Da “La
fabbrica dei temibili imbecilli” di Luca Josi, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 18 di marzo dell’anno 2015: L’ultimo proclama del governo si
dichiara riformista: annuncia una “Buona scuola”, non ottima, lasciando
intravvedere di volerne esorcizzare una pessima. In questo Paese bulimico di
parole e anoressico di fatti potrebbe significare poco; fatturassimo le intenzioni
il Pil italico sderenerebbe la Merkel. Tra tanti obiettivi encomiabili sfugge
però qualcosa. Quando si discute di scuola si parla di giovani cittadini che
devono scoprirsi tali e di cittadini adulti, gli insegnanti, che dovrebbero
concorrere a realizzare questo obiettivo. Uno è il fine, l'altro il mezzo (così
come un ospedale è il luogo per provare a curare i cittadini e non per occupare
gli operatori che a questo fine s'impegnano). Dei 12 punti dell'Esecutivo,
almeno 8 sono focalizzati sui secondi. La nostra Italia conserva due grandi
debolezze: è una nazione giovane e acerba per formazione civile, ma abitata da
un popolo antico cresciuto nel disincanto sociale (non crede a nulla pensando
di aver visto e provato tutto). Ogni programma o progetto che migliori la
scuola, e quindi la formazione dei suoi studenti, è un progresso ma se
licenzieremo imbecilli civici, il fatto che siano anche anglofoni, musico-fili,
umanisti e digitalizzati significherà solo aver cresciuto un imbecille ancora
più temibile. Se si domanda a un adulto “cos’è lo Stato? ” si fatica a
raccogliere una risposta univoca. Se lo si chiede a un bambino, sarà come
chiedere a un esploratore, privo di carte e mappe, di parlarci di un mondo che
non ha mai visitato. La prima Terra di un bambino è la sua casa, il luogo in
cui ha vissuto fino a quel momento: è il teatro dei suoi valori, della sua
immaginazione, il suo reale. “Essendo fatti di una stoffa la cui prima piega
non scompare più” - Massimo d'Azeglio - sappiamo che un bimbo vive il mondo
attraverso la sua famiglia e anche nella condizione più umile conoscerà,
soprattutto in Italia, un'attenzione al decoro; e se non avrà capito bene
perché i genitori gli impediscono di distruggere, creativamente, le mura di
casa, avrà intuito l’idea del possesso, della proprietà: non rompere qualcosa
che è nostro, della nostra casa sia questo un piatto o un televisore. La
famiglia ti ha perciò insegnato a difendere ciò che è tuo, l’idea del privato. Quindi,
arriva l’incontro con lo Stato, con il Pubblico. Si presenta e lo fa attraverso
un edificio, la scuola, che mostra spesso abbandono, incuria, sciatteria. La
scuola pubblica, il primo luogo di alfabetizzazione civile – gli esterofili
scriverebbero imprinting – è disarmante e t'inculca l'idea che ciò che Pubblico
è sinonimo di orfano: ciò che è di tutti è di nessuno. Fatiscente. E la scuola,
pagata dai propri genitori proietta l'immagine plastica di questo fallimento
sociale.
Poi, quando sarai più grande, e forse ormai civilmente compromesso, capirai che quello Stato è il primo a non credere in se stesso, altrimenti non ti spiegheresti come mai l’ora accademica in cui il Paese si dovrebbe presentare e fare mostra di sé, Educazione Civica, sia un riempitivo, un calembour nominale, formale, che ognuno si guarda bene dal praticare. Perché non lavorare su quei principi immateriali che molte ricadute materiali possono portare? Per esempio: se fin dal primo anno di scuola si facesse adottare a un bambino il suo banco, per il suo intero ciclo scolastico, magari onorandolo di una targhetta, si trasformerebbe quel perimetro di fòrmica nella superficie dello Stato; il bambino lo riceve integro e dovrà restituirlo come l'ha ricevuto. Allo stesso modo, questa assunzione di responsabilità si potrebbe ampliare alla classe, che andrà restituita rinfrescata a conclusione dell'anno scolastico. Il banco e la classe rappresenterebbero l'oggetto del primo contratto tra il cittadino-studente e il suo formatore: lo Stato. Quel banco è in parte suo, perché acquistato con i soldi di tutti. È la traduzione pragmatica di quel detto persiano che invita a pulire l’uscio della propria casa se si vorrà vedere la città pulita e della frase di Benjamin Franklin: “Dimmelo e me lo dimenticherò, insegnamelo e posso ricordarmelo, coinvolgimi e lo imparerò”. Dalla gestione di questo accordo, che descrive la partecipazione individuale all’uso e alla tutela del bene pubblico, deriverebbe il voto di educazione civica e una comprensione più immediata e accessibile dell'insegnamento astratto di questa materia. È sacrosanto spendere altri soldi per nuova edilizia scolastica; lo è altrettanto formare persone che aiutino a conservare queste strutture e a tramandarle integre. Così, quando si teorizza la partecipazione degli sponsor e dei privati alla formazione pubblica, perché non coinvolgere le aziende che maggiormente subiscono gli effetti del vandalismo e della diseducazione civica diffusa? Ferrovie dello Stato, club di calcio, Autogrill e tanti altri operatori che pagano quotidianamente il conto, privato, di un malcostume pubblico. Ho provato a raccontare quest’idea molto semplice tanto a destra quanto a sinistra con esiti oscillanti tra il deprimente e l'esilarante (nell'interscambiabile e inconsistente vacuità degli interlocutori incontrati). Si può questionare su molto ma, se si appartiene a una comunità, esistono urgenze su cui è obbligatorio trovarsi d’accordo. Trattasi di riforme a basso costo: minima spesa, massima resa; minimi gesti, massimi effetti.
Poi, quando sarai più grande, e forse ormai civilmente compromesso, capirai che quello Stato è il primo a non credere in se stesso, altrimenti non ti spiegheresti come mai l’ora accademica in cui il Paese si dovrebbe presentare e fare mostra di sé, Educazione Civica, sia un riempitivo, un calembour nominale, formale, che ognuno si guarda bene dal praticare. Perché non lavorare su quei principi immateriali che molte ricadute materiali possono portare? Per esempio: se fin dal primo anno di scuola si facesse adottare a un bambino il suo banco, per il suo intero ciclo scolastico, magari onorandolo di una targhetta, si trasformerebbe quel perimetro di fòrmica nella superficie dello Stato; il bambino lo riceve integro e dovrà restituirlo come l'ha ricevuto. Allo stesso modo, questa assunzione di responsabilità si potrebbe ampliare alla classe, che andrà restituita rinfrescata a conclusione dell'anno scolastico. Il banco e la classe rappresenterebbero l'oggetto del primo contratto tra il cittadino-studente e il suo formatore: lo Stato. Quel banco è in parte suo, perché acquistato con i soldi di tutti. È la traduzione pragmatica di quel detto persiano che invita a pulire l’uscio della propria casa se si vorrà vedere la città pulita e della frase di Benjamin Franklin: “Dimmelo e me lo dimenticherò, insegnamelo e posso ricordarmelo, coinvolgimi e lo imparerò”. Dalla gestione di questo accordo, che descrive la partecipazione individuale all’uso e alla tutela del bene pubblico, deriverebbe il voto di educazione civica e una comprensione più immediata e accessibile dell'insegnamento astratto di questa materia. È sacrosanto spendere altri soldi per nuova edilizia scolastica; lo è altrettanto formare persone che aiutino a conservare queste strutture e a tramandarle integre. Così, quando si teorizza la partecipazione degli sponsor e dei privati alla formazione pubblica, perché non coinvolgere le aziende che maggiormente subiscono gli effetti del vandalismo e della diseducazione civica diffusa? Ferrovie dello Stato, club di calcio, Autogrill e tanti altri operatori che pagano quotidianamente il conto, privato, di un malcostume pubblico. Ho provato a raccontare quest’idea molto semplice tanto a destra quanto a sinistra con esiti oscillanti tra il deprimente e l'esilarante (nell'interscambiabile e inconsistente vacuità degli interlocutori incontrati). Si può questionare su molto ma, se si appartiene a una comunità, esistono urgenze su cui è obbligatorio trovarsi d’accordo. Trattasi di riforme a basso costo: minima spesa, massima resa; minimi gesti, massimi effetti.
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