Al
tempo del “mitico” Luciano Barca (1920-2012, che è stato giornalista,
scrittore, partigiano e politico) e che è stato pure il padre di Fabrizio Barca
- politico ed economista del momento -, parlare di “distanze sociali”
avrebbe avuto l’unico netto significato di “diseguaglianze”,
ovvero di quelle “diseguaglianze” che “quellichelasinistra” degli ultimi massacranti
tempi hanno accettato come “evento” o “destino” inevitabili e dovuti affinché l’affermarsi
del mercato finanziario selvaggio non avesse né ritardi né intoppi.
Erano quelli di Luciano Barca – per chi l’abbia conosciuto ed ascoltato - i tempi nei quali andava anche molto di moda parlare di “ascensore sociale”, ovvero di tutti quei provvedimenti che la “sinistra” – ma quella vera, non distratta o presbite - avrebbe approntato affinché si attenuassero – dico si attenuassero - le diseguaglianze quanto meno ai nastri di partenza per tutti i cittadini del bel Paese. Ci hanno pensato a modo loro proprio quelli della cosiddetta “quellichelasinistra” affinché “distanze sociali” – in questi ultimi tempi con il concorso perverso del “coronavirus” – cambiassero significato così profondamente, così come è caduto in disuso quel temine tanto caro a Luciano Barca di “ascensore sociale”, termine che era pregno di quell’impegno quasi sacrale che la “sinistra” – ma quella vera - ci avrebbe messo di suo affinché, almeno ai nastri di partenza, si fosse tutti un tantino più eguali. Quei tempi sono passati ed oggigiorno ne conosciamo il significato, l’unico, che sta per “distanze sociali”, ché anche nel frangente si è potuto misurare però come esse esplicassero – quelle “distanze sociali” - le loro funzioni, basti pensare come nel lunghissimo periodo dell’”accasamento collettivo” le fasce meno protette sul mercato del lavoro siano state chiamante ad assolvere ai loro doveri in barba al rischio devastante della pandemia. Come non pensare allora a quella fascia – gli infermieri - pur così importante del personale sanitario paramedico? O dei trasportatori di derrate alimentari o dei prodotti energetici, che hanno consentito a non piegarsi alla fame o al blocco l’intero Paese? E con non pensare ai “riders” ed alla loro precaria condizione lavorativa che hanno assicurato pietanze e pizze in abbondanza in tutto il periodo dell’”accasamento collettivo”? Di “diseguaglianze” ne ha parlato Fabrizio Barca con Simonetta Fiori nella intervista “Diseguaglianze, una ferita ereditaria” pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 29 di maggio ultimo: (…). La pandemia ha evidenziato l’ingiustizia sociale che mortifica il Paese. «Per noi non è stata una novità scoprire che un quinto della popolazione adulta – circa dieci milioni di persone – non ha risparmi sufficienti per vivere per tre mesi senza reddito. E che in Italia ci sono sei o sette milioni di lavoratori precari o irregolari, quindi non coperti da tutela sociale. E che il sovraffollamento abitativo è tre volte più alto rispetto ai grandi paesi europei. Ci sono esplose davanti agli occhi diseguaglianze di ogni genere – dalla salute alla scuola – che non possiamo più fingere di non vedere».
Erano quelli di Luciano Barca – per chi l’abbia conosciuto ed ascoltato - i tempi nei quali andava anche molto di moda parlare di “ascensore sociale”, ovvero di tutti quei provvedimenti che la “sinistra” – ma quella vera, non distratta o presbite - avrebbe approntato affinché si attenuassero – dico si attenuassero - le diseguaglianze quanto meno ai nastri di partenza per tutti i cittadini del bel Paese. Ci hanno pensato a modo loro proprio quelli della cosiddetta “quellichelasinistra” affinché “distanze sociali” – in questi ultimi tempi con il concorso perverso del “coronavirus” – cambiassero significato così profondamente, così come è caduto in disuso quel temine tanto caro a Luciano Barca di “ascensore sociale”, termine che era pregno di quell’impegno quasi sacrale che la “sinistra” – ma quella vera - ci avrebbe messo di suo affinché, almeno ai nastri di partenza, si fosse tutti un tantino più eguali. Quei tempi sono passati ed oggigiorno ne conosciamo il significato, l’unico, che sta per “distanze sociali”, ché anche nel frangente si è potuto misurare però come esse esplicassero – quelle “distanze sociali” - le loro funzioni, basti pensare come nel lunghissimo periodo dell’”accasamento collettivo” le fasce meno protette sul mercato del lavoro siano state chiamante ad assolvere ai loro doveri in barba al rischio devastante della pandemia. Come non pensare allora a quella fascia – gli infermieri - pur così importante del personale sanitario paramedico? O dei trasportatori di derrate alimentari o dei prodotti energetici, che hanno consentito a non piegarsi alla fame o al blocco l’intero Paese? E con non pensare ai “riders” ed alla loro precaria condizione lavorativa che hanno assicurato pietanze e pizze in abbondanza in tutto il periodo dell’”accasamento collettivo”? Di “diseguaglianze” ne ha parlato Fabrizio Barca con Simonetta Fiori nella intervista “Diseguaglianze, una ferita ereditaria” pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 29 di maggio ultimo: (…). La pandemia ha evidenziato l’ingiustizia sociale che mortifica il Paese. «Per noi non è stata una novità scoprire che un quinto della popolazione adulta – circa dieci milioni di persone – non ha risparmi sufficienti per vivere per tre mesi senza reddito. E che in Italia ci sono sei o sette milioni di lavoratori precari o irregolari, quindi non coperti da tutela sociale. E che il sovraffollamento abitativo è tre volte più alto rispetto ai grandi paesi europei. Ci sono esplose davanti agli occhi diseguaglianze di ogni genere – dalla salute alla scuola – che non possiamo più fingere di non vedere».
Eppure l’Italia è stata caratterizzata nei tre decenni
del dopoguerra da una forte mobilità sociale. Perché dagli anni Ottanta le
diseguaglianze hanno ripreso a crescere? «I partiti di massa non sono stati più
capaci di favorire l’emancipazione sociale, come era accaduto nel trentennio
postbellico quando culture politiche diverse – di ispirazione socialista,
cattolica, liberal-azionista – convergevano nel difendere sia i principi dello
Stato di diritto e quindi la separazione dei poteri e la libertà individuale
sia i principi democratici dell’uguaglianza e della sovranità popolare.
L’articolo 3 della Costituzione – che invoca la rimozione degli ostacoli che
impediscono il pieno sviluppo della persona umana – è il frutto di quella
formidabile convergenza. A partire dagli anni Ottanta, i partiti progressisti
non sono stati più capaci di aggiornare gli impianti culturali sin lì ereditati
e sono ricorsi ai tre alibi della “globalizzazione”, della “tecnologia” e della
“società liquida” non più rappresentabile. Si sono raccontati che erano
fenomeni inevitabili. E hanno rinunciato a incalzare il capitalismo
costringendolo a fare del bene, per usare la formula di Branko Milanovi?».
Il tema delle diseguaglianze è tuttora periferico nel
dibattito pubblico. Due anni fa, inaugurando il Forum, avete riempito un vuoto
culturale e politico. «Ed è un vuoto paradossale in un Paese che in questo
campo è stato all’avanguardia. Cominciata nella prima parte del Novecento da
Vilfredo Pareto e Corrado Gini, questa tradizione di studi è stata rinverdita
nel dopoguerra da Donato Menichella e Paolo Baffi che nel 1951 produssero la
prima indagine sulla distribuzione del reddito. All’epoca solo gli americani
furono capaci di indagini statistiche di quel genere. Ma poi questa tradizione
non è entrata nell’analisi economica dominante, permeata dal pensiero
neoliberista anglosassone per il quale l’impresa produce di per sé benessere:
che senso ha occuparsi della distribuzione del reddito se con la crescita tutto
s’aggiusta? E ancora oggi le diseguaglianze non sono un tema à la page, con il
quale si sale in cattedra o si pubblicano i papers nelle riviste che contano».
Qual è stata la spinta che vi ha indotto a metterle al
centro del Forum? «Osservare con preoccupazione la rabbia crescente degli
italiani, una sfiducia radicata che può tradursi in una deriva autoritaria.
Così abbiamo messo insieme pezzi importanti della cittadinanza attiva con
settori della ricerca accademica, ispirata dai principi di Anthony Atkinson».
Se dovessimo tradurre in teoria politica le vostre
proposte, è corretto inscriverle in un filone liberalsocialista? «Sicuramente
esiste questa componente culturale, alla quale però aggiungerei l’anima
cattolico-democratica: è quasi più forte il loro contributo rispetto a quello
di chi viene dal mio mondo – marxista – o dalla cultura liberale. È come se ci
fossimo ritrovati intorno a quell’articolo 3 della Costituzione che fu difeso
dalle nostre diverse famiglie politiche».
Tra tutte le diseguaglianze (…) colpisce l’ingiustizia
che affligge i più giovani: oggi lo status dei genitori ha un’influenza sui
figli assai maggiore di quanto non fosse per le generazioni nate tra la metà
degli anni Cinquanta e i Settanta del secolo scorso. «Siamo il Paese europeo
con la più alta percentuale di diseguaglianza ascrivibile a fattori ereditari:
svantaggi famigliari di istruzione e ricchezza si combinano nel tagliare le
gambe ai ragazzi meritevoli. Un solo dato: se si nasce nel venti per cento meno
ricco della popolazione si ha tre volte di più la possibilità di rimanerci
rispetto a chi nasce nel venti per cento più ricco».
Cosa proponete per risolvere questo divario? «Anche a
parità di istruzione, la differenza viene fatta dai mezzi finanziari della
famiglia. Così proponiamo “un’eredità universale” di dodicimila euro per tutti
coloro che compiono diciotto anni. Come finanziarla? In larga parte con un
prelievo sui patrimoni ereditati nel corso della vita, con una progressione
considerevole oltre il milione di euro: non vogliamo infastidire i piccoli
risparmiatori, già oberati da imposte elevate. Il progetto dovrebbe partire nel
2024: pensi come cambierebbe oggi, nel pieno della crisi post Covid 19, la
prospettiva di un adolescente che sa di poter contare tra pochi anni in una
discreta somma da investire in una piccola impresa, in un’università, in un
viaggio di istruzione».
Per superare crescenti disparità, voi proponete anche
un modo diverso di valutare le università. «Oggi molte università italiane
sostengono progetti mirati a una maggiore giustizia sociale, ma questo lavoro
viene riconosciuto solo in termini di rendimento monetario, non sulla base di
altri risultati come l’apprendimento e la partecipazione, il benessere sociale,
la salute, l’ambiente. Bisogna dunque ripensare radicalmente i metodi di
valutazione delle università, favorendo anche un rapporto più stretto tra
accademia e società civile. Anche questo aiuterebbe a risolvere una crisi
generazionale che è tra le più gravi in Europa».
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