Traggo da “Smettiamo di crederci padroni del mondo” di Umberto Galimberti,
pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” dell’11 di giugno
dell’anno 2016: Religione ed etica laica faticano entrambe a concepire animali e natura
come valori in sé, e non beni al nostro servizio. Eppure è il solo modo per
salvare il pianeta. Il Papa non ha «negato l'amore per cani e gatti in quanto
lo toglierebbe ai vicini di casa», ha semplicemente detto che spesso si
riservano agli animali amore e cure che si negano agli uomini. (…). Questa
gerarchia è stata inaugurata dalla tradizione giudaico-cristiana che ha posto
l'uomo al vertice dell'universo assegnandogli il dominio su tutto il creato:
«Poi Iddio disse: facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza: domini sopra
i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, su gli animali domestici, su tutte
le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua
superficie» (Genesi 1, 26).
In questo modo la tradizione giudaico-cristiana ha stabilito una gerarchia che prevede al vertice l'uomo, inaugurando quella cultura antropocentrica che ha portato a trattare la terra come semplice materia prima, con tutte le catastrofiche conseguenze di cui oggi incominciamo a renderci conto. Non così i Greci antichi. Scrive Platone: «Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell'universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica» (Leggi, X, 903 c). Aver dimenticato il messaggio greco e privilegiato quello della tradizione giudaico-cristiana non ha consentito di costruire in Occidente una morale che si faccia carico degli enti di natura. Anche Kant, nel formulare una morale fondata esclusivamente sulla ragione, affinché potesse valere per tutti a prescindere dalle convinzioni religiose, pone come suo principio: «Occorre trattare l'uomo sempre come un fine e mai come un mezzo». Pur nella nobiltà della sua intenzione, anche questa morale non coinvolge gli enti di natura che, rispetto all'uomo concepito come fine, sono pensati come puri mezzi al suo servizio. E così l'uso della terra si è spinto fino all'abuso, al punto che oggi dobbiamo chiederci: l'aria è un mezzo o è a sua volta un fine da salvaguardare? E l'acqua, l'atmosfera, la biosfera, la flora, la fauna, sono tutti mezzi o altrettanti fini da preservare? È ovvio che non bastano i buoni propositi per salvare la terra e tutti quelli che la abitano, piante e animali compresi. Quel che occorre è un radicale capovolgimento nel modo di pensare che, come intendevano i Greci, ponga la natura e non l'uomo al centro dell'universo. Questo capovolgimento va poi interiorizzato, perché le sole a essere osservate sono quelle leggi morali che si sono tradotte in convincimenti psichici. Come l'omicidio o la violenza sessuale, che ricevono una condanna immediata da parte di chiunque, a differenza per esempio dell'inquinamento o della contraffazione, che non suscitano una analoga reazione. Quanto poi agli animali, non ritengo che li amino quelli che li tolgono dal loro ambiente naturale per costringerli nei loro appartamenti dopo averli castrati per evitare che generino come natura detta e spargano odori nei giorni di calore. Allo stesso modo non li amano i cacciatori che li uccidono non per cibarsi come un tempo facevano i nostri progenitori, ma per piacere. Forse è meglio prendersela con loro che con un messaggio del Papa, per giunta frainteso. Nel gran parlare d’oggi sullo stato del pianeta Terra, ora che il “coronavirus” ha fatto la sua tragica comparsa nella storia della Terra e degli umani, stato in verità disastroso a detta dei molti conoscitori della materia, con l’improvvisa scoperta di un nuovo lucroso “affare” legato alla sopravvivenza della specie umana ed alle nuove tecnologie che dovrebbero limitare l’avvelenamento dello strato antropico e non solo dell’ambiente terrestre, trovo interessante la ri-lettura di un breve saggio, di seguito trascritto in parte, di Umberto Galimberti, saggio pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 14 di agosto sempre dell’anno 2006 e facente esso parte di una serie di riflessioni raccolte in “Questioni etiche/ Nuovi comportamenti”: Disponiamo di un’etica in grado di pensare alla natura minacciata dalla tecnica e quindi alle generazioni future che si troveranno a vivere a partire da ciò che gli avremo lasciato? Temo di no. Perché il rapporto uomo-natura è stato regolato per noi occidentali da due visioni del mondo: quella greca e quella giudaico-cristiana che, per quanto differenti tra loro, convenivano nell’escludere che la natura rientrasse nella sfera di pertinenza dell’etica, il cui ambito era limitato alla regolazione dei rapporti tra gli uomini senza alcuna estensione agli enti di natura. I greci, infatti, concepivano la natura come quell’ordine immutabile, quell’orizzonte non oltrepassabile, quel limite insuperabile che nessuna azione umana poteva violare. Lo stesso Prometeo, l’inventore delle tecniche, non esita a riconoscere che “la tecnica è di gran lunga più debole della necessità che governa le leggi di natura”. Quando la cultura greca incrocia la cultura giudaico-cristiana lo scenario muta perché la religione biblica, concependo la natura come creatura di Dio, la pensa come effetto di una volontà: la volontà di Dio che l’ha creata e la volontà dell’uomo a cui la natura è stata data in consegna per il suo dominio. Da quel momento il significato della natura non è più cosmologico ma antropologico. Essa, cioè, viene subordinata alle intenzioni della progettualità umana che, come vuole il programma della scienza moderna enunciato da Bacone (scientia est potentia), conosce per dominare. Il problema che oggi si pone è la misura di questo dominio, che già Sofocle paventava quando nell’Antigone scriveva: - La natura ha forze tremende, eppure, più dell’uomo, nulla è tremendo -. (…). Questa etica, che dalle prime comunità umane a oggi è rimasta nei suoi principi fondamentalmente immutata, nell’età della tecnica rivela tutti i suoi limiti, ravvisabili proprio nelle sue caratteristiche che sono: il primato antropologico, che percepisce la natura come un semplice mezzo al servizio dell’uomo concepito come fine a cui sono subordinate tutte le cose, e la limitazione spazio-temporale per cui quel che accade fuori dalle mura della città, o il futuro che oltrepassa la biografia dei suoi abitanti non sono avvertiti come qualcosa che investe o implica responsabilità etica. Per effetto di questi limiti, oggi non disponiamo di un’etica che sia all’altezza dell’età della tecnica, la cui potenza ed espansione compromette la natura che non può più essere pensata, come ritenevano gli antichi, immutabile e immodificabile. La città degli uomini, infatti, che un tempo era uno spazio recintato nel mondo naturale, oggi ha preso il posto della natura, ridotta a spazio recintato nel mondo artificiale della città. Per effetto di questo capovolgimento oggi la natura può vivere solo grazie all’assistenza tecnica, la stessa che un giorno l’ha compromessa, modificando le condizioni d’esistenza del mondo umano e animale nel loro ricambio organico con la natura. Se guardiamo la monotonia di distese di cereali solcate da mietitrici solitarie e irrorate da antiparassitari erogati in volo, abbiamo un esempio elementare ma indicativo di come la tecnica, anche quando soccorre la natura, anche quando la ipernaturalizza, in realtà la denaturalizza, perché crea un paesaggio così poco ospitale e così poco comunicativo che persino una grande fabbrica offre un volto più umano. Se poi dal mondo vegetale passiamo a quello animale, l’estrema degradazione di esseri viventi trasformati in macchine da uova e da carne, sottratti al loro ambiente, sottoposti a illuminazione artificiale, alimentati automaticamente, deprivati sensorialmente, è la prova più evidente di come l’assistenza tecnica alla natura denaturi la natura e segni l’abissale distanza che ormai separa la tecnica dal suo antico radicamento naturale. (…). A questo punto l’etica di cui disponiamo, che assume l’uomo come fine di tutte le cose e che circoscrive la sua competenza alla regolazione dei rapporti tra gli uomini nel limite temporale delle loro biografie senza sporgere lo sguardo sulle generazioni future, è un’etica assolutamente inadeguata all’età della tecnica. Il principio della morale kantiana: - Occorre trattare l’uomo sempre come un fine e mai come un mezzo -, a parte che non si è mai realizzato, lascia in ogni caso intendere che, fatta eccezione per l’uomo, tutti gli enti di natura possono essere trattati come mezzi. Ma oggi l’aria contaminata da agenti nocivi, l’acqua corrotta da elementi inquinanti, la vegetazione minacciata dalla desertificazione, la fauna in molte sue specie in estinzione, sono solo mezzi al servizio dell’uomo o devono a loro volta essere elevati a fini da salvaguardare e quindi da affidare alla cura e alla responsabilità morale dell’uomo? Come si vede l’etica di cui disponiamo, che, in conformità al messaggio biblico, ha subordinato tutti gli enti di natura all’uomo, non è un’etica adeguata alla salvaguardia della natura e quindi neanche dell’uomo, che ha nell’ambiente naturale la condizione imprescindibile della sua esistenza. Oggi, infatti, il pericolo non viene più, come un tempo, dalla natura, ma dal potere conseguito dall’uomo per dominarla in quella forma che, oltrepassando ogni misura, non si limita all’uso della terra, ma si spinge fino alla sua usura. (…).
In questo modo la tradizione giudaico-cristiana ha stabilito una gerarchia che prevede al vertice l'uomo, inaugurando quella cultura antropocentrica che ha portato a trattare la terra come semplice materia prima, con tutte le catastrofiche conseguenze di cui oggi incominciamo a renderci conto. Non così i Greci antichi. Scrive Platone: «Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell'universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica» (Leggi, X, 903 c). Aver dimenticato il messaggio greco e privilegiato quello della tradizione giudaico-cristiana non ha consentito di costruire in Occidente una morale che si faccia carico degli enti di natura. Anche Kant, nel formulare una morale fondata esclusivamente sulla ragione, affinché potesse valere per tutti a prescindere dalle convinzioni religiose, pone come suo principio: «Occorre trattare l'uomo sempre come un fine e mai come un mezzo». Pur nella nobiltà della sua intenzione, anche questa morale non coinvolge gli enti di natura che, rispetto all'uomo concepito come fine, sono pensati come puri mezzi al suo servizio. E così l'uso della terra si è spinto fino all'abuso, al punto che oggi dobbiamo chiederci: l'aria è un mezzo o è a sua volta un fine da salvaguardare? E l'acqua, l'atmosfera, la biosfera, la flora, la fauna, sono tutti mezzi o altrettanti fini da preservare? È ovvio che non bastano i buoni propositi per salvare la terra e tutti quelli che la abitano, piante e animali compresi. Quel che occorre è un radicale capovolgimento nel modo di pensare che, come intendevano i Greci, ponga la natura e non l'uomo al centro dell'universo. Questo capovolgimento va poi interiorizzato, perché le sole a essere osservate sono quelle leggi morali che si sono tradotte in convincimenti psichici. Come l'omicidio o la violenza sessuale, che ricevono una condanna immediata da parte di chiunque, a differenza per esempio dell'inquinamento o della contraffazione, che non suscitano una analoga reazione. Quanto poi agli animali, non ritengo che li amino quelli che li tolgono dal loro ambiente naturale per costringerli nei loro appartamenti dopo averli castrati per evitare che generino come natura detta e spargano odori nei giorni di calore. Allo stesso modo non li amano i cacciatori che li uccidono non per cibarsi come un tempo facevano i nostri progenitori, ma per piacere. Forse è meglio prendersela con loro che con un messaggio del Papa, per giunta frainteso. Nel gran parlare d’oggi sullo stato del pianeta Terra, ora che il “coronavirus” ha fatto la sua tragica comparsa nella storia della Terra e degli umani, stato in verità disastroso a detta dei molti conoscitori della materia, con l’improvvisa scoperta di un nuovo lucroso “affare” legato alla sopravvivenza della specie umana ed alle nuove tecnologie che dovrebbero limitare l’avvelenamento dello strato antropico e non solo dell’ambiente terrestre, trovo interessante la ri-lettura di un breve saggio, di seguito trascritto in parte, di Umberto Galimberti, saggio pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 14 di agosto sempre dell’anno 2006 e facente esso parte di una serie di riflessioni raccolte in “Questioni etiche/ Nuovi comportamenti”: Disponiamo di un’etica in grado di pensare alla natura minacciata dalla tecnica e quindi alle generazioni future che si troveranno a vivere a partire da ciò che gli avremo lasciato? Temo di no. Perché il rapporto uomo-natura è stato regolato per noi occidentali da due visioni del mondo: quella greca e quella giudaico-cristiana che, per quanto differenti tra loro, convenivano nell’escludere che la natura rientrasse nella sfera di pertinenza dell’etica, il cui ambito era limitato alla regolazione dei rapporti tra gli uomini senza alcuna estensione agli enti di natura. I greci, infatti, concepivano la natura come quell’ordine immutabile, quell’orizzonte non oltrepassabile, quel limite insuperabile che nessuna azione umana poteva violare. Lo stesso Prometeo, l’inventore delle tecniche, non esita a riconoscere che “la tecnica è di gran lunga più debole della necessità che governa le leggi di natura”. Quando la cultura greca incrocia la cultura giudaico-cristiana lo scenario muta perché la religione biblica, concependo la natura come creatura di Dio, la pensa come effetto di una volontà: la volontà di Dio che l’ha creata e la volontà dell’uomo a cui la natura è stata data in consegna per il suo dominio. Da quel momento il significato della natura non è più cosmologico ma antropologico. Essa, cioè, viene subordinata alle intenzioni della progettualità umana che, come vuole il programma della scienza moderna enunciato da Bacone (scientia est potentia), conosce per dominare. Il problema che oggi si pone è la misura di questo dominio, che già Sofocle paventava quando nell’Antigone scriveva: - La natura ha forze tremende, eppure, più dell’uomo, nulla è tremendo -. (…). Questa etica, che dalle prime comunità umane a oggi è rimasta nei suoi principi fondamentalmente immutata, nell’età della tecnica rivela tutti i suoi limiti, ravvisabili proprio nelle sue caratteristiche che sono: il primato antropologico, che percepisce la natura come un semplice mezzo al servizio dell’uomo concepito come fine a cui sono subordinate tutte le cose, e la limitazione spazio-temporale per cui quel che accade fuori dalle mura della città, o il futuro che oltrepassa la biografia dei suoi abitanti non sono avvertiti come qualcosa che investe o implica responsabilità etica. Per effetto di questi limiti, oggi non disponiamo di un’etica che sia all’altezza dell’età della tecnica, la cui potenza ed espansione compromette la natura che non può più essere pensata, come ritenevano gli antichi, immutabile e immodificabile. La città degli uomini, infatti, che un tempo era uno spazio recintato nel mondo naturale, oggi ha preso il posto della natura, ridotta a spazio recintato nel mondo artificiale della città. Per effetto di questo capovolgimento oggi la natura può vivere solo grazie all’assistenza tecnica, la stessa che un giorno l’ha compromessa, modificando le condizioni d’esistenza del mondo umano e animale nel loro ricambio organico con la natura. Se guardiamo la monotonia di distese di cereali solcate da mietitrici solitarie e irrorate da antiparassitari erogati in volo, abbiamo un esempio elementare ma indicativo di come la tecnica, anche quando soccorre la natura, anche quando la ipernaturalizza, in realtà la denaturalizza, perché crea un paesaggio così poco ospitale e così poco comunicativo che persino una grande fabbrica offre un volto più umano. Se poi dal mondo vegetale passiamo a quello animale, l’estrema degradazione di esseri viventi trasformati in macchine da uova e da carne, sottratti al loro ambiente, sottoposti a illuminazione artificiale, alimentati automaticamente, deprivati sensorialmente, è la prova più evidente di come l’assistenza tecnica alla natura denaturi la natura e segni l’abissale distanza che ormai separa la tecnica dal suo antico radicamento naturale. (…). A questo punto l’etica di cui disponiamo, che assume l’uomo come fine di tutte le cose e che circoscrive la sua competenza alla regolazione dei rapporti tra gli uomini nel limite temporale delle loro biografie senza sporgere lo sguardo sulle generazioni future, è un’etica assolutamente inadeguata all’età della tecnica. Il principio della morale kantiana: - Occorre trattare l’uomo sempre come un fine e mai come un mezzo -, a parte che non si è mai realizzato, lascia in ogni caso intendere che, fatta eccezione per l’uomo, tutti gli enti di natura possono essere trattati come mezzi. Ma oggi l’aria contaminata da agenti nocivi, l’acqua corrotta da elementi inquinanti, la vegetazione minacciata dalla desertificazione, la fauna in molte sue specie in estinzione, sono solo mezzi al servizio dell’uomo o devono a loro volta essere elevati a fini da salvaguardare e quindi da affidare alla cura e alla responsabilità morale dell’uomo? Come si vede l’etica di cui disponiamo, che, in conformità al messaggio biblico, ha subordinato tutti gli enti di natura all’uomo, non è un’etica adeguata alla salvaguardia della natura e quindi neanche dell’uomo, che ha nell’ambiente naturale la condizione imprescindibile della sua esistenza. Oggi, infatti, il pericolo non viene più, come un tempo, dalla natura, ma dal potere conseguito dall’uomo per dominarla in quella forma che, oltrepassando ogni misura, non si limita all’uso della terra, ma si spinge fino alla sua usura. (…).
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