Tratto
da “Sono tre i virus da sconfiggere”
di Umberto Galimberti, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 18 di giugno
2020: All’inizio pensavamo che il virus fosse un’infezione che attaccava i
nostri corpi, e per difenderci dal contagio che ci allarmava ci siamo chiusi
disciplinatamente nelle nostre case auto-limitando la nostra libertà, con la
paura alimentata ogni giorno dal numero impressionante dei ricoveri e da quello
più tragico delle morti. Poi ci siamo accorti che il virus stava infettando
anche la nostra economia creando disoccupazione a povertà, e qui la paura è
aumentata con un tasso d’angoscia crescente che non investiva drammaticamente
solo il presente, ma anche il futuro a medio e a lungo termine. (…). …queste
due paure non pongono termine all’infettività del virus.
C’è infatti la possibilità di un terzo contagio, determinato dalle due paure create dall’emergenza sanitaria e da quella economica, che producono in tutti noi uno stato emotivo che chiede tutela e protezione, per ottenere le quali, senza pensare alle conseguenze, molti sembrano disposti a cedere una altra fetta della nostra libertà pur di avere decisioni rapide, efficaci e soprattutto capaci di garantire quella sicurezza che il virus ci ha sottratto. Se questa disposizione d’animo emotiva dovesse avere il sopravvento, come è facile che avvenga rispetto al calcolo razionale, il potere potrebbe avere la tentazione di approfittare dell’emergenza per imboccare, se non la via del potere assoluto, quella di riscrivere il contratto sociale sul modello delle democrazie illiberali, di cui non mancano esempi in Europa e neppure proclami propagandistici in casa nostra. (…). …non c’è vaccino per questo possibile terzo contagio se non la difesa strenua della democrazia. (…). La nostra cultura, (…), regolata dalla razionalità del mercato e della tecnica, ci ha abituato a considerare la natura fondamentalmente come “materia prima” non solo da usare, ma come ci ricorda Heidegger da “usurare”, senza disporre di un’etica capace di farsi carico degli enti di natura (aria, acqua, animali, foreste, atmosfera, biosfera) considerati semplici mezzi e non fini da salvaguardare. E così il virus, annidato nelle foreste, si è spostato con gli animali con cui conviveva, nelle nostre città, dove ha fatto il passaggio di specie dagli animali all’uomo. Davvero non siamo responsabili dell’incuria con cui abbiamo trattato e continuiamo a trattare la natura? Esploso in Cina, (…), l’abbiamo trattato come un “alieno”, dimenticando che con la globalizzazione e con i mezzi di trasporto di cui disponiamo, le distanze non esistono più. La nostra letteratura e la nostra cinematografia avevano già descritto e immaginato lo sconvolgimento che può provocare una pandemia, ma il fatto di averlo immaginato ci dava l’impressione vacua di poterlo controllare. Nei confronti dell’alieno abbiamo riattivato tutti i pregiudizi che noi del primo mondo abbiamo maturato per secoli nei confronti di chi è diverso da noi, e la conseguente sicurezza di poterci facilmente difendere. Quando i fatti ci hanno smentito, abbiamo offerto al virus un’altra chance, la nostra paura, affiancata dall’angoscia che sempre si accompagna quando il nemico è invisibile. Paura della morte, altro aspetto della nostra esistenza che la nostra cultura ha rimosso, esorcizzato, dato da gestire, in occasione della malattia a quelle strutture tecniche che sono gli ospedali, dove i medici, per l’eccesso di affollamento si sono trovati di fronte alla scelta tragica di decidere chi aiutare a vivere, assumendo come principio quello “quantitativo” degli anni che ai pazienti restavano da vivere. Il prezzo è stato pagato dall’ecatombe delle persone anziane, trasportate dai camion agli inceneritori, senza conforto e senza rito. E mentre noi ce ne stavamo rinchiusi nelle nostre case, il secondo contagio incominciava a infettare la nostra economia. (…). Questo secondo contagio, dove il virus è passato dal nostro corpo fisico al corpo sociale, ha investito l’economia e determinato licenziamenti, disoccupazione, oltre ad aumentare il livello della povertà che già era pesante nel nostro Paese. Con la sua propagazione indiscriminata e senza distinzioni di sorta, il virus ci ha fatto conoscere, come in uno specchio, non solo le nostre paure e i nostri pregiudizi, ma anche le debolezze, quando non le insufficienze delle nostre strutture di protezione e più in generale del nostro stato sociale. E allora questa è l’occasione, (…), per «rimodulare il nostro modello sociale complessivo fino a riscrivere un nuovo contratto sociale che ricostruisca un vincolo tra ricchi e poveri, in un disegno di crescita per forza di cose rimodulato, dopo che l’emergenza ha travolto i vecchi modelli». Perché se questo non avviene, e per giunta in tempi rapidi, difficilmente si potrà evitare il terzo contagio, quello che infetta la politica, che, approfittando dell’emergenza e dello stato emotivo di una popolazione seriamente preoccupata che chiede protezione, può essere tentata da una riduzione degli spazi democratici, sul modello delle democrazie illiberali già in atto in molte parti della terra. Da questa tentazione, neanche il vaccino che tutti stiamo attendendo ci può difendere, ma solo noi se sapremo opporre un’adeguata resistenza. (…).
C’è infatti la possibilità di un terzo contagio, determinato dalle due paure create dall’emergenza sanitaria e da quella economica, che producono in tutti noi uno stato emotivo che chiede tutela e protezione, per ottenere le quali, senza pensare alle conseguenze, molti sembrano disposti a cedere una altra fetta della nostra libertà pur di avere decisioni rapide, efficaci e soprattutto capaci di garantire quella sicurezza che il virus ci ha sottratto. Se questa disposizione d’animo emotiva dovesse avere il sopravvento, come è facile che avvenga rispetto al calcolo razionale, il potere potrebbe avere la tentazione di approfittare dell’emergenza per imboccare, se non la via del potere assoluto, quella di riscrivere il contratto sociale sul modello delle democrazie illiberali, di cui non mancano esempi in Europa e neppure proclami propagandistici in casa nostra. (…). …non c’è vaccino per questo possibile terzo contagio se non la difesa strenua della democrazia. (…). La nostra cultura, (…), regolata dalla razionalità del mercato e della tecnica, ci ha abituato a considerare la natura fondamentalmente come “materia prima” non solo da usare, ma come ci ricorda Heidegger da “usurare”, senza disporre di un’etica capace di farsi carico degli enti di natura (aria, acqua, animali, foreste, atmosfera, biosfera) considerati semplici mezzi e non fini da salvaguardare. E così il virus, annidato nelle foreste, si è spostato con gli animali con cui conviveva, nelle nostre città, dove ha fatto il passaggio di specie dagli animali all’uomo. Davvero non siamo responsabili dell’incuria con cui abbiamo trattato e continuiamo a trattare la natura? Esploso in Cina, (…), l’abbiamo trattato come un “alieno”, dimenticando che con la globalizzazione e con i mezzi di trasporto di cui disponiamo, le distanze non esistono più. La nostra letteratura e la nostra cinematografia avevano già descritto e immaginato lo sconvolgimento che può provocare una pandemia, ma il fatto di averlo immaginato ci dava l’impressione vacua di poterlo controllare. Nei confronti dell’alieno abbiamo riattivato tutti i pregiudizi che noi del primo mondo abbiamo maturato per secoli nei confronti di chi è diverso da noi, e la conseguente sicurezza di poterci facilmente difendere. Quando i fatti ci hanno smentito, abbiamo offerto al virus un’altra chance, la nostra paura, affiancata dall’angoscia che sempre si accompagna quando il nemico è invisibile. Paura della morte, altro aspetto della nostra esistenza che la nostra cultura ha rimosso, esorcizzato, dato da gestire, in occasione della malattia a quelle strutture tecniche che sono gli ospedali, dove i medici, per l’eccesso di affollamento si sono trovati di fronte alla scelta tragica di decidere chi aiutare a vivere, assumendo come principio quello “quantitativo” degli anni che ai pazienti restavano da vivere. Il prezzo è stato pagato dall’ecatombe delle persone anziane, trasportate dai camion agli inceneritori, senza conforto e senza rito. E mentre noi ce ne stavamo rinchiusi nelle nostre case, il secondo contagio incominciava a infettare la nostra economia. (…). Questo secondo contagio, dove il virus è passato dal nostro corpo fisico al corpo sociale, ha investito l’economia e determinato licenziamenti, disoccupazione, oltre ad aumentare il livello della povertà che già era pesante nel nostro Paese. Con la sua propagazione indiscriminata e senza distinzioni di sorta, il virus ci ha fatto conoscere, come in uno specchio, non solo le nostre paure e i nostri pregiudizi, ma anche le debolezze, quando non le insufficienze delle nostre strutture di protezione e più in generale del nostro stato sociale. E allora questa è l’occasione, (…), per «rimodulare il nostro modello sociale complessivo fino a riscrivere un nuovo contratto sociale che ricostruisca un vincolo tra ricchi e poveri, in un disegno di crescita per forza di cose rimodulato, dopo che l’emergenza ha travolto i vecchi modelli». Perché se questo non avviene, e per giunta in tempi rapidi, difficilmente si potrà evitare il terzo contagio, quello che infetta la politica, che, approfittando dell’emergenza e dello stato emotivo di una popolazione seriamente preoccupata che chiede protezione, può essere tentata da una riduzione degli spazi democratici, sul modello delle democrazie illiberali già in atto in molte parti della terra. Da questa tentazione, neanche il vaccino che tutti stiamo attendendo ci può difendere, ma solo noi se sapremo opporre un’adeguata resistenza. (…).
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