A lato. 26 di novembre dell'anno 2016: dimostrazione alla "Trump tower". Foto di Andrea Quagliozzi.
Da “E in una
notte Lupita si ritrovò in Messico” di Vittorio Zucconi, pubblicato sul
settimanale “D” del 25 di febbraio 2017: Angel Garcìa De Rayos aveva sette anni nel
2008 quando il raid della polizia lo scosse dal sonno. Ora che ne ha quindici
ricorda soltanto le grida degli agenti, i lampi di luce, il pianto della
sorellina più piccola svegliata nella notte, le proteste del padre, le manette
ai polsi della madre Guadalupe. "Lupita", così la chiamavano in casa,
fu portata via come Angel aveva visto soltanto nei telefilm. La sua colpa era
l'essere una "immigrata non autorizzata", una
"clandestina". Ma un reato Lupita lo aveva commesso. Come fanno migliaia
di "illegali" negli Stati Uniti, si era appropriata del numero di
Sicurezza Sociale di un altro, di un residente legale. Quel numero di otto
cifre, che corrisponde al nostro Codice Fiscale, senza il quale non esisti e
non puoi lavorare. La signora era stata identificata in un'ispezione che
l'implacabile sceriffo dell'Arizona, Joe Arpaio, aveva condotto in un sontuoso
campo da golf di Phoenix, scoprendo che la metà dei 147 dipendenti erano
immigrati non autorizzati. Arpaio sapeva bene che andare a cercare
"illegali" in hotel, ristoranti, centri commerciali, parchi di
divertimento in Arizona è come andare a pescare in pescheria. Hai solo
l'imbarazzo della scelta. Lupita era entrata negli Stati Uniti a 14 anni,
guidata dal coyote, dal traghettatore di disperati, attraverso il passo di
Nogales, nel deserto. Si era sposata con un altro immigrato senza documenti.
Aveva avuto con lui due figli. Aveva sempre lavorato, pagando le tasse con il
Codice Fiscale di un altro senza che il Fisco scoprisse che c'erano due
contribuenti con lo stesso identificativo, alla faccia dei computer
onniscienti, fino a quel 2008. Per lei, sarebbe cominciato un viaggio di
ritorno lungo otto anni. Dopo tribunali, sentenze, ordinanze, la sua vita era
rimasta nel limbo. L'ICE, gelido acronimo (ghiaccio) del Servizio Immigrazione
e Dogane, ne aveva decretato l'espulsione, ma la sua situazione di madre di due
cittadini americani, di residente da lungo tempo, di autosufficiente e di non
pericolosità aveva creato un compromesso: ogni anno, in febbraio, Lupita doveva
presentarsi all'ICE per controllare che non avesse commesso reati gravi e
ricevere la sospensione della deportazione per un altro anno. Un Ordine
Esecutivo firmato dal Presidente Obama l'aveva protetta, come mater familias e
aveva collocato la sua espulsione al fondo delle priorità, dopo i criminali
veri. Per questo, anche il 6 febbraio di quest'anno, Guadalupe Garcìa decise di
presentarsi al controllo. «Non farlo», l'aveva scongiurata il marito. La
situazione è cambiata, c'è un altro Presidente che ha cancellato le
disposizioni di Obama e firmato l'espulsione per tutti gli "illegali"
senza distinzione, l'avevano avvertita gli avvocati dei Centri di Assistenza.
«Io sono quella di sempre», aveva risposto Lupita, «per me non è cambiato
niente. Ho fiducia in Dio». Ma Dio doveva essere occupato in altre cose quel 6
febbraio. Dalla sede dell'ICE, Guadalupe Garcia è uscita di nuovo in manette. È
stata caricata su un cellulare guardato a vista da uomini armati. La polizia ha
circondato il furgone spingendo via il figlio e la figlia di 14 anni, che
battevano i pugni contro le lamiere, ed è stata portata via nella notte. Sette
ore più tardi, alle 10 del mattino successivo, è stata consegnata alle guardie
di frontiera messicane a Nogales, proprio da dove era entrata ventuno anni or
sono, oltre una Frontera che non potrà mai più riattraversare legalmente, in
una nazione dove non ha mai vissuto da adulta. E oggi noi regolari, qui negli
Stati Uniti, possiamo dormire più tranquilli. Guadalupe Garcìa de Rayos, la
pericolosa terrorista che serviva a tavola i golfisti dell'Arizona, non è più
tra noi. Vaya con Dios, Lupita.
Nessun commento:
Posta un commento