Sopra. Jean-Auguste-Dominique Ingres "I piedi di Omero", olio su carta incollata su tela, 1825-27.
“Il genocidio termine tabù: chi ama Israele non taccia”, testo di Tomaso Montanari pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 20 di novembre ultimo: La caccia alle streghe permanente che opprime il discorso pubblico italiano rende pressoché impossibile articolare ragionamenti aperti e problematici intorno a questioni cruciali. Si può usare (a ragione) la parola “genocidio” per descrivere le intenzioni del pogrom di Hamas, ma farlo per lo sterminio in corso a Gaza suscita (a torto) violente censure, e provoca la strumentale accusa di antisemitismo. Una reazione comprensibile in Israele, non qua. Qua è solo uno dei sintomi della nostra incapacità di usare la distanza dalla guerra per elaborare pensieri e parole utili a combatterla, la guerra. Una simile elaborazione spingerebbe l’opinione pubblica a fare pressioni sui governi occidentali, determinati a correre il rischio di un conflitto atomico perseguendo una “vittoria” sulla Russia di Putin, ma decisi a sopportare in silenzio il massacro del popolo palestinese e il rischio concreto dell’esplosione di un conflitto regionale dagli esiti difficilmente controllabili. La sola ipotesi che ciò che Israele sta compiendo a Gaza possa essere un genocidio fa capire che la reazione occidentale è del tutto inadeguata: ed è esattamente per questo che la parola è diventata tabù. Provare processualmente il genocidio passa per la difficoltà di documentare oltre ogni ragionevole dubbio l’intenzione di un governo. Secondo la definizione originaria del termine (messa a punto nel 1948 dall’ebreo Rafael Lemkin a proposito dello sterminio degli armeni e della Shoah) si tratta dell’intenzione di annichilire un gruppo (etnico, nazionale, religioso…) attraverso una distruzione materiale e culturale. Giovedì scorso l’ambasciatore palestinese all’Onu Ibrahim Khraishi ha formalmente detto che è ciò che sta accadendo a Gaza. Alcuni giorni prima, Craig Mokhiber, responsabile dell’ufficio di New York dell’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite si era dimesso protestando contro le mancate reazioni verso quello che ha definito “un caso da manuale di genocidio”. Davvero il governo di Netanyahu vuole cancellare i palestinesi? Alcuni indizi non portano a una risposta rassicurante: il 14 ottobre il presidente di Israele, Isaac Herzog, ha detto che “è un’intera nazione là fuori che è responsabile. Questa retorica sui civili non consapevoli, non coinvolti, non è assolutamente vera”. Poco prima, il ministro della Difesa Yoav Gallant aveva giustificato la decisione di tagliare acqua, cibo, elettricità e benzina affermando che “stiamo combattendo con animali umani, e agiamo di conseguenza”. Dichiarazioni come queste, rese in pubblico dai vertici dello Stato di Israele, potrebbero configurare un’intenzione di genocidio. Come spiega Rosario Aitala, giudice della Corte penale internazionale, la riduzione retorica del nemico a “non umano” è la premessa classica dei genocidi: “La mala pianta del genocidio germoglia dal seme immondo del razzismo. ‘Non tutto ciò che ha sembianze umane è umano’: è lo slogan che ricorre nel discorso nazista per escludere dall’umanità non solo chi non appartiene alla razza ‘buona’ ma anche chi dentro quest’ultima è difettoso come un prodotto mal riuscito, dunque ‘indegno di vivere’”. Le ultime immagini da Gaza, quelle della distruzione del Parlamento e dell’abbattimento di un monumento ad Arafat sembrano dimostrare un odio non contro Hamas, ma contro i palestinesi come tali: singoli fatti che trovano una chiave interpretativa nel progressivo abbandono, da parte di Israele, di una identità multietnica e pluriconfessionale a favore di una configurazione da stato etnico-religioso con minoranze private di diritti e tutele. L’ex ambasciatore francese in Israele e Stati Uniti Gerard Araud ha detto che a Gaza è in corso “una pulizia etnica”, e alcune voci autorevoli del mondo culturale ebraico hanno il coraggio di pronunciare la parola indicibile. La filosofa ebrea americana Judith Butler ha, per esempio, dichiarato: “In questo momento, la nostra attenzione deve rivolgersi alle orribili sofferenze del popolo palestinese, perché sicuramente sta avendo luogo un genocidio… Come intellettuali, abbiamo l’obbligo di fare chiare distinzioni, di comprendere la storia della sofferenza e della resistenza palestinese sotto la repressione coloniale: esproprio forzato, furto di terre, detenzione arbitraria e tortura nelle carceri, bombardamenti, molestie e omicidi”. È naturalmente legittimo avversare con veemenza simili posizioni, non lo è accusare di antisemitismo chi le sostiene. È ormai a tutti evidente che sarà la giustizia penale internazionale ad avere l’ultima parola (e se anche questa volta il potere imperiale americano dovesse impedirlo, ci sarebbero conseguenze devastanti): nel frattempo si deve poter dire che ciò che sta facendo Israele potrebbe essere giudicato genocidio. Dovrebbe bastare anche solo la possibilità che ciò avvenga a spingere tutti coloro che amano Israele a fermare la folle azione di un governo che, accecato come Sansone, sembra deciso a distruggere unaltro popolo, e a devastare la reputazione del proprio.
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