“Memoria” del lunedì 28 di gennaio dell’anno 2008: Propongo alla lettura ed alla riflessione
l’interessante corrispondenza “Il dilemma della Terra: più benessere o
più ambiente” di Pietro Greco, corrispondenza pubblicata sul
quotidiano “l’Unità”. Con una brevissima personale considerazione. Apprendo, da
Pietro Greco, che l’indice denominato “impronta ecologica” per l’Europa è uguale a 3. La soglia limite
del predetto indicatore è fissata a 1; ciò vuol dire che come europei siamo
stati divoratori di risorse con una voracità spaventevole.
Per non parlare dell’indice nord-americano che raggiunge il livello 5. Domando ai cultori del consumo ininterrotto: da cannibaleschi consumatori di risorse, per quanto tempo ancora dovremo allontanare dal lauto banchetto il resto dell’umanità? E quale signore iddio ci ha destinati ad essere gli unici beneficiari delle risorse naturali ed energetiche del pianeta chiamato Terra? Piangono lacrime amare per un improvviso blocco dei consumi; ma cosa manca ancora da consumare se non la Terra stessa ed il suo sempre più precario equilibrio bioenergetico? Sarebbe meglio riprendere un discorso passato oramai nel dimenticatoio: tornare a parlare della Terra come un angolo minuscolo dell’infinito universo, nel quale angolo tutti gli esseri umani hanno in egual misura diritto di abitare ed il dovere di salvaguardare. Cominciando da noi europei, fagocitatori orrendi di risorse naturali non più rinnovabili: La sostenibilità sociale sul pianeta è migliorata quasi ovunque nell'ultimo quarto di secolo. La sostenibilità ecologica, invece, è peggiorata. In soli cinque paesi, al mondo, lo sviluppo umano è aumentato senza che, contemporaneamente, aumentasse anche la pressione umana sull'ambiente. In un solo paese lo sviluppo risulta sia socialmente che ecologicamente sostenibile. Nel resto del mondo i due determinanti della sostenibilità divergono. A queste conclusioni è giunto Mathis Wackernagel, padre del concetto di «impronta ecologica» e direttore esecutivo del Global Footprint Network di Oakland, in California, «misurando lo sviluppo sostenibile, nazione per nazione» e dandone notizia sulla rivista Ecological Economics insieme a un gruppo di collaboratori. L'idea di Mathis Wackernagel è che la sostenibilità dello sviluppo, lungi dall'essere un concetto ambiguo e inafferrabile è un concetto scientifico ben definito, il cui valore può essere misurato con sufficiente precisione. Lo sviluppo sostenibile, come proponeva già nel 1987 la Commissione Brundtland nel rapporto Our Common Future, è la somma di due fattori: lo sviluppo socialmente sostenibile e lo sviluppo ecologicamente sostenibile. Il primo può essere misurato nazione per nazione mediante l'Hdi, l'indice di sviluppo umano proposto, tra gli altri, dal premio Nobel per l'economia Amartya Sen e largamente utilizzato dalle Nazioni Unite. L'Hdi a sua volta tiene conto di quattro fattori (aspettativa di vita alla nascita, alfabetizzazione della popolazione adulta, scolarizzazione, reddito pro capite). L'Hdi viene espresso con un numero compreso tra 0 e 1. Le Nazioni Unite considerano 0,80 come il valore soglia tra un medio e un alto sviluppo sociale. Mathis Wackernagel propone questo stesso valore come un indicatore della sostenibilità. I paesi con uno sviluppo sociale sostenibile hanno un Hdi almeno pari a 0,80. Ebbene, misurando l'Hdi di 93 diversi paesi di cui si dispone di dati completi si può verificare che la sostenibilità sociale è raggiunta solo in alcune regioni del mondo: l'Europa, il Nord America, l'Oceania. È prossima alla sostenibilità l'America Latina, l'Asia orientale e il Medio Oriente risultano ancora lontani dalla soglia limite e l'Africa lontanissima. Il mondo, in media, ha un indice di circa 0,70: pur producendo ricchezza come mai nella storia, è al di sotto della soglia della sostenibilità sociale. Tuttavia in quasi tutti i paesi nell'intervallo di tempo compreso tra il 1970 e il 2003, l'Hdi è aumentato. La sostenibilità sociale, dunque, migliora: malgrado enormi disuguaglianze e contraddizioni. Anche la sostenibilità ecologica può essere misurata, sostiene Mathis Wackernagel. Un buon indicatore è «l'impronta ecologica», perché misura l'uso delle risorse naturali da parte degli uomini e le mette in relazione con le risorse che la Terra può rigenerare. La soglia critica è pari a 1. Lo sviluppo di un paese è sostenibile solo se il rapporto è inferiore a 1. Ebbene l'indice è di circa 3 in Europa e balza addirittura a 5 in Nord America. Significa che gli occidentali consumano da 3 a 5 volte più risorse naturali di quanto potrebbero. L'indice risulta sostenibile solo nell'Asia orientale e in Africa. Ma al di là dei valori assoluti, c'è la tendenza storica. Un po' in tutto il mondo il rapporto tende ad aumentare. E la sostenibilità ecologica a diminuire. La prima conclusione è, dunque, che i due indicatori della sostenibilità, quello sociale e quello ambientale, sono disaccoppiati. A tratti divergenti. La sostenibilità sociale aumenta, mentre quella ambientale diminuisce. Dove c'è maggiore sostenibilità sociale c'è, in genere, una minore sostenibilità ecologica. E viceversa. Tra il 1970 e il 2003 in soli cinque paesi (Burundi, Congo, Costa D'Avorio, Malawi e Uruguay) la sostenibilità sociale è aumentata senza che, contemporaneamente, peggiorasse la sostenibilità ambientale. Un solo paese al mondo può vantare uno sviluppo totalmente sostenibile, ovvero con un Hdi superiore a 0,80 e un'impronta ecologica in rapporto alla biocapacità globale inferiore a 1. Questo paese è Cuba dove, però, mancano le condizioni minime per un'altra imprescindibile dimensione della sostenibilità: la democrazia. Sono passati oltre vent'anni dal rapporto in cui la Commissione Brundtland sosteneva che lo sviluppo è tale se è sia socialmente sia ecologicamente sostenibile. In queste due decenni il mondo è cambiato. Siamo entrati nella società globale della conoscenza. Ma le domande di fondo restano ancora senza risposta. Come rendere sostenibile lo sviluppo? E come realizzare uno sviluppo sostenibile attraverso la partecipazione democratica di tutti i cittadini del pianeta?
Sostiene oggi – dodici anni dopo la “memoria” proposta che affrontava già da allora il problema della contrapposizione tra una “sostenibilità sociale” ed una “sostenibilità ecologica” - lo studioso Jeffrey Sachs - docente di “Sviluppo sostenibile” alla Columbia University di New York – in una intervista di Luca Fraioli - "L'insostenibile pesantezza del pianeta" – pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 19 di maggio 2020: (…). Professor Sachs, quale impatto avrà la pandemia sull’economia mondiale? «Avremo la più grande recessione dai tempi della Grande Depressione. Se gestita male, diventerà una crisi prolungata. Se sapremo governarla invece, la ripresa globale arriverà tra un anno o due».
Molti ritengono che le principali crisi che stiamo vivendo, dal coronavirus al riscaldamento globale, siano attribuibili alla crescita della popolazione mondiale. Condivide questa opinione? «Viviamo su un pianeta affollato, con quasi 8 miliardi di persone. Ciò comporta un massiccio utilizzo di energia; la maggior parte dell’energia primaria è costituita da combustibili fossili, con enormi emissioni di gas serra. Ma ci sono conseguenze anche sulla natura, con la deforestazione, la distruzione degli habitat e, sì, anche l’insorgere di nuove malattie, quando gli esseri umani sono infettati da agenti patogeni provenienti da animali selvatici. Tuttavia, vorrei ricordare altri due punti. In primo luogo, ci furono epidemie, come la peste bubbonica, con un numero di abitanti della Terra molto più basso. In secondo luogo, oggi abbiamo le tecnologie per proteggere noi stessi e il Pianeta. Se lo scegliamo, possiamo passare rapidamente, in 20-30 anni, a un’economia mondiale alimentata da energia rinnovabile piuttosto che da combustibili fossili. Se lo scegliamo, si può contenere l’epidemia, come hanno fatto molti paesi dell’Asia orientale».
Per non parlare dell’indice nord-americano che raggiunge il livello 5. Domando ai cultori del consumo ininterrotto: da cannibaleschi consumatori di risorse, per quanto tempo ancora dovremo allontanare dal lauto banchetto il resto dell’umanità? E quale signore iddio ci ha destinati ad essere gli unici beneficiari delle risorse naturali ed energetiche del pianeta chiamato Terra? Piangono lacrime amare per un improvviso blocco dei consumi; ma cosa manca ancora da consumare se non la Terra stessa ed il suo sempre più precario equilibrio bioenergetico? Sarebbe meglio riprendere un discorso passato oramai nel dimenticatoio: tornare a parlare della Terra come un angolo minuscolo dell’infinito universo, nel quale angolo tutti gli esseri umani hanno in egual misura diritto di abitare ed il dovere di salvaguardare. Cominciando da noi europei, fagocitatori orrendi di risorse naturali non più rinnovabili: La sostenibilità sociale sul pianeta è migliorata quasi ovunque nell'ultimo quarto di secolo. La sostenibilità ecologica, invece, è peggiorata. In soli cinque paesi, al mondo, lo sviluppo umano è aumentato senza che, contemporaneamente, aumentasse anche la pressione umana sull'ambiente. In un solo paese lo sviluppo risulta sia socialmente che ecologicamente sostenibile. Nel resto del mondo i due determinanti della sostenibilità divergono. A queste conclusioni è giunto Mathis Wackernagel, padre del concetto di «impronta ecologica» e direttore esecutivo del Global Footprint Network di Oakland, in California, «misurando lo sviluppo sostenibile, nazione per nazione» e dandone notizia sulla rivista Ecological Economics insieme a un gruppo di collaboratori. L'idea di Mathis Wackernagel è che la sostenibilità dello sviluppo, lungi dall'essere un concetto ambiguo e inafferrabile è un concetto scientifico ben definito, il cui valore può essere misurato con sufficiente precisione. Lo sviluppo sostenibile, come proponeva già nel 1987 la Commissione Brundtland nel rapporto Our Common Future, è la somma di due fattori: lo sviluppo socialmente sostenibile e lo sviluppo ecologicamente sostenibile. Il primo può essere misurato nazione per nazione mediante l'Hdi, l'indice di sviluppo umano proposto, tra gli altri, dal premio Nobel per l'economia Amartya Sen e largamente utilizzato dalle Nazioni Unite. L'Hdi a sua volta tiene conto di quattro fattori (aspettativa di vita alla nascita, alfabetizzazione della popolazione adulta, scolarizzazione, reddito pro capite). L'Hdi viene espresso con un numero compreso tra 0 e 1. Le Nazioni Unite considerano 0,80 come il valore soglia tra un medio e un alto sviluppo sociale. Mathis Wackernagel propone questo stesso valore come un indicatore della sostenibilità. I paesi con uno sviluppo sociale sostenibile hanno un Hdi almeno pari a 0,80. Ebbene, misurando l'Hdi di 93 diversi paesi di cui si dispone di dati completi si può verificare che la sostenibilità sociale è raggiunta solo in alcune regioni del mondo: l'Europa, il Nord America, l'Oceania. È prossima alla sostenibilità l'America Latina, l'Asia orientale e il Medio Oriente risultano ancora lontani dalla soglia limite e l'Africa lontanissima. Il mondo, in media, ha un indice di circa 0,70: pur producendo ricchezza come mai nella storia, è al di sotto della soglia della sostenibilità sociale. Tuttavia in quasi tutti i paesi nell'intervallo di tempo compreso tra il 1970 e il 2003, l'Hdi è aumentato. La sostenibilità sociale, dunque, migliora: malgrado enormi disuguaglianze e contraddizioni. Anche la sostenibilità ecologica può essere misurata, sostiene Mathis Wackernagel. Un buon indicatore è «l'impronta ecologica», perché misura l'uso delle risorse naturali da parte degli uomini e le mette in relazione con le risorse che la Terra può rigenerare. La soglia critica è pari a 1. Lo sviluppo di un paese è sostenibile solo se il rapporto è inferiore a 1. Ebbene l'indice è di circa 3 in Europa e balza addirittura a 5 in Nord America. Significa che gli occidentali consumano da 3 a 5 volte più risorse naturali di quanto potrebbero. L'indice risulta sostenibile solo nell'Asia orientale e in Africa. Ma al di là dei valori assoluti, c'è la tendenza storica. Un po' in tutto il mondo il rapporto tende ad aumentare. E la sostenibilità ecologica a diminuire. La prima conclusione è, dunque, che i due indicatori della sostenibilità, quello sociale e quello ambientale, sono disaccoppiati. A tratti divergenti. La sostenibilità sociale aumenta, mentre quella ambientale diminuisce. Dove c'è maggiore sostenibilità sociale c'è, in genere, una minore sostenibilità ecologica. E viceversa. Tra il 1970 e il 2003 in soli cinque paesi (Burundi, Congo, Costa D'Avorio, Malawi e Uruguay) la sostenibilità sociale è aumentata senza che, contemporaneamente, peggiorasse la sostenibilità ambientale. Un solo paese al mondo può vantare uno sviluppo totalmente sostenibile, ovvero con un Hdi superiore a 0,80 e un'impronta ecologica in rapporto alla biocapacità globale inferiore a 1. Questo paese è Cuba dove, però, mancano le condizioni minime per un'altra imprescindibile dimensione della sostenibilità: la democrazia. Sono passati oltre vent'anni dal rapporto in cui la Commissione Brundtland sosteneva che lo sviluppo è tale se è sia socialmente sia ecologicamente sostenibile. In queste due decenni il mondo è cambiato. Siamo entrati nella società globale della conoscenza. Ma le domande di fondo restano ancora senza risposta. Come rendere sostenibile lo sviluppo? E come realizzare uno sviluppo sostenibile attraverso la partecipazione democratica di tutti i cittadini del pianeta?
Sostiene oggi – dodici anni dopo la “memoria” proposta che affrontava già da allora il problema della contrapposizione tra una “sostenibilità sociale” ed una “sostenibilità ecologica” - lo studioso Jeffrey Sachs - docente di “Sviluppo sostenibile” alla Columbia University di New York – in una intervista di Luca Fraioli - "L'insostenibile pesantezza del pianeta" – pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 19 di maggio 2020: (…). Professor Sachs, quale impatto avrà la pandemia sull’economia mondiale? «Avremo la più grande recessione dai tempi della Grande Depressione. Se gestita male, diventerà una crisi prolungata. Se sapremo governarla invece, la ripresa globale arriverà tra un anno o due».
Molti ritengono che le principali crisi che stiamo vivendo, dal coronavirus al riscaldamento globale, siano attribuibili alla crescita della popolazione mondiale. Condivide questa opinione? «Viviamo su un pianeta affollato, con quasi 8 miliardi di persone. Ciò comporta un massiccio utilizzo di energia; la maggior parte dell’energia primaria è costituita da combustibili fossili, con enormi emissioni di gas serra. Ma ci sono conseguenze anche sulla natura, con la deforestazione, la distruzione degli habitat e, sì, anche l’insorgere di nuove malattie, quando gli esseri umani sono infettati da agenti patogeni provenienti da animali selvatici. Tuttavia, vorrei ricordare altri due punti. In primo luogo, ci furono epidemie, come la peste bubbonica, con un numero di abitanti della Terra molto più basso. In secondo luogo, oggi abbiamo le tecnologie per proteggere noi stessi e il Pianeta. Se lo scegliamo, possiamo passare rapidamente, in 20-30 anni, a un’economia mondiale alimentata da energia rinnovabile piuttosto che da combustibili fossili. Se lo scegliamo, si può contenere l’epidemia, come hanno fatto molti paesi dell’Asia orientale».
La pandemia che stiamo vivendo è
dunque il risultato di un mondo insostenibile? «La pandemia, in realtà, è il
risultato di una trasmissione zoonotica di un virus (dai pipistrelli agli
umani) combinata con una risposta profondamente imperfetta. L’Europa e gli
Stati Uniti hanno ignorato i pericoli dell’epidemia durante gennaio, febbraio e
inizio marzo. Solo i paesi dell’Asia orientale, più vigili a causa della loro
esperienza con la Sars, con la pandemia di H1N1 del 2009 e le epidemie di Nipah,
hanno risposto in modo più attento e con maggiore successo».
Come si fa a rendere la vita
sulla Terra sostenibile per le oltre 7 miliardi di persone, che presto
diventeranno 10? «Innanzitutto, dovremmo seguire gli obiettivi di sviluppo
sostenibile delle Nazioni Unite e l’Accordo sul clima di Parigi. L’Europa
dovrebbe attuare il Green Deal europeo. E dovrebbe cooperare con la Cina
affinché l’iniziativa denominata “Nuova Via della seta” sia sostenibile dal
punto di vista ambientale, anziché basata sui combustibili fossili. Dovremmo
usare le nuove tecnologie digitali in modo equo e saggio. Dovremmo cooperare
invece di combattere le guerre. Gli Stati Uniti dovrebbero essere molto meno
militaristi e molto più cooperativi con le altre nazioni».
Una volta finita l’emergenza
coronavirus, accadrà tutto questo? Come verrà rimessa in piedi l’economia
mondiale? «Usiamo il Green Deal europeo e gli Obiettivi per lo Sviluppo
Sostenibile dell’Onu come una via verso un futuro più equo e sostenibile.
Avremo bisogno di un’Europa più forte, con un bilancio europeo più ampio
incentrato sulle tecnologie e infrastrutture sostenibili per il 21esimo
secolo».
Questa ripartenza, può essere la
grande occasione per convertire l’intero sistema economico verso lo sviluppo
sostenibile? «Potrebbe essere. A meno che non scoppino conflitti geopolitici
che potrebbero ritardare questo progetto».
Tuttavia questa crisi potrebbe
anche spingere verso scorciatoie “insostenibili”. Alcuni leader europei hanno
chiesto di utilizzare i fondi assegnati al Green Deal per rilanciare l’economia
messa in ginocchio dal coronavirus. «Spero che i nostri politici imparino
qualcosa da questa crisi. Occorre saper guardare lontano e pianificare il
futuro. Questa esperienza dovrebbe farci riflettere: le nazioni occidentali
hanno fatto molto peggio delle nazioni dell’Asia orientale. Perché?».
Lei cosa ha imparato da questa
pandemia? «Che è davvero una cattiva idea avere uno psicopatico come presidente
degli Stati Uniti… anche se in verità lo sapevamo già!».
Cambierà qualcosa nel suo modo di
insegnare economia? «Tre cose. Innanzitutto, la maggior parte delle lezioni
saranno online. In secondo luogo, sono convinto che l’economia continuerà a
orientarsi verso lo sviluppo sostenibile, il che significa studiare un
approccio integrato che combini economia, ambiente, assistenza sanitaria e
condizioni sociali. Terzo, (…), avremo bisogno di nuove basi etiche
dell’economia: sto lavorando a un libro su questo tema».
E il concetto di sostenibilità
cambierà dopo il coronavirus? «Il concetto di sostenibilità era già in sintonia
con i rischi di epidemie. Nel mio libro del 2008 Il bene comune, avevo scritto:
‘Ci ritroviamo faccia a faccia come mai prima d’ora, affollati in una società interconnessa,
fatta di commercio globale, migrazione e idee, ma anche di rischi di malattie
pandemiche, terrore, movimenti di rifugiati, e conflitti’. Penso che quella
diagnosi sia ancora valida. La sostenibilità consiste nell’essere intelligenti,
preparati, resilienti ed equi in un mondo affollato e interconnesso».
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