Da “Reddito
di cittadinanza: così cadono le obiezioni liberiste” di Giovanni Scarano –
docente di politica economica all’Università Roma Tre – pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 28 di marzo 2018:
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 30 marzo 2018
giovedì 29 marzo 2018
Primapagina. 81 “P-d(emens)”.
Da “Quale follia
dem di far tacere i vecchi a prescindere”, intervista di Concita De
Gregorio a Nicola Sartor rettore
dell'università di Verona, pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 27 di marzo
2018: (…). Un parere generale sull’azione politica di Renzi, per cominciare. «Renzi
ha cavalcato il tema generazionale in modo riduttivo. In Università osservo
giovani vecchi e vecchi giovani. Il dato anagrafico è di un semplicismo enorme.
Strumentale al consenso. Mi pare follia far tacere i vecchi a prescindere. La
mancata elezione di Prodi al Quirinale è stata una forte manifestazione di
questa tendenza, declinata mi pare per un tornaconto personale. È stato,
quello, un punto di svolta della politica di questi anni. Accantonare persone
come Prodi e Rodotà in nome della giovinezza non lo trovo un criterio».
mercoledì 28 marzo 2018
Quodlibet. 68 “Ulrich Beck e l'errore del bruco".
Da “L’errore del bruco” di Barbara Spinelli, pubblicato sul quotidiano
la Repubblica del 28 di marzo dell’anno 2012: Il vero problema è che manca
terribilmente l'aria, nelle stanze dove si riscrive il Welfare europeo (…). Le
stanze sono piccole, strette, e l'essenziale resta dietro la porta.
L'essenziale è l'Europa: l'ossigeno che può venire da essa, se la trasformiamo
in unione politica che governi quel che gli Stati non governano più. (…). La
crisi mostra l'inconsistenza degli Stati nazione, e nel nuovo mondo - già
sovranazionale economicamente, ma non politicamente e democraticamente - le
sinistre storiche sono in un vicolo cieco. Dicono alcuni che la democrazia
svanisce, nel presente squasso. Secondo Ernesto Galli della Loggia, solo lo
Stato nazione può essere democratico: fuori di esso non esisterebbe un demos ma
"individui sparpagliati, che semplicemente 'si conoscono'" (Corriere
12-3). Rotto il contenitore nazionale, la democrazia apocalitticamente muore.
Dimentica, l'autore, che lo Stato nazione (a differenza degli imperi) ha creato
democrazia ma anche nazionalismi, guerre, annientamenti di tutto ciò che il
demos (popolo) riteneva impuro. (…). È la tesi dominante invece - ha la forza
dello status quo - ed è anche la più facile, perché inventare un diverso
ordinamento europeo implica ingegno, fantasia, forti trasferimenti di
sovranità, trasgressione di conformismi, e una mente cosmopolitica che le
sinistre storiche professano sempre, osservano di rado. (…). Solo attraverso un
governo europeo eletto e controllato dai deputati europei, ritroveremo la
sovranità che gli Stati hanno delegato non perché rinunciatari, ma perché non
la possiedono più. Solo in Europa possiamo fare quello che nazionalmente è
infattibile: salvare il Welfare, dotare il potere sovranazionale di risorse per
un'altra crescita, più competitiva e anche parsimoniosa perché fatta in comune.
Concentrata su energie alternative, ricerca, istruzione, trasporti comuni che
superino l'automobile individuale. Ulrich Beck (15 maggio 1944 - 1 gennaio
2015, sociologo e scrittore tedesco n.d.r.) ha dato un nome all'indolenza dei
politici nazionali. La chiama l'"errore del bruco". L'umanità-bruco
vive la condizione della crisalide, "ma lamenta la propria scomparsa
perché non presagisce la farfalla che sta per diventare". Non è la prima
volta che accade, secondo lo scrittore Burkhard Müller che per primo ha usato
la metafora del bruco (Süddeutsche Zeitung, 1-8-08). Nell'800 stava per finire
la legna: nessuno presagiva il carbone fossile. Oggi accade lo stesso col
petrolio, e anche con gli Stati nazione. Si aspetta che l'alternativa si
materializzi da sola, mentre bisogna tirarla fuori dal pigro ventre del
presente. Decenni di lavoro di movimenti cittadini hanno consentito ai tedeschi
di uscire dal nucleare, ricorda Habermas. Anni di negoziati hanno prodotto un
diritto del lavoro che non ha spaccato e umiliato i sindacati come da noi. La
sinistra può farcela. Purché lavori alla nascita della farfalla europea, e
smetta le comode certezze di chi, apocalitticamente vivendo da bruco, ritiene
morta le democrazia, una volta perduto il contenitore che fu lo Stato nazione.
martedì 27 marzo 2018
Primapagina. 80 “Del servo encomio o del codardo oltraggio”.
Da “Il
popolo puzza” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27
di marzo 2018: (…). Servo encomio. Sabato Roberto Fico era stato appena eletto
presidente del Senato e già il Tg1 aveva la lingua di fuori, pronta alla
leccata: “Napoletano, classe ’74, laurea con lode in Scienza della
comunicazione”. Anzi, cum laude: fino al giorno prima era un buzzurro populista
arruffapopolo incompetente, ora è già uno scienziato. Uno che “rinuncia subito
all’indennità di funzione e all’auto blu” e “non manca di mettere in guardia
dagli eccessi di personalismo ed egocentrismo”. Come San Francesco. Uno che “in
campagna elettorale sceglie di andare casa per casa”. Come Gesù. “Ora per lui
inizia quella che ha definito ‘un’avventura meravigliosa’…”. È un bel
Presidente! Un apostolo! Un santo! Il Tg2 è il secondo, ma solo in ordine
numerico, non certo affettivo: “Da presidente della Vigilanza Rai, Fico è
apprezzato in modo bipartisan per il suo equilibrio e il suo rigore
professionale”. Però lo diciamo solo ora, prima del 4 marzo era meglio di no. E
poi, udite udite, “risulta il più votato del Movimento nella sua Campania”. Non
è vero, i 5Stelle più votati in Campania sono Di Maio, De Lorenzo e Spadafora,
ma fa niente: i voti mancanti glieli regala il Tg2, alla carriera, perché “a
lui è riconosciuta quell’esperienza di gestione dell’aula che era stata
richiesta dal centrodestra come qualità prioritaria del candidato a
Montecitorio”. Per la verità era Di Maio, come vicepresidente della Camera, che
dirigeva l’aula, ma fa lo stesso. Uno vale uno, anzi uno vale l’altro. E
attenzione: il Corriere.it svela che “Fico non lascia le vecchie abitudini: va
alla Camera prendendo l’autobus. Ha preso la metropolitana fino alla Stazione
di Napoli e poi il treno fino a Roma. Poi l’autobus fino a via del Corso”
(Corriere.it). Roba forte. Segue un imperdibile reportage “Nel bar dove Fico
prende il caffè”. Pare, per bocca. Codardo oltraggio. Era già toccato a Renzi
dopo la sconfitta al referendum, spiegata da tutti i giornaloni schierati per
il Sì alla sua riforma costituzionale come la giusta punizione per
quell’orrenda riforma costituzionale e per una lunga serie di altri errori
marchiani che curiosamente nessuno gli aveva mai rinfacciato mentre li
commetteva e quando ancora poteva correggerli. Ora il codardo oltraggio si posa
pure su B., dipinto come un vecchio rincitrullito da chi fino al 4 marzo lo
trovava molto tonico e in palla, artefice di una campagna elettorale geniale e
magistrale, in grande ascesa nei sondaggi, ben sopra quel cavernicolo di
Salvini, anche quando ricordava di aver “alzato le pensioni a mille lire” e
raccontava degli immigrati clandestini che “entrano nelle nostre case e si
fiondano subito al frigo per bere l’olio dalla bottiglia”. Alla vigilia del
voto, Libero titolava: “Silvio non si ferma più” (26.2). “Sul web Berlusconi ha
già vinto: Internet parla solo di lui” (1.3). Ora Vittorio Feltri dice: “È già
tanto che sia vivo. Uno che candida Tajani e pensa di vincere le elezioni è
pronto per l’ospizio”. Amen. Bilioso rosicamento. Francesco Merlo è
inconsolabile. Ancora una volta gli elettori non hanno seguito gli amorevoli
consigli di Repubblica (anche perché non li hanno capiti). E lui se lo spiega
con argomenti a metà fra il colonnello in pensione e la beghina anni 50: i
vertici delle due Camere sono finiti in mano “agli “estremisti, agli
squinternati d’assalto, ai campioni delle insolenze, dello sberleffo e dello
sbeffeggiamento”, insomma alla “diarchia del populismo che governerà l’Italia”.
Già grande fan dei governi Monti e Letta, nati dal patto fra B. e il Pd, Merlo
si riscopre improvvisamente antiberlusconiano e lacrima come una vite tagliata
per l’elezione della Casellati, “la più berlusconiana dei presidenti che abbia
mai avuto il Senato” (invece Schifani, eletto nel 2008 con l’astensione del Pd,
era un noto nemico del Caimano, infatti Repubblica lo difese amorevolmente dal
sottoscritto). Ma soprattutto il Merlo è affranto per “il fallimento di
quell’Italia che aveva sognato le mediazioni culturali e i libri, quell’Italia
di sinistra che si era illusa di tirarsi fuori dal pantano attraverso i grandi
riferimenti internazionali, da Camus all’America di Obama, da Tocqueville a
Marx a Bobbio ad Habermas. E invece – unico Paese dell’Europa avanzata – qui il
Castello è stato espugnato dai populismi senza incontrare resistenza”. D’ora in
poi, niente più libri: li stanno bruciando tutti i 5Stelle, che vincono per “i
rutti e i vaffa insieme con le scie chimiche, i microchip sotto la pelle, la
guerra ai ‘vaccini inutili’, le ignorantissime lezioni sul tumore da curare
‘con il limone e la cacca di capra’ e su “l’Aids che è la più grande bufala del
secolo”; e i leghisti, cioè “la destra dei forconi e delle ruspe, della
castrazione chimica, dello sparare a vista, di Salvini che indossava la
cravatta solo da nudo”.
lunedì 26 marzo 2018
Primapagina. 79 “Berlusconismo allo stato puro”.
Da “B. sei
tutti loro” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 24 di
marzo 2018: (…). L’indifferenza dei giornaloni per la sentenza della Cassazione su
un politico che guadagna soldi a palate con tripli e quadrupli incarichi e
tenta di accollare ai contribuenti pure le bollette telefoniche della figlia,
poi si candida a presidente del Senato, è l’ultimo stadio del berlusconismo che
ha sfigurato la cosiddetta informazione, ormai immemore dei propri doveri e
anche del proprio non indecente passato (basta confrontare le battaglie della
stampa su Tangentopoli e i silenzi odierni). Lotti che incontra Letta per un
nuovo Nazarenino prêt-à-porter con B., in barba al giuramento dei renziani di
stare all’opposizione, sull’Aventino, per godersi lo sfascio prodotto da loro,
è berlusconismo allo stato puro. Il pm milanese che chiede al Tribunale di
condannare l’ex governatore Bobo Maroni a 2 anni e mezzo per induzione indebita
(la vecchia concussione per induzione) a proposito delle pressioni fatte per
portarsi a Tokyo, in missione istituzionale, la sua presunta amante, ricorda
come il familismo amorale berlusconiano abbia contagiato gli ex duri e puri
della Lega, nata proprio contro i nepotismi e gli sperperi di “Roma ladrona”.
La sparata di Tiziano Renzi che rifiuta di rispondere ai pm di Firenze e Roma
non per una legittima strategia difensiva, ma per attaccare i “processi
mediatici” a orologeria originati – a suo dire – non dai fallimenti di sue
società, dai pasticci contabili, dalle fatture farlocche, dai traffici sugli
appalti Consip, ma dal suo cognome e dall’ansia di colpire il figlio premier, e
la nota di Matteo che s’affretta a dargli ragione (“Da 4 anni le persone a me
vicine sono state oggetto di indagini di vario genere”), sono purissima prosa
berlusconiana, o dell’utriana, o previtiana. Stesse parole, stesso disprezzo
per l’indipendenza della magistratura e per la libertà di stampa, stessa
protervia da “io so’ io e voi nun siete un cazzo”. E la pestilenza B. dilaga
persino alla Consulta, un tempo tempio della legalità. Non appena il giudice
costituzionale Nicolò Zanon (ovviamente berlusconiano) si dimette perché
indagato per peculato a proposito dell’auto blu – con autista e buoni benzina –
passata alla moglie per farla scarrozzare a sbafo pure in vacanza da Forte dei
Marmi, la Corte respinge le sue dimissioni. E accoglie la sua farsesca
“autosospensione” dall’incarico. Poi gli confeziona un regolamento domestico ad
personam, anzi ad Zanonem, con “valenza di normazione primaria” e con effetto
retroattivo, per salvarlo dall’indagine in base a un principio che sarebbe già
previsto (secondo lorsignori) da una normativa interna del 1979 (e allora
perché vararne un’altra proprio adesso?): e cioè che l’auto di servizio fino
all’altroieri era una specie di proprietà privata con soldi pubblici, estesa
pure ai famigliari; ma in futuro non potrà più esserlo, essendo concessa in uso
“personale ed esclusivo”. Così ieri, in base al nuovo regolamento (che ai tempi
degli scarrozzamenti di lady Zanon non esisteva: è del 21 marzo), la Procura di
Roma ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta a tempo di record. Bei tempi,
quando la Consulta le leggi ad personam non le faceva, ma le dichiarava
incostituzionali. Aveva ragione Gaber venti e più anni fa, quando paventava “il
Berlusconi in me più del Berlusconi in sé”. Nel frattempo B. si è fatto
legione, atmosfera, clima, panorama, categoria dello spirito. Non per tutti, ma
per molti. Anche se non può metter piede in Parlamento e hanno lo stomaco di
votarlo soltanto il 13% degli elettori (che sono comunque 4 milioni e mezzo di
persone: un’enormità), non riusciremo a liberarcene neppure da morto, perché
continuerà a far danni nella testa e nelle viscere di milioni di italiani per
decenni. Girarci intorno come fosse una parentesi sarebbe assurdo. E sperare in
un esorcismo di massa perché esca da tutti quei corpi sarebbe ridicolo: non
basterebbero un milione di padri Amorth e vescovi Milingo. Ora che la Consulta
s’è arresa alle leggi ad personam retroattive, ne appronti subito un’altra per
cancellare la destituzione di B. da senatore in base alla legge Severino e lo
restituisca ai suoi fan a Palazzo Madama e fuori (molto più numerosi dei suoi
senatori e anche dei suoi elettori), così che venga eletto direttamente lui
alla presidenza. (…).
domenica 25 marzo 2018
Lalinguabatte. 53 “Il fascino oscuro della guerra”.
(…). …oggi, il compito di un vero
pacifismo dovrebbe essere non tanto demonizzare all’eccesso la guerra, quanto
capire che solo quando saremo capaci di un’altra bellezza potremo fare a meno
di quella che la guerra da sempre ci offre. Costruire un’altra bellezza è forse
l’unica strada verso una pace vera. (…). Così ha scritto, nella sua “Iliade”, Alessandro Baricco. Ho
voluto anteporre il brevissimo
brano di Baricco alla corrispondenza “Il fascino oscuro della guerra” di
Umberto Galimberti, corrispondenza apparsa su di un supplemento del quotidiano
“la Repubblica”, sotto l’influsso di un interrogativo assillante che mi porto
dietro: è possibile la ricerca di “un’altra bellezza” che faccia da
argine all’incontrollabile, sempiterno fascino della guerra? Incontrollabile e
sempiterno fascino, che non abbandona l’essere umano, pur avendo esso lasciato le
caverne e le clave da un bel pezzo. Ha sostituito sì alle clave le bombe
intelligenti, ma pur sempre nefaste sono le conseguenze della guerra. Esiste allora
la speranza di “un’altra bellezza”, oppure essa è e sarà bandita per sempre
dalla storia dell’uomo? Del resto la sua dualità, per la quale albergano nell’essere
umano al contempo la socievolezza derivante dalla ragione e la ferinità propria
delle belve, sembra escludere dall’orizzonte degli umani la predetta speranza:
duemila e più anni di cristianesimo, pur nelle sue tante varianti, non hanno
reso l’uomo quell’uomo nuovo che anche altre filosofie e prassi hanno
vagheggiato inutilmente. A guardarsi dintorno oggigiorno lo sconforto assale
repentino: nell’era della globalizzazione e della comunicazione di massa sono
proprio gli strumenti di essa a mancare l’obiettivo per “un’altra bellezza”. Le
brutture quotidiane che affliggono da sempre la vita dell’essere umano sono offerte
dai moderni mass-media come novelle forme di intrattenimento; l’incredibilità
di alcune vicende e soprattutto i comportamenti conseguenti dei protagonisti di
quei nefasti accadimenti, l’incredibile voglioso accorrere di folle sui luoghi
dei delitti più efferati o addirittura nelle aule superaffollate dei tribunali,
ove si dibattono e si rievocano fatti atroci, sono gli indici inequivocabili di
un nefasto effetto, sull’immaginario collettivo, dell’opera suadente ed al
contempo fuorviante dei moderni mezzi di informazione. È allora certo che tutto
ciò che alberga nelle circonvoluzioni più arcaiche del cervello umano avrà
sempre buon gioco nell’eterna lotta tra il bene ed il male. E la guerra
rappresenta, da sempre, il male supremo ed inestirpabile. Un’assuefazione collettiva
ad essa, quindi, che le moderne sue rappresentazioni la ripuliscono quasi delle
sue lordure, tanto da renderla godibile anche nell’intrattenimento familiare
quotidiano?
sabato 24 marzo 2018
Primapagina. 78 “Povero cocco di mamma! Trombato!”.
Da “Sono
ladri questi Romani” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano”
del 22 di marzo 2018: (…). Il peculato, secondo i migliori
dizionari, è una “appropriazione indebita di denaro o altro bene mobile
appartenente ad altri, commessa da un pubblico ufficiale”. Cioè un furto di
soldi o beni pubblici. Quindi Romani è ladro e bugiardo: due requisiti
essenziali per la seconda carica dello Stato. Lo racconta la sentenza della
Cassazione del 29 maggio 2017. Nel gennaio 2011 Romani è contemporaneamente
consigliere e assessore all’Expo al Comune di Monza, deputato Pdl e ministro
dello Sviluppo. Il Comune gli dà un cellulare per le attività istituzionali.
Lui lo gira alla figlia minore,che lo usa in esclusiva per 13 mesi, anche in un
viaggio negli Usa, accumulando bollette per 12.883 euro. Tanto paga Pantalone. Romani
viene indagato e imputato per peculato. Si difende alla Scajola, col più
classico degli insaputismi: con tutto quel che aveva da fare coi suoi quattro
incarichi, come poteva mai accorgersi che il cellulare comunale lo usava sua
figlia? Poi purtroppo i giudici scoprono che: la figlia lo usava anche per
chiamare il papà;un giorno perse il telefonino e la denuncia di smarrimento la
sporse il genitore; Romani ottenne una nuova Sim con lo stesso numero e la
passò subito alla pargola. Dopodiché, quando fu beccato, si precipitò a
risarcire il Comune. Ma se uno ruba un’auto e poi, quando lo scoprono, la
restituisce al proprietario, non può dire di non averla rubata o lamentarsi se
lo processano per furto. Romani sceglie il rito abbreviato, che prevede una
pena ridotta di un terzo: infatti il gup parte dal minimo di 4 anni e poi, fra
lo sconto di rito e le attenuanti, scende a 1 anno e 4 mesi. Sentenza
confermata in appello e resa definitiva dalla Cassazione, che però rinvia il
processo alla Corte d’appello perché motivi meglio le mancate attenuanti per
tenuità del reato; oppure le conceda limando un altro po’ la pena. Fermo
restando che Romani è ormai condannato con sentenza irrevocabile: “Deve
confermarsi la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistente il
reato di peculato”. Motivo: è “dimostrato che l’imputato, dopo aver ricevuto
dal Comune l’assegnazione di una scheda telefonica Sim per le sue funzioni di
consigliere comunale, l’abbia ceduta alla figlia, che l’ha utilizzata in via
pressoché esclusiva e continuativa, con il suo pieno consenso”. Il “pieno
consenso dell’imputato” Romani è provato dalle “numerose telefonate che il
Romani ha ricevuto dalla figlia che utilizzava l’utenza in questione”, ma anche
dalla “denuncia di smarrimento presentata dal Romani” che “ottenne una nuova
scheda col medesimo numero” e subito “la consegnò alla figlia”. Ora che si
candida a presidente del Senato, Romani racconta la storia a modo suo al
Giornale del padrone. E piagnucola, come se non fosse l’autore del reato, ma la
vittima: “Mi scoccia dovermi difendere tanto la vicenda è assurda. Ero ministro
e assessore, ero spesso lontano e mia figlia quindicenne prese il telefonino.
Me ne accorsi quando arrivò una bolletta da 12 mila euro e andai subito a
risarcire la somma”. Povera stella, vedi alle volte la malasorte come si
accanisce su due creature innocenti. Per fortuna, “la vicenda è stata rinviata
dalla Cassazione alla Corte d’appello per la revisione della sentenza in virtù
della tenuità del fatto”. Purtroppo la revisione non riguarda la sentenza,
definitiva, ma l’entità della pena. “È stata una vicenda pesante, a livello
familiare?”, domanda fra le lacrime l’intervistatore domestico. Lui annuisce
con aria grave e occhio umido: “Mia figlia ha incautamente ma inconsapevolmente
usato un dispositivo (sic, ndr) di cui ho dimenticato l’esistenza (anche quando
lei gli telefonava dal dispositivo, anche quando lui ne denunciava lo
smarrimento e poi riconsegnava alla figlia la nuova scheda, sempre a carico del
Comune, ndr). Questo ha comportato per lei trovare nome e foto sui giornali con
tutte le conseguenze immaginabili con amici, conoscenti e social”. Una vera
tragedia, quella di usare un telefono del Comune per i fatti propri, che non
auguriamo al nostro peggiore nemico. “La mia assenza e mancata vigilanza le
hanno causato un danno di cui francamente non mi perdono”. Ma ora sarebbe
ignobile privare il Senato di un presidente come Romani per “una mia mancanza
nel ruolo di padre”, che attiene agli affetti più intimi e andrebbe taciuta per
la privacy. “Se mi fossi chiamato Mario Rossi, non sarebbe successo”. Ma certo:
nessun altro consigliere-assessore-deputato-ministro che fa usare alla figlia
un cellulare pagato dai contribuenti verrebbe mai processato per peculato, a
parte il martire Romani. Ora indovinate: chi mai potrebbe bersi un simile cumulo
di cazzate? Alessandro Sallusti. Il quale scrive, restando serio e anche un po’
commosso, che “Romani ha in corso un processo per peculato” (peraltro già
chiuso) perché un “aggeggio finì nelle mani della figlia minorenne”, insomma
“incidenti che possono capitare nelle migliori famiglie”. Dite la verità, cari
lettori: chi di voi non ha in casa almeno un cellulare comunale in cerca di un
utilizzatore finale? Mi raccomando: passatelo subito a vostra figlia, sennò
niente presidenza del Senato.
venerdì 23 marzo 2018
Lalinguabatte. 52 “Bullismo e quant’altro miseramente in cronaca”.
Propongo alla comune riflessione
l’interessante corrispondenza “Il
bullismo oggi” di Umberto Galimberti, corrispondenza letta – ed amorevolmente
conservata - su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica”. Sembra, su questo
fronte, ovvero del bullismo in tutte le sue salse, che sia in corso un momento
di tregua; tregua, suppongo, legata alle recenti defatiganti vicende
elettorali. Concluse le quali non si farà molto attendere il ritorno su tutti i
mass media delle bravate dei bulletti di turno con il conseguente pascersi ed
il rivoltarsi compiaciuto dei mezzi della comunicazione non già sulle notizie
in sé, liquidabili in pochissime battute, quanto sui risvolti più o meno pruriginosi
ed urticanti per la libido del popolo astante. E mi trovo a pensare che “lor
signori” di melloniana memoria , ovvero coloro che dispongono a
piacimento dei mezzi della comunicazione, che comunica ma non informa, abbiano
del popolo del piccolo schermo quel concetto tanto caro a quel signore che
dicesi “unto”, sceso in campo per ispirazione ultraterrena, che molto
candidamente ebbe a dire, osannato forse anche, che il telespettatore in fin
dei conti presenta uno sviluppo cerebro-intellettivo di un dodicenne, di quelli
non proprio svegli. Ed essendo tale la considerazione del popolo astante da
parte di “lor signori”, di un popolo televisivo quasi lobotomizzato,
diviene giocoforza necessario centellinare la comunicazione stessa nei suoi
aspetti tematici: oggi il rumeno – o l’extracomunitario, di colore
preferibilmente - con la sua voglia bavosa di stupro, domani l’uxoricida, e poi
ancora un infanticidio, e perché no, ad un certo punto il ritorno trionfale dei
bulletti e delle loro mirabolanti imprese. Bullismo di sempre verrebbe da dire
col Pasolini migliore, con una grossissima novità dovuta proprio ai moderni
mezzi della comunicazione; ovvero, degli effetti tragicamente pervasivi ed
esasperatamente capaci di sviluppare al massimo il senso più primitivo della
imitazione, al pari degli animali della più bassa scala evolutiva, senso della
imitazione dovuto proprio ai moderni mezzi della comunicazione che accecano le
menti al punto da spingere sino all’inverosimile la caparbietà e
l’irresponsabilità dell’imitazione dei gesti più inconsulti se non folli, pur
di accedere a quel momento veramente esaltante e vivificante che è divenuto
l’essere solamente menzionati. È un pensiero terribilmente tragico appena esplicitato,
solamente tragico. Non già l’essere, con tutto ciò che ne deriva in fatto di
responsabilità e doveri di cittadinanza, quanto solo l’apparire, meglio ancora se
sul piccolo schermo. Annotava il professor Galimberti (13 di marzo dell'anno 2007): Scrive
Pasolini nelle Lettere Luterane (1976): “Sanno raffinatamente come far soffrire
i loro coetanei, meglio degli adulti. La loro volontà di far soffrire è
gratuita”. (…). …anche l'intervento dell'insegnante più dedito all'educazione
dei soggetti più refrattari è scarsamente efficace se non si comprende cosa c'è
alla base del bullismo che, come ci ricorda Pasolini, c'è sempre stato come
eccesso dell'esuberanza giovanile. Oggi il fenomeno ha passato paurosamente il
limite al punto da generare nei genitori angoscia, negli insegnanti impotenza,
e nella società nel suo complesso disorientamento. Le ragioni vanno cercate nel
fatto che siamo passati dalla “società della disciplina” dove ci si dibatteva
nel conflitto tra permesso e proibito, alla “società dell'efficienza e della
performance spinta” dove ci si dibatte tra il possibile e l'impossibile senza
nessun riguardo e forse nessuna percezione del concetto di limite, per cui oggi
siamo a chiederci: qual è il limite tra un atto di esuberanza e una vera e
propria aggressione, tra un atto di insubordinazione e il misconoscimento di
ogni gerarchia, tra le strategie di seduzione troppo spinte e l'abuso sessuale?
E
questo solo per fare degli esempi che dimostrano come le frontiere della
persona e quelle tra le persone siano saltate, determinando un tale stato
d'allarme da non sapere più chi è chi. Questa è la ragione per cui i giovani
non si sentono mai sufficientemente se stessi, mai sufficientemente colmi di
identità, mai sufficientemente attivi se non quando superano se stessi, senza
mai essere se stessi, ma solo una risposta ai modelli o alle performance che la
televisione e Internet a piene mani distribuiscono, con conseguente
inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale,
insubordinazione alle norme sociali. Nel 1887, un anno prima di
scendere nel buio della follia, Nietzsche annunciava profeticamente: - L'avvento
dell'individuo sovrano riscattato dall'eticità dei costumi -.
mercoledì 21 marzo 2018
Primapagina. 77 “QuandoMoretti(1998)&Moretti(2002),Grillo(2007)&Grillo(2013), Serracchiani(2009)…”.
Da “Urla nel
silenzio” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 20 di
marzo 2018: (…). Nel 1998, in pieno inciucio Bicamerale, fu Nanni Moretti nel film
Aprile: “D’Alema, reagisci, rispondi, di’ qualcosa, non ti far mettere in mezzo
sulla giustizia proprio da Berlusconi! D’Alema, di’ una cosa di sinistra! Di’
una cosa anche non di sinistra, di civiltà! D’Alema, di’ una cosa, di’
qualcosa, reagisci!”. Nel 2002 fu ancora Moretti, stavolta dal vivo su un
palchetto di piazza Navona, davanti agli attoniti Rutelli e Fassino: “Con
questi dirigenti non vinceremo mai!”. Nel 2007 fu Beppe Grillo, dal palco del
primo V-Day a Bologna, poco prima di tentare invano di partecipare alle
primarie per la segreteria Pd: “Copiate il nostro programma, ve lo regaliamo!”.
Nel 2009 fu Debora Serracchiani, all’assemblea dei circoli del Pd, sotto gli
occhi dell’esterrefatto Franceschini: “I compromessi con Berlusconi hanno
costretto molti nostri elettori a votare Di Pietro per disperazione, perché gli
abbiamo fatto fare da solo l’opposizione su temi che ci appartengono, come il
conflitto d’interessi e la questione morale. Basta candidature calate
dall’alto, basta dire che non possiamo tassare i ricchi perché sono troppo
pochi. Abbiamo abbandonato la laicità, i diritti, il testamento biologico,
eppure la Costituzione è chiara, basta quella”. Nel 2013, (…), fu ancora
Grillo, dal suo camper in Friuli: “Se noi e il Pd eleggiamo presidente Rodotà,
poi facciamo un governo completamente diverso, facciamo ripartire l’economia”.
L’altro giorno, all’assemblea della Sinistra Dem cuperliana, è stato Nicholas
Ferrante, 21 anni, da Luogosano (Avellino): “I nostri elettori hanno votato M5S
contro un sistema marcio e clientelare, contro i signori delle tessere che ci
hanno imposto il figlio di De Mita. L’onestà, la moralità, la sovranità
popolare, la democrazia diretta, il lavoro, i diritti, l’acqua pubblica sono
bandiere di sinistra, ma le abbiamo lasciate ai 5Stelle. Dobbiamo scusarci con
gli elettori che hanno votato Di Maio e intercettarli partendo dal basso,
anziché dire che non ci hanno capiti: sono più avanti di noi!”. A ogni urlo, il
politburo centrosinistro ha risposto fingendo comprensione e condivisione,
dicendo che certo, occorre ripartire dal basso, dalla base, dalle radici, dai
territori. Ha cooptato qualche contestatore (vedi la Serracchiani
all’Europarlamento, alla Regione Friuli e infine nel servizio d’ordine
renziano: quindi attento, Nicholas).
martedì 20 marzo 2018
Quodlibet. 67 “La politica e il lessico dell´accordo”.
Da “La politica e il lessico dell´accordo” di Nadia Urbinati,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 20 di marzo dell’anno 2012: (…).
Il linguaggio della politica è efficace quando riesce a far sentire tutti
partecipi, anche se ideologicamente (o per appartenenza di classe) distanti tra
loro. Diversamente si tratta di linguaggio privato, che non consente di attuare
mediazioni perché prospetta soluzioni che sono a somma zero, a vantaggio cioè
di una sola parte. Ecco perché il linguaggio della politica non dovrebbe essere
né solo preoccupato di vincere né avere il carattere dell´intransigenza; la
prudenza non è mollezza ma saggia fermezza. (…). Il linguaggio politico serve a
incanalare le idee diverse verso uno scopo che è comune; le parole contengono
quindi il senso della possibilità e della fallibilità: poiché se solo una parte
è nel vero (o nel falso), non c´è proprio nulla da mediare. La verità non vuole
compromessi. L´arte del linguaggio politico non è solo una questione di stile.
Il senso delle parole è altrettanto importante perché può avvicinare o
allontanare gli interlocutori. Prendiamo per esemplificare tre parole in uso
costante (…): “dogma”, “privilegio” e “merito”. Tre parole che sembrano neutre
e innocui, ma che hanno un bagaglio ideologico pesante. (…).
lunedì 19 marzo 2018
Quodlibet. 66 “#quellidellabuonascuola”.
Da “La
licenza da bullo del preside d’Italia” di Daniela Ranieri, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 19 di marzo dell’anno 2015: Se gli imperatori del passato
riversavano tutto il loro ego nella guerra, i nostri governanti amano
gingillarsi con la riforma della scuola, disegnata a loro immagine e
somiglianza e ogni volta venduta come una “rivoluzione” del modo di formare i
virgulti della Patria, cioè la classe dirigente di domani. Così dopo la
scuola-Media-set voluta da B. e amministrata dalla prestigiosa Gelmini (quella
convinta dell’esistenza di un tunnel sotterraneo in cui transitavano neutrini
da Ginevra al Gran Sasso), ecco la “Buona Scuola” di Renzi, una Leopolda della
formazione ricalcata sulla personalità del suo inventore. Un nome-hashtag
fragrante come un tegolino, sul genere di Volta buona, Sblocca Italia, Cambio
Verso, al cui centro, tra deleghe al governo e strizzatine d’occhio alle scuole
private, emerge la figura del preside talent-scout. Nella scuola ideale di
Renzi, una specie di sintesi tra il Mulino Bianco e la Repubblica di Platone,
questo super-dirigente scolastico sceglie di persona – mettendoci la faccia,
direbbe egli – i talenti più rinomati assumendoli nella sua “squadra” (sic), a
beneficio dei discenti e dei loro genitori non gufi. Ciò succede perché
l’auto-proclamatosi Sindaco d’Italia alle prese col Risiko della scuola si
improvvisa Preside d’Italia, capo-scuola nazionale di tanti presidi-renzi in
miniatura, figure che ricordano l’Italia degli oratorî e dei boy-scout, un po’
commissari tecnici della Nazionale insegnanti un po’ startupper di grido. Non è
del tutto esatto parlare di un modello di scuola aziendale, più berlusconiano
che donmilaniano. A B. della scuola importava relativamente: sapeva che i nuovi
italiani li aveva forgiati con la Tv. Al Paese del maestro Manzi, della Dc e
della censura aveva dato scandalo, superficie, spensieratezza e una specie di
sub-formazione tuttora vigente. Alla scuola riservò gli aspetti tecnici di un
piano di rinascita democratica tarato sulla sua personale estetica. La sua
scuola era il suo ritratto: aziendalista, sgraziata, futile, e con la trovata
delle tre “i” (inglese, internet, impresa) della Moratti irradierà il proprio
nulla fino alla mai abbastanza vituperata riforma Gelmini, tutta tagli e
nefandezze, come quella di cancellare la Storia dell’arte dai piani di studio
di istituti tecnici e professionali. Ora lo stesso disprezzo per gli
intellettuali che era di Craxi e di B. si reincarna nei modi sbrigativi di
Matteo, per il quale la critica è “chiacchiera”, la riflessione iettatura, i
“professoroni” un freno alle riforme. Ma lui, che alla dialettica preferisce i
retweet, dopo un anno di annunci, visite-spot a classi di bambini ammaestrati e
solenni notifiche di qualche tetto riparato, disegna una scuola informata a
tutte le sue fissazioni bullistiche, dalla rottamazione al narcisismo
personalistico. I super-poteri concessi al preside che, come un piccolo Renzi,
nomina i propri insegnanti come fossero suoi dipendenti, sono tecnicamente
licenze di abuso, ma il governo le chiama “leve gestionali indispensabili” per
far funzionare la riforma stessa. Così Renzi: “Il preside sceglie dentro l'albo
dei docenti e individua la persona più adatta senza automatismi”. Più adatta a
cosa? Diciamo che laddove l’automatismo gli imporrebbe di scegliere sulla base
del punteggio ovvero di non scegliere affatto, il non-automatismo renzista
consiglia al preside, a naso, volta per volta, dove puntare il ditino. Ah che
meraviglia la meritocrazia, che generazione di ottimati tireranno su i presidi
delle meglio scuole d’Italia. E le peggio? Che ne sarà, degli insegnanti con
poche stelle sul Trip Advisor della scuola? Che fine faranno, in questo X
Factor dell’Istruzione, gli scarsi, i medi, i non eccellenti, gli onesti
professori di provincia, quelli che non conoscono nessuno e che nessuno conosce?
Si ridurranno alla fame? Li buttiamo dal palco della Leopolda? E i ragazzi che,
per insipienza del proprio preside a scegliere il meglio, si troveranno
professori scadenti, sottomarche di professori, che colpa hanno? E, ammesso che
una simile graduatoria tra destrezze sia possibile, ci sarà una competizione
spietata tra presidi per fare della propria scuola quella con più appeal? Si
verserà del sangue davanti ai provveditorati? Non sarà, invece, che i presidi
sceglieranno a simpatia o secondo logiche di prossimità, acquiescenza, favori,
raccomandazioni, potere, che col merito non hanno nulla a che fare? Non
varranno per i presidi le stesse regole che hanno guidato la mano di Renzi
nello scegliere ministri e figure chiave delle partecipate? E chi sarà il
preside fortunello che si aggiudicherà l’assunzione della moglie di Renzi,
insegnante precaria? “Perché per fare la Buona Scuola non basta solo un
governo. Ci vuole un Paese intero”, recita lo slogan sfornato ad hoc. Per farne
una cattiva, invece, un governo basta eccome.
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