro congressi negoziale a livello mondiale, un
hub di mediazione, ma non una potenza politica. La potenza classica dell’area è
l’Egitto, ma è in seria difficoltà e teme l’afflusso di migliaia di palestinesi
tra cui molti Fratelli Musulmani, nemici di Al Sisi. La Turchia dopo aver
incontrato Netanyahu e aver stabilito rapporti sotto banco con Israele è
diventato lo sponsor dei “terroristi” liberatori di Hamas, cercando di
presentarsi come il leader islamico che copre tutto lo spettro del mondo
musulmano. L’Iran da una parte ha sponsorizzato Hamas, ma non vuole arrivare
allo scontro con gli Usa perché subirebbe gravi perdite. Non si intravede un
attore e la guerra durerà abbastanza con un riposizionamento di tutti quanti e con
nessuna speranza immediata di un accordo tra israeliani e palestinesi”.
Il New York Times si domanda se gli Usa
possono concentrarsi sulla Cina mentre devono gestire due guerre
contemporaneamente. Che risponde? “No, non ce la farà. (…). …ci sono contatti
notevoli tra Usa e Russia e anche con la Cina, per stabilire regole d’ingaggio
che evitino ai conflitti in corso di sfociare in una guerra più ampia che gli
Usa, con la perdita di identità, non può gestire”.
E l’Italia “Non può fare molto. Il fatto che
si impegni sul fronte umanitario è importante, non è solo un atto simbolico,
non dimentichiamo che abbiamo un migliaio di soldati lungo la frontiera
Libano”.
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