"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 19 novembre 2023

MadreTerra. 19 Stefano Mancuso: «L'intero mondo ricco sta chiudendo i propri confini anche ai ridicoli numeri odierni di migranti. Cosa accadrà quando miliardi di persone si muoveranno per sopravvivere?».

 
“Se 35 gradi vi sembrano pochi”, testo di Stefano Mancuso – botanico e Direttore del “Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale” della Università di Firenze – pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” nelle edicole da oggi, 19 di novembre 2023: In una manciata di anni, se paragonati alla vita della Terra, la specie umana è diventata una forza tellurica in grado di mutarne la storia. L'avanzata della nostra specie e le sue attività negli ultimi 10.000 anni hanno cambiato il metabolismo energetico del pianeta con una forza paragonabile soltanto alla colonizzazione della Terra da parte delle piante. Gli esiti di questa rivoluzione sono al momento del tutto al di fuori delle nostre possibilità di previsione. La verità è che, sebbene anche il solo banale buon senso suggerisca di evitare eccessivi danni ai nostri ecosistemi, non sappiamo cosa fare per limitare il nostro impatto sul pianeta senza rallentare la crescita economica; e il fatto che sembriamo incapaci di porre un freno anche al più insignificante dei consumi non pare il viatico migliore per un futuro felice. In ogni modo, nulla si potrà ottenere senza innovazione non solo tecnologica, ma soprattutto sociale. Quali che siano le soluzioni che immagineremo, di una cosa possiamo essere certi: perché esse funzionino, dovranno avere un impatto fondamentale sul modo in cui operano le nostre città. Sono le città, infatti, il luogo della nostra aggressione all'ambiente, nonostante occupino soltanto una esigua porzione della superficie terrestre. Se vogliamo avere un'idea strettamente quantitativa dell'impatto delle città dobbiamo rivolgerci ai numeri. E i dati ci dicono che oltre il 70% del consumo mondiale di energia e il 75% del consumo di risorse naturali sono a carico delle città. Così come lo è l'emissione di circa il 75% della C02 e la produzione del 70% di rifiuti. Uno studio del 2021 sulle emissioni di gas serra da parte di 167 città distribuite su tutto il pianeta ha dimostrato che 25 megalopoli da sole sono responsabili per la produzione del 52% delle emissioni di gas serra. Le città asiatiche emettono la maggior parte dei gas a effetto serra e la maggior parte delle città dei paesi sviluppati produce emissioni di gas serra pro capite significativamente più elevate rispetto a quelle dei paesi in via di sviluppo. Se pensiamo che entro 25 anni da oggi le città saranno chiamate a ospitare ulteriori due miliardi e mezzo di persone, appare evidente che non è possibile immaginare nessuna seria soluzione dei problemi legati al nostro impatto che non preveda una rivoluzione urbana. Il problema da questo punto di vista sembra doppio: le città, infatti, sono la sorgente principale del nostro impatto sul pianeta e delle modifiche ambientali che ne conseguono, e allo stesso tempo sono il punto più vulnerabile dell'umanità sul quale quegli stessi cambiamenti agiscono. Cercherò di semplificare il discorso prendendo ad esempio il riscaldamento globale, il principale e più pericoloso fra i cambiamenti indotti dall'uomo al nostro ambiente. Come immagino sappia ormai chiunque, il riscaldamento globale è dovuto alle emissioni di gas serra, il più importante dei quali, per le quantità prodotte dalle attività umane, è la C02. A seguito delle emissioni di questi gas, la loro concentrazione nell'atmosfera del pianeta aumenta, impedendone il raffreddamento. Così la temperatura media aumenta a una velocità mai sperimentata prima: siamo già a 1,5 °C in più rispetto alla temperatura del periodo preindustriale e le previsioni per fine secolo ci dicono che l'aumento si collocherà da qualche parte fra 2 e 3 °C. Da che cosa dipenda questo riscaldamento non c'è nessun dubbio. Ciò che, invece, ancora non sappiamo con ragionevole certezza è quali saranno le sue conseguenze per il pianeta e soprattutto per le città, la nostra nuova nicchia ecologica, il luogo dove a fine secolo vivranno ben oltre 7 miliardi di persone. Il motivo dell'incertezza è legato al fatto che la temperatura influenza qualsiasi processo che avviene sul pianeta, sia esso fisico, chimico, biologico, ecologico. Così sapere cosa accadrà, ad esempio, al clima del pianeta, alla circolazione atmosferica, al ciclo dell'acqua, al livello dei mari e dei ghiacci è molto difficile da prevedere con il dettaglio necessario. Di una cosa, tuttavia, possiamo essere certi. I luoghi dove questi cambiamenti faranno più danni sono proprio le città. Moltissime città del pianeta stanno già affrontando le conseguenze del riscaldamento globale e nel futuro le cose non potranno che peggiorare. Avere modelli affidabili su come evolverà il clima urbano nei prossimi decenni diventa perciò fondamentale se vogliamo provare a immaginare delle soluzioni. Anzitutto può essere utile conoscere cosa scrive in proposito l'Urban Climate Change Research Network. A oggi 350 città sulla Terra sperimentano condizioni di caldo estremo, ovvero periodi di almeno tre mesi in cui la media delle temperature massime non scende sotto i 35 °C. Nel 2050 queste città diventeranno 970. Oggi 200 milioni di persone nelle città vivono in condizioni di caldo estremo, diventeranno 1,6 miliardi entro il 2050. Ancora, sempre entro il 2050, oltre 650 milioni di persone, che vivono in oltre 500 città, potrebbero subire un calo di almeno il 10% della disponibilità di acqua dolce; 2,5 miliardi di persone, che vivono in 1.600 città, potrebbero subire un calo di almeno il 10% delle rese nazionali delle principali colture; oltre 800 milioni di persone, che vivono in 570 città costiere, saranno a rischio di inondazioni. Un elenco abbastanza impressionante cui gli autori hanno dato l'appropriato titolo di The Future We Don't Want. Cosa possiamo fare per rendere le città più resistenti a questi ormai inevitabili cambiamenti? E soprattutto, cosa si sta facendo? Nella stragrande maggioranza delle città non si sta facendo nulla. Poche, illuminate amministrazioni stanno affrontando il problema alla radice, cercando di raffreddare, per quanto possibile, le proprie città. Fra queste è il caso di citare gli sforzi di Seul, che per ridurre al minimo le sue isole di calore e l'inquinamento da polveri sottili ha piantato 16 milioni di alberi, e il tentativo di capitali europee come Parigi o Berlino di rendere il più permeabile possibile la propria superficie urbana, sostituendo spazi impermeabili con spazi verdi e diffondendo le soluzioni per rinverdire i tetti o le superfici degli edifici. Tutte pratiche che permettono di ridurre l'effetto delle isole di calore e che al tempo stesso consentono alla città di adattarsi alle forti piogge che sempre di più caratterizzeranno il nostro futuro. Insomma, qualcosa di pratico si può fare e rapidamente: basta volerlo fare. La nostra specie, come ogni specie, ha dei limiti ambientali all'interno dei quali può sopravvivere. Fra questi, l'intervallo di temperatura nel quale è possibile la nostra sopravvivenza è decisivo. Per millenni l'uomo ha potuto godere di una temperatura media annuale compresa fra circa 11 e 15 °C. All'interno di questa temperatura media, noi esseri umani, insieme alle nostre colture e al bestiame, ci siamo trovati in uno stato ottimale per la crescita e lo sviluppo. Uno studio recente mostra che, con uno scenario di riscaldamento globale invariato (ossia se continuiamo a non fare nulla), nei prossimi 50 anni si assisterà a un riscaldamento tale per cui aree che oggi ospitano all'incirca un terzo della popolazione mondiale sperimenteranno temperature medie annuali superiori a 29 °C. Si tratta di valori termici al momento presenti solo nello 0,8% della superficie terrestre e concentrati principalmente nel Sahara. A questi livelli di temperatura, oltre a essere impossibile la conduzione di qualsiasi attività agricola o di allevamento del bestiame, è letteralmente impossibile sopravvivere. La soglia critica per gli esseri umani, ossia la temperatura del bulbo umido alla quale una persona sana può essere sottoposta per sei ore prima di morire, è di 35 °C. Che, per intenderci, corrisponde più o meno a una temperatura dell'aria di 40 °C in condizioni di Umidità del 75%. Una domanda rilevante è se, e quante volte, questo limite è già stato superato in qualche area del pianeta. Nel 2020 una ricerca riportava che alcune località subtropicali costiere hanno già sperimentato questa temperatura, anche se solo per poche ore. Poiché le regioni potenzialmente più colpite saranno tra le più povere del mondo, possiamo ragionevolmente attenderci che grandi masse migratorie provenienti da queste aree si sposteranno verso settentrione. L'intero mondo ricco sta chiudendo i propri confini anche ai ridicoli numeri odierni di migranti. Cosa accadrà quando miliardi di persone si muoveranno per sopravvivere?

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