Oramai il discorso è
sostanzialmente questo: crisi economico-finanziaria sì, ma molto di più preme parlare
delle distorsioni che essa imprimerà nella carne viva delle democrazie. Come se
ne uscirà? A quali nuovi equilibri condurrà l’esasperarsi delle disuguaglianze
economiche e sociali nell’Occidente avanzato, l’irrompere sulla scena
internazionale dei nuovi soggetti - e penso ai paesi emergenti che chiedono il
loro spazio nella filiera dei consumi -, l’ansia e l’esasperazione delle
moltitudini operaie dell’Occidente che vedono e vedranno sempre di più le loro
conquiste messe in forse e ridimensionate ai livelli più bassi imposti
dall’onnipotente mercato, per non dire poi delle giovani generazioni dei paesi
opulenti per le quali diviene sempre più concreta la prospettiva di una vita
senza progetti, di precariato estremo e consolidato e senza speranza alcuna di poter
conservare le “sostanze” ed i diritti conquistati sul campo dai loro padri.
Il discorso sulla crisi è bene che imbocchi questa strada, per allertare almeno
quanti vedono nelle democrazie il più imperfetto dei sistemi di conduzione
della cosa pubblica, ma che vedono parimenti in esse l’unico sistema che abbia
garantito, nei decenni trascorsi, miglioramenti economici e normativi e la
realizzazione delle opportunità individuali e collettive che hanno reso l’Occidente
un angolo privilegiato in un mondo di miserie. Del resto, l’involuzione dei
sistemi democratici era avvertita da tempo tanto da far affermare a Marcel
Gauchet, storico, filosofo e sociologo francese, che “i politici hanno fatto di tutto
per mettersi all'altezza dell'uomo qualunque, inseguendo il senso comune, l'opinione
diffusa, puntando sulla comunicazione e sulla seduzione”, cercando in
verità di modificare, in termini rozzamente populistici, le democrazie
occidentali, permeandole, in virtù di un uso invasivo dei moderni mezzi di
comunicazione di massa, di una sorta di demagogia “dell'emozione, che stimola le
reazioni emotive più che il ragionamento”. E Donald Trump ne è il
prodotto più pregiato ed allarmante.
Di Marcel Gauchet il quotidiano “la Repubblica” il 24 di agosto dell’anno 2011 – ad un terzo appena del devastante percorso della “crisi” - pubblicava una interessantissima intervista rilasciata a Fabio Gambaro col titolo “Le democrazie emotive”, che di seguito trascrivo in parte. Dell’imperfezione delle democrazie e dei rischi di snaturamento non palese, diremmo oggi “subliminale”, nei quali rischi esse incorrono, ne era ben conscio quel grande che ha nome Alexis de Tocqueville che, nella Sua opera fondamentale “De la démocratie en Amerique” (1835-1840), in un’epoca in verità ben lontana dalla nostra che è denominata come l’era della comunicazione di massa, paventava per l’appunto la possibilità di una “democrazia emotiva” giungendo a scrivere come, alle spalle delle moltitudini, “s’eleva un potere immenso e tutelare, che s’incarica solo di assicurare il loro godimento e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, regolare, preveggente e mite (a proposito di quel “mite” di cui scriveva Alexis de Tocqueville, ricordo il prezioso volume che ha per titolo “Il mostro mite” di Raffaele Simone – Garzanti editore (2008) pagg. 170 € 12,00 – n.d.r.). Somiglierebbe alla potestà paterna, se, come questa, puntasse a preparare gli uomini all’età virile; ma questo cerca solo, invece, di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia; vuole che i cittadini se la godano, purché non pensino ad altro che a godersela. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuol essere l’unico agente e il solo arbitro; si cura della loro sicurezza, prevede e assicura i loro bisogni, facilita i loro piaceri, conduce i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, divide le loro eredità…”. È la visione lunga, oltre i confini dell’immediato, dei grandi “Maestri” di ogni tempo. Afferma Marcel Gauchet che “non controllare politicamente l’economia è una scelta politica”. Donde se ne deduce della immensa responsabilità che oggigiorno pesa sulla classe dirigente della cosiddetta “sinistra” che ha supinamente ha accettato il decorso delle cose come una iattura o meglio come un destino irrevocabile. E sostiene Marcel Gauchet di seguito che: (uno) - «Il modello democratico nato nel dopoguerra è oggi in crisi. Pensavamo che avesse raggiunto l'equilibrio e invece siamo alle prese con problemi sempre nuovi. Se vuole sopravvivere, la democrazia deve sapersi reinventare». (due) - (…). «Tra il XIX e il XX secolo, grazie all'avvento del potere rappresentativo, dell'eguaglianza tra le persone e dell'individualismo, la forma democratica si è sostituita all'organizzazione religiosa della società», (tre) - «Il potere della monarchia e dell'aristocrazia, le enormi disuguaglianze, l'aspetto tradizionale dell'organizzazione temporale delle società, l'autorità dei modelli del passato, il primato della collettività sull'individuo erano tutti elementi che caratterizzavano l'organizzazione religiosa della società e che le democrazie hanno progressivamente ridimensionato». Chiede Fabio Gambaro nell’intervista: In questo processo che ruolo svolgono i fenomeni totalitari della prima metà del Novecento? «La democrazia in cui viviamo ancora oggi è nata dopo la Seconda guerra mondiale proprio come reazione all'esperienza terribile dei totalitarismi, che possono essere letti come il tentativo di ricreare - con i mezzi della politica e all'interno di uno spazio laico - la precedente forma religiosa della società. Il fascismo, il nazismo e il comunismo sono religioni secolari, possiedono una marcata dimensione religiosa, pur presentandosi come movimenti antireligiosi».
Di Marcel Gauchet il quotidiano “la Repubblica” il 24 di agosto dell’anno 2011 – ad un terzo appena del devastante percorso della “crisi” - pubblicava una interessantissima intervista rilasciata a Fabio Gambaro col titolo “Le democrazie emotive”, che di seguito trascrivo in parte. Dell’imperfezione delle democrazie e dei rischi di snaturamento non palese, diremmo oggi “subliminale”, nei quali rischi esse incorrono, ne era ben conscio quel grande che ha nome Alexis de Tocqueville che, nella Sua opera fondamentale “De la démocratie en Amerique” (1835-1840), in un’epoca in verità ben lontana dalla nostra che è denominata come l’era della comunicazione di massa, paventava per l’appunto la possibilità di una “democrazia emotiva” giungendo a scrivere come, alle spalle delle moltitudini, “s’eleva un potere immenso e tutelare, che s’incarica solo di assicurare il loro godimento e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, regolare, preveggente e mite (a proposito di quel “mite” di cui scriveva Alexis de Tocqueville, ricordo il prezioso volume che ha per titolo “Il mostro mite” di Raffaele Simone – Garzanti editore (2008) pagg. 170 € 12,00 – n.d.r.). Somiglierebbe alla potestà paterna, se, come questa, puntasse a preparare gli uomini all’età virile; ma questo cerca solo, invece, di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia; vuole che i cittadini se la godano, purché non pensino ad altro che a godersela. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuol essere l’unico agente e il solo arbitro; si cura della loro sicurezza, prevede e assicura i loro bisogni, facilita i loro piaceri, conduce i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, divide le loro eredità…”. È la visione lunga, oltre i confini dell’immediato, dei grandi “Maestri” di ogni tempo. Afferma Marcel Gauchet che “non controllare politicamente l’economia è una scelta politica”. Donde se ne deduce della immensa responsabilità che oggigiorno pesa sulla classe dirigente della cosiddetta “sinistra” che ha supinamente ha accettato il decorso delle cose come una iattura o meglio come un destino irrevocabile. E sostiene Marcel Gauchet di seguito che: (uno) - «Il modello democratico nato nel dopoguerra è oggi in crisi. Pensavamo che avesse raggiunto l'equilibrio e invece siamo alle prese con problemi sempre nuovi. Se vuole sopravvivere, la democrazia deve sapersi reinventare». (due) - (…). «Tra il XIX e il XX secolo, grazie all'avvento del potere rappresentativo, dell'eguaglianza tra le persone e dell'individualismo, la forma democratica si è sostituita all'organizzazione religiosa della società», (tre) - «Il potere della monarchia e dell'aristocrazia, le enormi disuguaglianze, l'aspetto tradizionale dell'organizzazione temporale delle società, l'autorità dei modelli del passato, il primato della collettività sull'individuo erano tutti elementi che caratterizzavano l'organizzazione religiosa della società e che le democrazie hanno progressivamente ridimensionato». Chiede Fabio Gambaro nell’intervista: In questo processo che ruolo svolgono i fenomeni totalitari della prima metà del Novecento? «La democrazia in cui viviamo ancora oggi è nata dopo la Seconda guerra mondiale proprio come reazione all'esperienza terribile dei totalitarismi, che possono essere letti come il tentativo di ricreare - con i mezzi della politica e all'interno di uno spazio laico - la precedente forma religiosa della società. Il fascismo, il nazismo e il comunismo sono religioni secolari, possiedono una marcata dimensione religiosa, pur presentandosi come movimenti antireligiosi».
Una delle caratteristiche dei
totalitarismi è la relazione diretta tra il capo e il suo popolo... «Il potere
totalitario s'incarna sempre in una persona, reinventando così il potere
sacrale della monarchia. Hitler, Stalin o Mussolini sono la reinvenzione di una
figura del passato. Fascismo, nazismo e comunismo sono ideologie, che, per
quanto laiche, hanno svolto lo stesso ruolo svolto dal discorso religioso nelle
società del passato, investendo ogni ambito della realtà e dando un senso al
tutto. Attraverso il partito totalitario, l'ideologia e la figura del capo il
totalitarismo cerca di ricreare qualcosa che assomiglia a una comunità
organica».
Le democrazie nate alla fine
della guerra hanno fatto di tutto per opporsi a tale eredità? «Certo, e al
contempo hanno rifondato i vecchi regimi liberali. Le democrazie politiche
europee, pur tra molte contraddizioni, sono riuscite a garantire un decisivo
progresso rispetto al passato. Si sono ridefinite in tutti gli ambiti,
riuscendo a stabilizzare i regimi democratici del dopoguerra. Dalla democrazia
formale e astratta d'inizio secolo, si è così passati a una democrazia con
contenuti più concreti che ha garantito la ricostruzione politica e economica
dell'Europa del dopoguerra».
Questo modello, che ha iniziato a
mostrare i primi segni di cedimento alla fine degli anni Settanta, è oggi in
crisi? «Sì, e soprattutto in Italia. Le ragioni sono diverse, non ultima la
mondializzazione che ha contribuito a rendere inefficaci i meccanismi
politico-sociali che avevano consentito il boom economico. L'importanza dei
media, la rivoluzione tecnologica e l'affermarsi di un individualismo sempre
più marcato hanno rimesso in discussione l'assetto democratico tradizionale,
riportandoci a una situazione che, seppure in termini molto diversi, ricorda
quella dell’inizio del secolo scorso».
Chi governa sembra spesso
impotente di fronte alle derive della mondializzazione. Per questo, c'è addirittura
chi parla di governo delle cose... «È vero, ma è un fenomeno ambiguo, perché
non
controllare politicamente l’economia è una scelta politica. L'idea che i mercati
siano capaci di autoregolarsi, senza che non si possa o non si debba
intervenire, è un'ideologia politica che si è imposta negli ultimi decenni
dominati dal neoliberalismo. Non sono le cose che hanno preso il potere, siamo
noi che l'abbiamo conferito loro. Diciamo spesso che viviamo in un mondo post-ideologico,
dove non ci sarebbero più le ideologie, ma non è vero. Le ideologie ci sono
eccome, anche se spesso le loro conseguenze vengono presentate come un dato di
natura».
Perché l'immagine degli uomini
politici oggi è tanto screditata? «La politica ha perso quel poco d'autorità
naturale ereditata dal passato che ancora le restava, perché i politici hanno fatto
di tutto per mettersi all'altezza dell'uomo qualunque, inseguendo il senso
comune, l'opinione diffusa, puntando sulla comunicazione e sulla seduzione».
Sfruttando la scorciatoia del populismo?
«Gli uomini politici vorrebbero far credere che conoscono i problemi della
gente, proponendo soluzioni semplificate. L'appello al popolo - che però è una
realtà sempre meno omogenea - implica spesso una qualche forma di demagogia. I
moderni mezzi di comunicazione che per altro, in passato, hanno fatto benissimo
alla democrazia - offrono possibilità infinite ai demagoghi. Dalla demagogia della
semplicità a quella dell'emozione, che stimola le reazioni emotive più che il
ragionamento».
(…). La democrazia sopravviverà
alla crisi attuale? «(…). In futuro i modi di governare si trasformeranno
radicalmente e le forme della discussione pubblica diventeranno di nuovo
centrali. Oggi siamo nella fase della stupefazione di fronte alla crisi. Da qui
in poi inizia la fase della reinvenzione, anche se è difficile immaginare quali
saranno i risultati concreti. Un eventuale cambiamento potrà venire solo dai
cittadini, i quali però negli ultimi anni hanno spesso preferito ripiegarsi nel
privato. D'altronde, proprio l'onda lunga dell'individualismo e della
disaffezione alla politica ha molto logorato la democrazia. Oggi, tuttavia, in
molti iniziano a rendersi conto che è necessario tornare ad occuparsi dei
problemi di tutti. E per questo che si torna alla politica. E questo è un fatto
positivo»”.
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