“Noi continuiamo a votare, ma le decisioni importanti sono prese altrove, dalle élite politiche ed economiche. E la post-democrazia avanza”, intervista di Roberto Casalini e Mario Portanova al sociologo e politologo inglese Colin Crouch riportata nella stessa edizione del mensile “Millennium”: (…). Come definirebbe oggi la post-democrazia? «La post-democrazia indica una situazione dove tutte le forme della democrazia continuano a funzionare, ma sono diventate un rituale, perché le decisioni importanti sono prese altrove, tra le élite politiche ed economiche. Non ho mai detto che nei Paesi avanzati siamo già nella post-democrazia, perché le nostre politiche sono ancora vivaci, ma che andiamo in questa direzione».
In quali Paesi, oggi, vede più forte l'affermarsi di tendenze post democratiche? «In tutti! Ma forse soprattutto negli Stati Uniti, dove l'influenza delle lobby è particolarmente forte, e dove la partecipazione alle urne è più bassa che nella maggioranza dei Paesi dell'Europa occidentale».
Può fare qualche esempio di decisioni su grandi temi che, in tempi recenti, secondo lei sono state prese passando sopra le democrazie nazionali? «La deregulation dei mercati finanziari negli anni '90, che ha condotto alla crisi degli anni dopo il 2008. Fu il prodotto di una pressione delle grandi banche sul governo americano, non il frutto di una discussione nei parlamenti occidentali e nell'Unione europea».
Quali poteri alternativi alla politica vede crescere maggiormente oggi? «Nelle nostre economie dominate dalle grandi imprese globali, i governi di diversi Paesi si fanno concorrenza per attrarre i loro investimenti. Così riducono la tassazione alle aziende, sottraendo risorse ai cittadini e ai servizi pubblici, tagliano gli investimenti nella sanità e nella salvaguardia dell'ambiente, riducono il costo del lavoro, ma anche la sicurezza di chi lavora. Questa concorrenza ruba poteri al mondo politico e sociale a favore di quello economico».
Quando scrisse "Post-democrazia", vent'anni fa, Internet accendeva speranze di maggiore partecipazione. Oggi ci appare dominato da pochi "superricchi" che non rispondono ad alcun potere superiore. Quanto ha contato questa evoluzione nel renderci sempre più "post-democratici"? «Ha contato molto, non c'è dubbio. Rimane vero che movimenti privi di risorse e di potere economico possono usare Internet per organizzarsi e farsi conoscere a costi bassi, per esempio gli ambientalisti, ma anche i lavoratori precari. Ma i "superricchi" hanno imparato a usare Internet, soprattutto per produrre programmi "bot" che fanno credere agli utenti di comunicare con un'altra persona. Questi programmi possono bombardare i cittadini con messaggi persuasivi, fatti su misura per i singoli, pro o contro certe posizioni politiche o certi gruppi sociali».
Secondo lei i social media e l'intelligenza artificiale dovrebbero essere regolamentati, specie per gli aspetti che hanno a che fare con la propaganda e i temi politici più caldi? «Sì, perché la democrazia ha bisogno di un certo livello di uguaglianza tra cittadini nell'accesso al web, e anche di una protezione contro le bugie. Serve una regolamentazione leggera, che limiti le disuguaglianze e assicuri la trasparenza. Per i social media c'è un'altra questione. Per gli editori di libri e giornali esistono regole contro la diffamazione. Le grandi imprese di Internet insistono a dire che queste regole non le toccano, perché non sono editori ma solo "piattaforme". È una furbata: le leggi che valgono per gli editori devono valere anche per le piattaforme».
L'Unione europea è additata come simbolo dei tecnocrati che impongono le loro regole ai governi e ai popoli. Ma è davvero così forte rispetto ad altri poteri globali? «Certo, l'Ue è tecnocratica: tutte le autorità nel nostro mondo complicato hanno bisogno di competenze tecnocratiche. La democrazia ha bisogno del loro aiuto, che deve servire i nostri interessi. La politica deve decidere gli obiettivi e la qualità etica dei mezzi usati per raggiungerli. La burocrazia e la tecnocrazia assicurano l'implementazione. La tecnocrazia sembra particolarmente forte nell'Ue a confronto con le politiche nazionali, perché la politica europea deve soddisfare tanti interessi diversi, e l'impatto specificamente "politico" è percepito come debole. Ma il punto più importante è che l'Ue è la sola organizzazione internazionale permeata dalla democrazia. Non solo un Parlamento con veri poteri, ma rapporti e legami con le istituzioni e con la società civile dei Paesi aderenti. Ci sono molte organizzazioni internazionali che influiscono le nostre vite: soltanto l'Ue possiede questi elementi democratici».
L'anno prossimo si voterà il nuovo Parlamento europeo. Secondo lei i suoi poteri andrebbero rafforzati? «Sì. Un'innovazione particolarmente preziosa sarebbe l'elezione della Commissione da parte del Parlamento. Questo cambiamento renderebbe più forte la democrazia dell'Unione e incoraggerebbe una collaborazione più stretta tra i partiti nazionali nel parlamento».
A proposito, da cittadino britannico che bilancio fa della Brexit, otto anni dopo il referendum? «Tra noi c'è una grande disillusione. Ci troviamo isolati, il commercio è diventato più difficile, e siamo esclusi dalla cooperazione in tantissimi campi politici: per esempio, per costruire l'economia "verde", per combattere la crisi climatica e l'immigrazione illegale, per regolamentare il sistema finanziario e combattere l'abuso delle nuove tecnologie».
Fin dagli anni Settanta, lei ha un saldo rapporto con l'Italia, come studioso e non solo. Quando scrisse "Post-democrazia" prese ispirazione anche dalle vicende politiche e sociali italiane? «Sì. Ho scritto il libro quando lavoravo all'Istituto universitario europeo a Firenze. Una figura mi influenzò nella formulazione della teoria fu Silvio Berlusconi. Fino agli anni '90, l'Italia possedeva partiti, particolarmente la Dc e il Pci, forse "troppo" fortemente radicati nel popolo. Poco cambiava tra un'elezione e un'altra. Poi, dopo le vicende di corruzione che colpirono la Dc e il Psi, e dopo la fine dell'Unione Sovietica, tutto crollò, velocemente. Esisteva un vuoto. Berlusconi riempì una parte di questo vuoto con il suo partito nuovo, Forza Italia. Che si affermò non grazie a un radicamento nella società italiana, ma grazie alle sue imprese. Un partito-azienda, come si diceva spesso in Italia. Fu un fenomeno perfettamente post-democratico».
In Italia abbiamo avuto numerosi governi "tecnici", ultimo quello guidato da Mario Draghi, banchiere ed economista che non aveva mai fatto politica, almeno in senso tradizionale, in vita sua. Per lei è anche questo un esempio di post-democrazia? «Sì, ma i governi tecnici di tipo italiano e le grandi coalizioni, come quelle tedesche e austriache, si impongono quando risulta impossibile dare vita a un governo "normale", con maggioranza e minoranza entrambe chiare e forti. Spesso forniscono un livello alto di competenza e di buon governo, ma la qualità democratica diviene debole. È importante che un Paese possa tornare a una situazione più "normale" dopo le elezioni».
A Draghi è succeduto un governo benedetto da un ampio consenso elettorale, guidato da una presidente del Consiglio cresciuta nelle sezioni di periferia del suo partito. Al di là dei giudizi politici sul governo Meloni, la vede come una vittoria della democrazia sulla post-democrazia? «Ma l'Italia ha oggi una situazione che assomiglia a quel che spesso accade da noi nel Regno Unito: una maggioranza che non è il risultato dei voti dei cittadini, ma di regole elettorali che producono maggioranze "false"».
Dove si ha, per la prima volta, una forte riduzione di affluenza alle urne? In Italia è un fenomeno recente, ma di forte portata. «In molti Paesi questo processo è incominciato negli anni '80, e spesso (nel Regno Unito, e in particolar modo negli Stati Uniti) ci sono livelli più bassi che in Italia. Che molti cittadini non si riconoscano più nei partiti, che prima rappresentavano le loro identità, è un segno molto preoccupante».
Lei associa post-democrazia e corruzione. In che termini? «La post-democrazia vuol dire che i cittadini disertano la politica. Questo vuoto rende possibile un livello alto di corruzione».
Lei scrive che la coscienza di genere sta diventando qualcosa di simile alla coscienza di classe. Ce lo spiega? «Malgrado i progressi, che continuano, le donne trovano ancora barriere, discriminazione e trattamenti prevaricatori e odiosi da parte di molti uomini. Ma le donne sono più consapevoli di ieri che tutto ciò non può essere accettato, e sono sempre più coraggiose. Quella di genere è una divisione ovvia e chiara, che dà luogo a conflitti politici. Ma (con certe eccezioni, come il partito apertamente misogino nella Spagna, Vox), normalmente la misoginia non ha del tutto conquistato i partiti: le donne sono una maggioranza! I conflitti di genere ci mostrano che la post-democrazia non ha conquistato totalmente la nostra politica».
E le disuguaglianze, altro grande tema della nostra epoca, sono collegate alla tendenza verso la post-democrazia? «Le cause principali della crescita della disuguaglianza economica sono una globalizzazione non regolamentata ed economie dominate dalla finanza. Ma le tendenze verso la post-democrazia contribuiscono alla disuguaglianza, perché la politica è sottratta al controllo di un pubblico ampio e posta sotto il dominio delle élite affaristiche».
Lei scrive: "Il 'post' evoca l'idea di una società che sa cos'era e che non sarà più, ma non sa dove sta andando". Secondo lei dove stanno andando le democrazie "occidentali"? Ci sono tre possibilità. Potremmo continuare verso la post-democrazia, con un'apatia sempre crescente tra i cittadini. Oppure vedere passi verso una "soluzione" che rifiuta la democrazia liberale a favore di un tipo di populismo radicato in politiche di odio e xenofobia. Che guardano con favore crescente a leader "forti", rifiutando i vincoli della democrazia e della legge stessa. Vediamo queste tendenze negli Stati Uniti con Donald Trump, nella Russia di Vladimir Putin, nel Regno Unito, nell'Italia, nell'Ungheria, nella Turchia, nell'India, e molti altri Paesi. In questo modo potremmo passare dalla post-democrazia verso un'assenza della democrazia. In terzo luogo, potremmo vedere iniziative per rianimare la democrazia tra i cittadini, tra chi cerca nuovi modi per esprimersi e partecipare che potrebbero provocare risposte costruttive da parte dei vecchi partiti, e produrre nuove istituzioni democratiche. In questo momento questo terzo approccio è il più debole».
Ma allora c'è ancora spazio per "combattere la post-democrazia", (…). «Ci sono movimenti importanti di diversi tipi: per una maggiore trasparenza della vita politica, per nuove forme di azione come assemblee di cittadini, per combattere la minaccia al nostro clima: un problema enorme, che quasi tutti i partiti sottovalutano».
Che consiglio darebbe a un partito di destra, su questo fronte? E a un partito di sinistra? «Darò lo stesso consiglio a tutti: uscite dal vostro isolamento parlamentare e create legami veri con i cittadini e con le comunità locali. Cercate gruppi leali, che condividano l'identità con voi. Ma anche elettori che non vi "appartengono" e che potete attrarre di volta in volta. Troppa dipendenza dai primi vi farà restare in una nicchia che non può crescere; troppa dai secondi vi farà perdere tutta la vostra identità. Dovrete costruire un certo livello di animosità tra i vostri sostenitori e i vostri antagonisti, ricordando tuttavia che gli antagonisti in democrazia non sono nemici. I rapporti devono rimanere cortesi, anche amichevoli, se volete evitare la politica dell'odio, che oggi sta ferendo la democrazia americana. Infine, combattete la sudditanza della politica dalle grandi imprese globali, che sta riducendo la capacità delle democrazie nazionali. Ma, paradossalmente, questa strategia ha bisogno di una collaborazione stretta con altri Paesi e gruppi di Paesi. In un mondo globalizzato la sovranità dev'essere condivisa, altrimenti sarà distrutta».
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