"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 21 novembre 2023

Memoriae. 97 Michele Serra: «Se il miliziano di Hamas che dice entusiasta alla madre, al telefono, "ho ucciso sei ebrei", dicesse "ho ucciso sei persone", cambierebbe la percezione del mondo sua, di sua madre e di tutti noi».


Ha scritto Michele Serra in “Basta luoghi comuni sugli ebrei” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 17 di novembre 2023: (…). …basterebbe leggere la grande letteratura ebraica della prima metà del Novecento (a partire da Giobbe di Joseph Roth) per sapere che i milioni di ebrei in fuga dai pogrom dell'Est Europa, così come i milioni di vittime della Shoah, erano in larghissima maggioranza gente comune. Lavoratori, impiegati, massaie, negozianti. Se si preferisce un approccio più "pop", suggerirei quel capolavoro che è il cartoon Fievel (prodotto da Steven Spielberg); o il graphic novel Maus, di Art Spiegelman. L'idea che dire "ebrei" equivalga a definire una cricca di ricchi "mondialisti" è un falso storico senza il quale l'antisemitismo perderebbe quasi per intero la sua consistenza. La finanza ebraica esiste, esattamente come esistono la finanza cinese, wasp (white anglo saxon protestant), francese, turca, eccetera. Ma non definisce un popolo e tanto meno "una razza", è solamente uno dei tanti esiti che la secolare diaspora ebraica ha sortito. Gli ebrei non sono tutti finanzieri così come non sono tutti scrittori comici. Molti non sono nemmeno sionisti, e non condividono l'idea che Israele debba restituire una identità territoriale agli ebrei. Woody Allen è ebreo, culturalmente lo è fino al midollo, ma tra lui e un rabbino ortodosso, o un colono israeliano, c'è la stessa distanza che separa un arabo laico, come Tahar Ben Jelloun, da un ayatollah iraniano. Si collocano ai due lati opposti della civiltà. (…). …il solo modo di uscirne sarebbe che "nessuno sia più etichettato". Ovvero che ognuno possa finalmente essere una persona, quella persona, senza che le radici religiose o nazionali o etniche o familiari bastino mai a sovrastare la sua individualità. Utopia molto remota, a pochi importa sapere "chi sei" come individuo, a troppi serve catalogarti a prescindere. Si fa prima. Se il miliziano di Hamas che dice entusiasta alla madre, al telefono, "ho ucciso sei ebrei", dicesse "ho ucciso sei persone", cambierebbe la percezione del mondo sua, di sua madre e di tutti noi. Se chi bombarda Gaza smettesse di pensare che ha ucciso migliaia di palestinesi ostili e capisse che ha ucciso migliaia di persone, l'intera scena ne uscirebbe totalmente mutata. Ma siamo lontanissimi dal salto di civiltà che la dichiarazione dei Diritti dell'Uomo indica. Siamo ancora tutti, prevalentemente, i membri di una delle tribù che popolano il pianeta.

«Adel, parigino fuggito da Gaza: “Ho visto morire troppi bambini”», di Pascale Pascariello pubblicato sul giornale online “Mediapart” e riportato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, 20 di novembre: Le bombe cadevano vicino a casa nostra. Si sentivano delle grida. E ogni volta mi dicevo che la prossima sarebbe stata per noi". Adel, 74 anni, è rientrato dalla Striscia di Gaza a Parigi lo scorso 5 novembre, dopo essere stato evacuato attraverso l'Egitto, e ha potuto ritrovare i suoi due figli, Lina e Shadi (tutti i nomi sono di fantasia). Adel era partito a settembre per andare al matrimonio di uno dei suoi nipoti. A Gaza vivono le sue sorelle e i cugini. "L'ultima volta che ero stato a Gaza era dieci anni fa- racconta -. Attraversare i confini tra Gaza e l'Egitto è molto complicato. All'epoca rimasi bloccato per più di un mese". Lo incontriamo qualche giorno dopo il suo rientro in Francia, nella sua casa della periferia parigina, insieme alla figlia Lina. Adel è arrivato in Francia nel 1983 per terminare gli studi di medicina, specializzandosi in pediatria all'ospedale Necker di Parigi. Quando sono iniziati i bombardamenti, si trovava a casa della sua famiglia, in una zona residenziale della città di Gaza. "Uno dei vicini è stato avvertito dai servizi segreti israeliani che la sua casa sarebbe stata bombardata - racconta -. Lo fanno in certi casi. Telefonano e si rivolgono alla persona chiamandola per nome". Il vicino ha poi allertato gli altri abitanti del quartiere: "Erano circa le 16 _- continua -. Ho preso solo il passaporto, pensando che sarei tornato". Poche ore dopo ha saputo che anche la sua casa era stata bombardata. Lina, al suo fianco, lo ascolta a testa bassa: "Mio padre è sempre stato evasivo, per proteggerci. Anche quando non aveva nulla da mangiare, diceva che andava tutto bene". Adel sorride: "È vero che rischiavo la vita, ma ero molto preoccupato per la mia famiglia qui in Francia. Vedevo la morte intorno a me e sapevo che se fosse stato il mio turno, non avrei potuto neanche abbracciarli. Era mio dovere rassicurarli". È quello che Adel ha continuato a fare anche quando ha lasciato Gaza trovando rifugio a Rafah: "Sentivamo le bombe cadere intorno a noi - continua -, ma rassicuravo i miei figli appena potevo". Il 13 ottobre Adel ha raggiunto il sud della Striscia dove è stato accolto a casa di un amico: "Ho chiamato il consolato di Francia a Gerusalemme. Mi è stato detto di raggiungere la frontiera con l'Egitto, che sarebbe stata aperta alle 9 del mattino. Ho passato lì tutta la giornata, con altri franco-palestinesi. Ma in serata siamo dovuti tornare ai rifugi". L'alloggio, "pensato per una famiglia, ne conteneva (…) trenta persone. All'inizio potevamo comprare del pane - racconta ancora -, ma con il passare dei giorni le file davanti ai panifici diventavano sempre più lunghe. A volte aspettavamo un'ora e quando toccava a noi non c'era più niente. Quindi abbiamo cominciato a farci il pane da soli". Agli incessanti bombardamenti si aggiungevano "le notizie quotidiane della morte di persone care. La mancanza di acqua, di cibo, di sonno... erano condizioni di vita indescrivibili. Alcuni avevano attacchi di panico, altri erano colpiti da vomito o diarree. E non avevamo la possibilità di lavarci". Pochi giorni prima di essere evacuato in Egitto, Adel ha perso un cugino: "Si chiamava Ahmed. È morto con la moglie Hana e i due figli, Nadia, di 15 anni, e Siham, di 8. La loro fattoria è stata bombardata". Il dolore si mescola alla rabbia. Adel non riesce a capire come "i Paesi europei, gli Stati Uniti e i Paesi arabi permettano che i civili vengano uccisi, lasciati morire, tagliati fuori da tutto. È un crimine organizzato. Come si può accettare che dei bambini vengano uccisi? Come si può accettare di tagliare acqua e cibo a due milioni di persone e di bombardarle?". Adel è andato a proporre il suo aiuto all'ospedale di Rafah. "In Francia, quando un bambino muore in ospedale, malgrado tutti gli sforzi fatti, proviamo un senso di fallimento. A Gaza ho visto bambini morire senza poter fare nulla. Un bambino che ha un'emorragia è condannato, perché non possiamo prenderci cura di lui, assistiamo impotenti alla sua morte. È ancora vivo, piange ma tra un quarto d'ora sarà morto. Nell'ospedale dove stavo - continua - l'elettricità andava e veniva. Per alcuni pazienti, significa la morte. Senza prodotti sufficienti per l'anestesia, bisogna fare delle scelte. I punti di sutura si mettono senza e si lascia l'anestetico per interventi più importanti. Ma a volte il paziente riceve mezza dose. Meglio di niente. Soffre, ma non troppo. Ecco a cosa siamo ridotti. Non so se si possa ancora parlare di umanità. Queste immagini mi perseguitano - continua -. Da quando sono tornato, non dormo, li rivedo tutte le sere, rivedo i cadaveri uno affianco l'altro, i bambini in fin di vita. Cosa hanno fatto per essere uccisi? Cosa hanno mai fatto queste famiglie? Per loro sono 'danni collaterali'. Per me è genocidio". Adel, che ha subito un'operazione al cuore, era partito da Parigi "con più farmaci del necessario": "E il consolato ha potuto fornirmene alcuni. Senza, non è detto che il mio cuore avrebbe retto". La sera del 28 ottobre, quando Israele ha intensificato i raid aerei su Gaza, "ci siamo ritrovati tagliati fuori dal mondo. Ho pensato al peggio". Pochi giorni dopo, venendo a sapere che cominciavano le evacuazioni dalla Striscia di Gaza dei cittadini stranieri e con doppia cittadinanza, Adel ha chiamato il consolato. Ma nella lista delle persone che sarebbero state evacuate il 1° novembre, il suo nome non figurava: "In quel momento mi è crollato tutto addosso. Avevo pensato che, dato il mio stato di salute, sarei stato tra i primi. Ma tra i francesi è stato evacuato prima il personale delle Ong. Pensavo che ci avrebbero lasciato morire". L'attesa è stata "molto dura". Poi finalmente il 3 novembre è arrivata la chiamata: "Si presenti domani mattina alle 8 alla frontiera, mi è stato detto dal consolato. Solo quando ho attraversato la frontiera egiziana, ho saputo che non sarei morto". Le autorità egiziane gli hanno timbrato il passaporto alle 16. "È stato un grande sollievo. A volte l'Egitto può impiegare due mesi prima di autorizzarti a partire". Il consolato di Francia aveva messo a disposizione un pullman per i trasferimenti: "Siamo partiti alle 20. Il viaggio è durato tuttala notte. Lungo tutto il percorso c'erano posti di blocco dell'esercito egiziano. Per percorrere 500 chilometri ci abbiamo messo più di 20 ore. Siamo arrivati in albergo alle 8 del mattino di sabato 4 novembre". Prima della guerra, Lina, che è agronoma, progettava di andare a vivere a Gaza. Per qualche tempo tutta la famiglia aveva pensato di stabilirsi lì. Adel ci mostra delle foto sul suo cellulare. "Questi sono i miei figli quando erano venuti a Gaza, credo che fosse il 1995. Lina aveva cinque anni. Queste foto erano nella casa di famiglia che è stata bombardata. È la storia della mia vita", dice. Adel ha lo stesso nome di suo padre, morto sotto i bombardamenti dell'esercito israeliano negli anni '50. Dal suo ritorno, Adel si sente "tradito dalla Francia che non condanna fermamente i crimini commessi": "Siamo additati come terroristi. Abbiamo paura di parlare e ci viene costantemente chiesto di giustificarci per dire che non siamo terroristi". Il giorno dopo il nostro incontro, l'11 novembre, Adel è stato informato della morte di un altro cugino, Bachir: "Stava attraversando a piedi un posto di blocco dell'esercito israeliano, a Gaza, una rotatoria che separa il nord e il sud della città. L'esercito ha iniziato a sparare e suo figlio e sua moglie sono riusciti a fuggire, ma lui no. Aveva una sessantina di anni, ma era malato e camminava con un bastone. Era un cugino a me molto caro, che avevo visto pochi giorni prima dell'inizio dei bombardamenti". Sui social network sono circolate delle foto in cui si vedono dei soldati israeliani che aiutavano Bashir ad attraversare. Secondo la famiglia di Adel, sono state diffuse dall'esercito israeliano: "È stata la nipote di Bachir a trovare queste foto sui social. Questa è propaganda. È insopportabile – osserva Shadi, il figlio di Adel -. Abbiamo visto anche un'altra foto, di cui non conosciamo l'origine, e che mostra Bashir morto, steso a terra, con del sangue sulla schiena, come se fosse stato sparato alle spalle. Da allora – aggiunge - non abbiamo più notizie di sua moglie e di suo figlio".

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