Sopra. "Le ventre législatif" (1834) di Honoré Daumier.
Testo della canzone “Ragazzo di destra” di Colapesce e Dimartino:
Semplice giudicare
Metti la divisa a lavare
Ti giuro, nessuno ce l'ha con te
Facile caricare
C'è un bambino dentro di te che è ancora convinto di dover dimostrare
A costo di farsi male
Tutto solo nel tuo bomberino
Senza la tua squadra, tu chi sei?
Posa il manganello e prendi un fiore
Mangiati un gelato con qualcuno
Oggi che è festa
Ragazzo di destra
Andate tutti via, adesso faccio il muro
Non voglio più vedere depravate e le parate
Gli invasori fra i coglioni li farei tutti fuori
Amore ti difenderò col tirapugni d'oro
Mi darai un figlio naturale la notte di Natale
Mentre cade giù la neve
Facile
Non è vero, oh-oh
Tutto solo nel tuo bomberino
Senza la tua squadra, tu chi sei?
Posa il manganello e prendi un fiore
Mangiati un gelato con qualcuno
Compra una pistola che fa bolle di sapone
Mordi questo zucchero filato
Oggi che è festa
Ragazzo di destra
Ragazzo di destra
Fragile, faccia nera
Sei sul ciglio di una scogliera
Come me, hai paura
Ma è una splendida sera
Ha scritto Michele Serra in “Rai, il fallimento delle scorciatoie” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, sabato 4 di novembre 2023: Non dev’essere facile, per i nuovi vertici della Rai, ammettere che l’azienda pubblica perde ascolti perché i nuovi padroni politici del Paese hanno epurato o emarginato solidi professionisti considerati “nemici” (nemici loro, certo non dell’azienda). Eppure è esattamente, banalmente quello che è accaduto. Con un rapporto di causa/effetto così ovvio che si fatica a parlarne senza ripetere cose altrettanto ovvie. La prima è che le persone che se ne sono andate, o sono state cacciate, lavoravano alla Rai (qualcuno da una vita) non per vassallaggio politico ma per capacità professionale, premiati da risultati che andavano a tutto vantaggio dell’azienda. La seconda è che non esisteva un piano B, c’era solo un piano A: cacciare “quelli di sinistra”. La terza, e la più importante, è che non basta proclamare un “cambio di paradigma” culturale per realizzarlo. Ci vogliono le persone, le idee e le competenze. La cosiddetta “egemonia culturale” non è un’intenzione, è un risultato. Non la si improvvisa. Non la si inventa. Non la si decide a tavolino. I risultati arrivano se prima hai lavorato bene: anche il più sprovveduto mister di calcio almeno questo lo sa. La mediocrità è il punto di partenza di tutti, o quasi. Ci si lavora attorno, si rimedia alle debolezze, si sbaglia, si cambia, si imparano un sacco di cose. È un percorso lungo. Ma non è sostituibile o surrogabile. Certo è più comodo e sbrigativo ricorrere ai colpi di spugna (cancel culture...). Ma poi i risultati si vedono.
“Con la scusa dell’egemonia”, testo di Luigi Manconi pubblicato sulla stessa edizione del quotidiano “la Repubblica”: Il testo di una canzone appena pubblicata spiega, meglio di mille esempi, in che cosa consista la lotta per “l’egemonia culturale” in Italia; e fa intendere bene come mai la destra non ci si raccapezzi proprio e sembri destinata a una irreparabile sconfitta: battuta non dalla sinistra, bensì dalla modernità. La canzone in questione, Ragazzo di destra, è scritta e interpretata da Colapesce e Dimartino, due bravissimi musicisti che fanno un pop intelligente. Il brano riporta versi quali questi: “Metti la divisa a lavare” e “Posa il manganello e prendi un fiore”. E ancora: “Non voglio più vedere depravati alle parate / Gli invasori fra i coglioni li farei tutti fuori”. La struttura musicale ricorda il meglio della produzione di gruppi come i Pooh e i Cugini di campagna (ingiustamente sottovalutati): e l’interpretazione evidenzia il contrasto tra parole tanto dirette e disadorne (e talvolta fin eccessive) e la melodia irresistibilmente leggera eppure sofisticata. Ma perché dedicare tanta attenzione a quello che potrebbe apparire un modesto evento musicale? Perché già i giornali della destra hanno trovato modo di polemizzare con il brano e con i suoi autori. E perché, come si diceva, è una vicenda che fa capire molte cose. La premessa è che il governo Meloni, dal suo primo giorno, ha dedicato grandi energie alla questione dell’egemonia culturale. Ritenendo che, da ottant’anni, la cultura italiana sia dominata dagli apparati della sinistra, ha intrapreso una aspra battaglia per scalzare quel potere e imporre, in sua vece, l’influenza del pensiero della destra. Ciò attraverso un ampio ventaglio di iniziative che intervengono sul vocabolario collettivo per arrivare a incidere sul significato profondo che le parole rivelano: dalla ossessiva insistenza sull’espressione “nazione” alle nuove denominazioni dei ministeri, dai ripetuti messaggi anti-ecologisti al ricorso costante a termini come “clandestini” e “invasione” (senza dimenticare quei “fiori all’occhiello” di codesta nerboruta “destra” che vuol comandare senza governare, ovvero quegli epiteti tanto disumani utilizzati sfrontatamente quali sono stati il “carico residuo” e la “transumanza” per etichettare altri esseri umani n.d.r.), dall’uso ideologico della categoria di “merito” all’esaltazione di una presunta “normalità” (familiare e sessuale). E si potrebbe continuare a lungo. È una guerra culturale sul linguaggio che mira a influenzare il senso comune e la mentalità collettiva. Ma la destra commette due madornali errori. Il primo è quello di ritenere che il lessico e ciò che comunica siano il risultato di una sorta di operazione politica della sinistra (e, appunto, della sua famigerata egemonia culturale) e non, come è, l’esito dei processi di modernizzazione conosciuti dalla nostra società. La cosa si manifestò grottescamente in occasione del più recente Festival di Sanremo, quando poco mancò che la destra politica accusasse il povero Amadeus di essere un esponente del centro sociale Leoncavallo, per giunta iscritto al Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli e all’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti. E, invece, il Festival metteva in scena né più né meno che lo spirito del tempo, relativamente ai costumi e ai consumi di una parte assai rilevante della società nazionale. Costumi e consumi che convivono con un orientamento collettivo che, su questioni cruciali come la sicurezza e l’immigrazione, coltivano umori e valori definibili “di destra”. È sulla base di questi, che la destra ha vinto le elezioni del 25 settembre 2022 e tuttora conserva un largo consenso e qualcosa di non troppo dissimile da una egemonia politica. Ma la destra non si accontenta e vorrebbe che, a tale successo elettorale, corrispondesse un primato nella produzione artistica, nella letteratura e nel cinema, nella circolazione dei messaggi ideologici e degli schemi di interpretazione della realtà. Pensa che la propria debolezza culturale sia il frutto, non di una povertà strutturale e di antica data, bensì delle vessazioni subite dagli apparati della sinistra (ma non sarà mica un caso se tutti i film italiani candidati agli Oscar non provengono “da destra”). Di conseguenza, per porvi riparo esibisce il grande e incolpevole Giuseppe Prezzolini (nato nel 1882), invia alla Buchmesse di Francoforte due personalità degne, ma assai poco rappresentative, come Susanna Tamaro e Stefano Zecchi ed espugna manu militari la più grande agenzia culturale del Paese, la Rai. E questo è il secondo e grossolano errore. Non è sostituendo il direttore del Torino Film Festival con un nome più “affidabile” o Flavio Insinna con Pino Insegno che si afferma l’influenza culturale e si orientano i gusti e i sentimenti dei cittadini. Così facendo, piuttosto, si conferma quello che è uno dei connotati essenziali della destra: un irriducibile complesso di inferiorità. Intanto, il nemico che si vorrebbe combattere sbuca da ogni parte, straripa per ogni dove, emerge da ogni angolo, si insinua in ogni piega. Persino con una canzone. Si rassicuri la destra: Colapesce e Dimartino non sono due militanti dell’Anpi, e nemmeno dell’Arci. Sono semplicemente due italiani medi che non credono affatto che il Gay Pride sia “una parata di depravati”.
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