Ha lasciato scritto Alfredo
Reichlin in un Suo editoriale che è dell’anno 2007, editoriale raccolto e
trascritto in questa datata “sfogliatura”: Basta dare uno sguardo d’insieme a questi
anni per accorgersi che alla chiacchiera infinita sul riformismo è corrisposto,
nella sostanza, una brutale e profonda redistribuzione del lavoro e della
ricchezza quale da tempo non appariva così ampia. Basti pensare allo
sconvolgimento dei prezzi relativi e al divario tra i salari e gli altri
redditi. E questi sono stati anche gli anni in cui si è consumata una grande
sconfitta culturale ed etico-politica della sinistra democratica. Il ‘berlusconismo’
non è stato una parentesi, ha permeato il sentire di quella che se non è la
maggioranza del Paese poco ci manca. Era giusto l’anno 2007. È stato
questo il “sentire” dell’Uomo che ci ha appena lasciati. Un “sentire” – dieci anni
appena indietro - che andava oltre il tornaconto politico immediato per
divenire un “sentire” profetico, come solamente i grandi della politica ne sono
capaci. Ci lascia così un “gigante” della politica nella mani di “nani e nanerottoli”,
incapaci di qualsivoglia analisi che non sia finalizzata alla occupazione del
potere per il potere. Oggigiorno quei “nani
e nanerottoli” della politica “gridata” e ridotta a “slide”, slogan e proclami
si ingegnano ad intravvedere nel “populismo”, a loro dire avanzante e trionfante, il
pericolo per la democrazia. La responsabilità è tutta ed interamente da
ascriversi alla loro nefasta azione, permeata dall’inconcludenza e dalla improvvisazione,
senza un briciolo di analisi, senza un tentativo di mediazione nello scenario
sociale, azione di una politica mediatizzata ed imbarbarita. Il “deserto dei
tartari” dei “nani e nanerottoli” dal quale maldestralmente minacciano l’arrivo
dei “barbari” è stabilmente occupato dalle loro tragiche, insignificanti figure.
Alfredo, ti sia lieve la terra. La “sfogliatura” è di martedì 25 di settembre dell’anno
2007:
“Dietro la barba di Grillo” è
il titolo di un interessante editoriale di Alfredo Reichlin pubblicato sul
quotidiano “l' Unità”, che di seguito riporto in parte. È il tentativo, come
tanti altri, di far rientrare dalla finestra spalancata sulla piazza vociante
la riflessione e l’analisi, gli unici strumenti capaci di evitare il melmoso
spettacolo di questi giorni. Un dato di fatto è incontrovertibile: se la metà
dell’elettorato – pronta a divenire la nuova maggioranza parlamentare secondo i
sondaggisti più accreditati - che si specchia e si pasce nella sedicente “Casa
delle (il)libertà” non avverte nessun disturbo interiore, ovvero alle parti
basse, essendo la cosiddetta ‘ggente, la cui sensibilità è allocata nella
pancia, ‘ggente alla cui acculturazione ed educazione la destra impresentabile
del bel paese ha dedicato decenni e decenni di attenta attività
psico-pedagogica, con gli straordinari risultati che oggigiorno essa raccoglie,
dicevo, per l’altra metà dell’elettorato del bel paese è mancato l’esempio
dagli uomini della propria parte, lo stimolo a vedere ed a credere in una
politica fatta di cose chiare, senza ombra alcuna, con una perfetta coincidenza
tra il dire e il fare. Ecco, i pedagoghi della sinistra del bel paese sono
decenni che si concedono una strana libertà, quella di rinunciare a proporsi
come esempi di vita politica esemplare; ché anzi, hanno riprodotto il peggio
che la politica mestierante del bel paese ha saputo inventare e mettere in
pratica. Ed allora il malpancismo, che è quasi tutto da una parte, trova nella
disillusione e nella disperazione fughe in avanti il cui unico sbocco potrebbe inverarsi
in una soluzione traumatica e fuori dal tempo per le stesse istituzioni
democratiche, così faticosamente conquistate nei decenni trascorsi. Alfredo
Reichlin scrive: Non mi piace Grillo ma non mi piace nemmeno
come la politica sta rispondendo sia a chi la critica sia a chi la infanga. (…).
Grillo lasciamolo stare. Questo guitto è la febbre, non la malattia. La
malattia è il vuoto di governo creato dal crollo del grande compromesso
politico e sociale sul quale era stata edificata la prima repubblica. E che
dopotutto, fu la variante italiana del famoso compromesso democratico tra la
socialdemocrazia e il capitalismo nazionale che si affermò nell’Europa
avanzata. Quel vuoto noi non l’abbiamo riempito. Questa è la malattia. È il
fatto che tutti i tentativi compiuti in questi 15 anni per porre lo sviluppo
del paese su nuove basi sono falliti. Le colpe della destra sono pesantissime.
Ma noi non siamo innocenti e il prezzo che paghiamo è così pesante perché il
paese è cresciuto, ha da molto tempo bisogno di una nuova guida ma ha la
sensazione (…) che ‘è troppo grande il contrasto tra ciò che si fa e ciò che si
dice’. (…). È vero che ciò non è avvenuto solo in Italia, né per colpa della
sinistra. È su scala mondiale che la rivoluzione conservatrice ha imposto la
sua ormai lunga egemonia. Le polemiche, le grida, il pettegolezzo giornalistico
non spiegano nulla. Le arroganze di una certa ‘casta’ esistono ma il fatto
decisivo è che una politica senza grandi ambizioni ideali e con scarsi poteri autonomi
perché sottomessa al potere globale della oligarchia economica dominante non
poteva che esprimere un sistema politico rissoso e impotente, frammentato in
una ventina di partiti. Certo che la sinistra è stata, ed è, diversa e
migliore. Ma in quelle condizioni non potevamo che produrre quei ‘compromessi
al ribasso’ di cui parlano gli economisti: cioè anche cose buone ma frammiste a
mezze soluzioni, rinvii, cedimenti alle corporazioni. È chiaro che questo
insieme di compromessi al ribasso non poteva reggere alle nuove sfide del
mondo. Le quali - non dimentichiamolo - non sono solo economiche ma culturali e
morali. Perché questa, vivaddio, è la mondializzazione; è una cosa che cambia
non solo l’economia ma le menti, e perfino l’antropologia frammista com’è alla
rivoluzione della scienza. Il che cambia il rapporto con il tempo e la natura e
quindi l’idea che gli uomini hanno di sé e del futuro. (…). È in questa logica
che io sollevo un interrogativo. Che è questo. Il paese ha bisogno di un nuovo
ceto politico portatore in qualche modo di una visione del futuro italiano più
giusta e più moderna. Ma (ecco l’interrogativo) come è possibile avere questa
nuova visione se non si parte dal fatto che il sistema politico messo in piedi
15 anni fa dopo il crollo dei grandi partiti e l’avvento del bipolarismo è
fallito non solo e non tanto per ragioni morali (la ‘casta’) quanto perché il
suo disegno riformista era debole, meschino? Era incapace di guidare una
società in tumultuoso cambiamento perchè non sapeva (o non voleva) contrastare
quel drammatico fenomeno, che - attenzione - non è l’estensione del mercato
quale strumento essenziale dello scambio economico ma la trasformazione della
società in società di mercato: l’Italia dei coriandoli di cui parla De Rita. Io
credo che sta qui la ragione di fondo per cui la politica non è riuscita a
governare. Perché era debole? Sì, certo. Ma era debole non perché priva di
strumenti (abbiamo governato tutto) ma perché non in grado di garantire diritti
e doveri uguali per ogni cittadino (quale che sia il potere di acquisto). Era
debole perché non riusciva a far rispettare quei patti non scritti per cui in
un qualsiasi paese ci sono i ricchi e ci sono i poveri, ma quel paese può stare
insieme perché la legge è uguale per tutti e i ricchi pagano più tasse dei
poveri (e non viceversa come in Italia). (…).
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