Da “Non c'è
più posto per la verità” di Salvatore Settis, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 9 di marzo 2017: La verità è dappertutto in fuga, sfrattata
dalla post-verità (detta anche storytelling). Ma nella nostra martoriata
penisola è in rotta perfino la voglia di conoscere la verità dei fatti. Ci
vorrebbero schiere di antropologi per analizzare questa peste sociale, ma
proviamo almeno ad abbozzare tre possibili ragioni: il pettegolezzo, la memoria
corta, l’abitudine al servo encomio. Per cominciare: si tende a parlare non dei
problemi che ci affliggono, ma delle chiacchiere che li circondano, amicizie
inconfessabili, incontri clandestini, smentite imbarazzanti, segreti traditi,
accordi sotterranei. Una ragione c’è: attraverso il filtro del gossip anche il
più pressante dei problemi si polverizza, diventa una nebbia lontana. Da un
lato, chi ogni giorno richiama ostinatamente fatti, prove, indizi; dall’altro,
chi sfacciatamente nega tutto, intrecciando versioni contrastanti, furbizie,
allusioni a mezza bocca. Ma in questo muro contro muro, come evitare che i dati
di fatto e le vane vociferazioni sembrino avere egual peso? La pubblica
opinione, sale della democrazia, resta disarmata, spinta a discutere non dei
fatti ma degli schieramenti, delle appartenenze, del “chi sta con chi”. Di qui
il frequente riflesso automatico di chi, colto con le mani nel sacco, si
difende non opponendo fatti a fatti, ma dicendosi vittima di inveterate
inimicizie. Secondo meccanismo, la memoria corta. E qui basti un esempio, le
scommesse sulla durata del governo e sulla data delle elezioni, fondate
essenzialmente sulle frane e gli abissi che si aprono in zona Renzi nonché
sulle intemperanze e i lanciafiamme dell’ex-leader, a non sui temi più
impellenti della politica: per non dir altro, la gigantesca evasione fiscale,
la disoccupazione giovanile, l’impoverirsi di quelle che furono le classi
medie. Cade sempre più nel dimenticatoio anche quel colabrodo destinato al
naufragio che sono le due divergenti leggi elettorali di Camera e Senato: entrambe
di impianto residuale, dopo i tagli operati dalla Consulta. Sembra impossibile
che il Parlamento sappia esprimere una legge elettorale decente, che non venga
poi bocciata per manifesta incostituzionalità. Eppure, se e quando votare lo
discutiamo pensando in primis a Renzi e alle disavventure del suo clan, senza
nemmen sognare una legge elettorale che sia fatta per eleggere non i più
graditi ai capipopolo, ma i migliori e i più competenti. Infine, la conversione
dal servo encomio al codardo oltraggio, nei confronti del medesimo ex-leader,
che si è vista prima strisciare e poi esplodere a partire (guarda caso) dal
pomeriggio del 5 dicembre. Al qual proposito, meglio lasciare la parola a chi
ci guarda da lontano,anche se non ci vuol bene. L’ormai famoso documento
JPMorgan che dettava ai Paesi “della periferia meridionale” (nominando
espressamente l’Italia) l’impellente necessità di riforme costituzionali
menzionò anche la necessità di battere il «consenso basato sul clientelismo
politico». Questa fu l’unica fra le raccomandazioni da tanto pulpito ad essere
ignorata dal governo Renzi, viceversa impegnatissimo a distribuire cariche e
prebende sulla base di appartenenze tribali, ubbidienze, fedeltà, mappe del
Granducato.
Su questo sfondo, il conformismo degli organi d’informazione e l’inclinazione a servire che è da secoli una delle costanti della storia nazionale (inclusi gli “intellettuali”) si travestono spesso da ottimismo: dare le buone notizie e tacere su quelle cattive vien ritenuta una forma di patriottismo. Ecco perché nella Press Freedom Map elaborata da Freedom House e permanentemente esposta nel Newseum di Washington a un passo dalla Casa Bianca (dove, sia detto per inciso, le vetrine sono dell’italiana Goppion), il nostro è il solo Paese dell’Europa occidentale colorato in giallo, a indicare che i suoi organi d’informazione sono classificati come “parzialmente liberi”. Come risulta dal sito relativo (https://en.m.wikipedia.org/wiki/Press_Freedom_Index), la classificazione si basa su parametri che riguardano il pluralismo dell’informazione, l’indipendenza dei media e la loro tendenza ad auto-censurarsi, le pressioni politiche a cui sono soggetti. Nella mappa, il verde (più o meno intenso) indica i Paesi (come Svezia, Canada o Australia) che godono di maggiore libertà di informazione; il rosso bolla quelli (come Russia, Cina, Messico) dove la libertà è fortemente limitata. Il giallo segnala le zone del mondo che sono “a metà”; dove la libertà d’informazione ci sarebbe, ma per una serie di ragioni, dalle pressioni politiche all’autocensura alla sottomissione volontaria al potere, non viene pienamente esercitata. Ed è in questa compagnia che si trova l’Italia. Nella classifica 2016 offerta dallo stesso sito, svettano i Paesi a massima libertà di opinione: la Finlandia e i Paesi scandinavi, ma anche Nuova Zelanda, Costa Rica e Svizzera, seguiti da Austria (11° in classifica), Germania (16°), Canada (18°), Spagna (34°), Stati Uniti (41°), Francia (45°). In fondo alla classifica, Eritrea (180°), Nord Corea (179°), Cina (176°), Turchia (151°). E l’Italia? È al 77° posto, subito prima di Benin e Guinea-Bissau ma dopo la Moldavia (76°); fra i Paesi dell’Europa occidentale solo l’Albania (82°) e la Grecia (89°)hanno una performance peggiore della nostra. Non è un grandissimo blasone, per il Paese di Dante, di Machiavelli, di Gramsci. Ma aiuta a capire perché da noi trionfa la post-verità.
Su questo sfondo, il conformismo degli organi d’informazione e l’inclinazione a servire che è da secoli una delle costanti della storia nazionale (inclusi gli “intellettuali”) si travestono spesso da ottimismo: dare le buone notizie e tacere su quelle cattive vien ritenuta una forma di patriottismo. Ecco perché nella Press Freedom Map elaborata da Freedom House e permanentemente esposta nel Newseum di Washington a un passo dalla Casa Bianca (dove, sia detto per inciso, le vetrine sono dell’italiana Goppion), il nostro è il solo Paese dell’Europa occidentale colorato in giallo, a indicare che i suoi organi d’informazione sono classificati come “parzialmente liberi”. Come risulta dal sito relativo (https://en.m.wikipedia.org/wiki/Press_Freedom_Index), la classificazione si basa su parametri che riguardano il pluralismo dell’informazione, l’indipendenza dei media e la loro tendenza ad auto-censurarsi, le pressioni politiche a cui sono soggetti. Nella mappa, il verde (più o meno intenso) indica i Paesi (come Svezia, Canada o Australia) che godono di maggiore libertà di informazione; il rosso bolla quelli (come Russia, Cina, Messico) dove la libertà è fortemente limitata. Il giallo segnala le zone del mondo che sono “a metà”; dove la libertà d’informazione ci sarebbe, ma per una serie di ragioni, dalle pressioni politiche all’autocensura alla sottomissione volontaria al potere, non viene pienamente esercitata. Ed è in questa compagnia che si trova l’Italia. Nella classifica 2016 offerta dallo stesso sito, svettano i Paesi a massima libertà di opinione: la Finlandia e i Paesi scandinavi, ma anche Nuova Zelanda, Costa Rica e Svizzera, seguiti da Austria (11° in classifica), Germania (16°), Canada (18°), Spagna (34°), Stati Uniti (41°), Francia (45°). In fondo alla classifica, Eritrea (180°), Nord Corea (179°), Cina (176°), Turchia (151°). E l’Italia? È al 77° posto, subito prima di Benin e Guinea-Bissau ma dopo la Moldavia (76°); fra i Paesi dell’Europa occidentale solo l’Albania (82°) e la Grecia (89°)hanno una performance peggiore della nostra. Non è un grandissimo blasone, per il Paese di Dante, di Machiavelli, di Gramsci. Ma aiuta a capire perché da noi trionfa la post-verità.
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