Da “Da 40
anni la finanza tradisce il capitalismo” di Maria Rosaria Ferrarese – docente
di sociologia del diritto all’Università di Cagliari -, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 25 di gennaio 2017: Un libro del 1914 che raccoglie alcuni
scritti del grande giurista americano Louis Brandeis, recava l’efficace titolo
Other’s people money. Il tema a cui alludeva quel titolo è ancora più
rilevante oggi, nel mondo della finanza globalizzata, che è prosperata sulla
creazione e sulla commercializzazione di strumenti speculativi rivolti al
profitto a breve e brevissimo termine. Così, negli scorsi decenni, la finanza
si è trasformata da un settore che svolgeva funzioni prevalentemente al
servizio del capitalismo produttivo (raccolta e fornitura di capitali, servizio
dei pagamenti, valutazioni degli investimenti, intermediazione con il mercato
borsistico, ecc.), sotto il controllo degli Stati, in una “industria
finanziaria” molto liberalizzata e che vive in relativo distacco dalla
cosiddetta economia “reale”. Mentre la “trasparenza” viene celebrata come un
requisito indispensabile per le istituzioni, essa riguarda invece ben poco il
mondo della finanza, che, pur comportando rischi di contagio sistemico per
l’intero mondo bancario, vive al riparo di ampie zone di opacità, e in un
regime di controlli e regolazioni ancora insufficienti, dopo la crisi del 2008.
Come siamo arrivati fin qui? Contro la strisciante opacità del sistema
finanziario globale, occorre intensificare la conoscenza su un tema che è
estremamente rilevante nel dare un volto al nostro futuro e al capitalismo. Chi
sono stati i protagonisti del cambiamento? Quali nuove idee e teorie lo hanno
accompagnato e reso convincente agli occhi non solo di esponenti del mondo
economico, ma anche di tanti politici, accademici e altri osservatori? Quali
tappe istituzionali e riforme hanno segnato questa radicale trasformazione?
Quali cambiamenti derivavano da un inevitabile processo di modernizzazione e di
innovazione tecnologica e quali rispondevano invece semplicemente all’intento
di attuare un capitalismo più disinibito, privo di controlli e di limiti e
dimentico del cosiddetto interesse generale? Perché si indebolì la capacità
di progettare politiche economiche, lasciando spazio solo alla politica
monetaria nelle mani delle Banche centrali? Il racconto del percorso che dagli
anni 70 del 900 condusse a mettere in causa il compromesso tra politica ed
economia siglato dal keynesismo, deve fare i conti con la capacità di
seduzione di una nuova forma di capitalismo che si presentava, per così dire,
con le sembianze di Prometeo. Come il titano della mitologia greca che aveva
rubato il fuoco agli dei per donarlo all’umanità, esso rivelava al mondo
supposte e infinite virtù del mercato, un nuovo teatro di azione capace di
garantire il merito e gli interessi di tutti. E appariva con un dinamismo e una
leggerezza che si contrapponevano alla pesantezza dello Stato Leviatano e dei
sui vincoli.
Dopo le varie difficoltà che avevano segnato l’economia degli anni 70, portando gli Stati Uniti alla denuncia degli accordi di Bretton Woods, vari segnali annunciavano una più innovativa organizzazione economica del mondo, trainata dalla finanza. Le innovazioni tecnologiche e le nuove possibilità di interconnessione planetaria sembravano dischiudere un inedito orizzonte di possibilità per i destini dell’intera umanità. Un ventaglio di promesse accompagnò il cambiamento e nuove parole e locuzioni come “crescita economica”, “efficienza”, “sussidiarietà”, “autogoverno”, “self-management”, “trickle-down”, “concorrenza”, “sviluppo”, “meritocrazia”, “trasparenza”, “partecipazione”, “empowerment”, cominciarono a circolare con insistenza. Così, mentre la politica apriva le porte a crescenti livelli di liberalizzazione e di internazionalizzazione dei rapporti economici, la finanza speculativa guidata dai grandi investitori cambiò significativamente il mondo e l’assetto proprietario delle imprese, nonché il volto dello stesso capitalismo. Margaret Thachter e Ronald Reagan furono i primi politici ad assecondare il nuovo modello, intingendo il motto “enrichissez-vous” in salsa americana: l’idea del trickle down (sgocciolamento) associa infatti la ricchezza a una sorta di legge di gravità, che delle posizioni più cospicue la fa “scivolare in basso”, nei rivoli sociali più modesti. Nonostante alcuni scricchiolii provenienti dalle crisi asiatiche, la fiducia nel nuovo modello crebbe rapidamente. Negli anni 90, la cosiddetta new economy vide aumentare vertiginosamente le start-up della Silicon Valley legate all’innovazione tecnologica, e suggellò definitivamente la conoscenza come il nuovo “dono”, che permetteva leggerezza e vie più facili e inclusive per la creazione e la distribuzione della ricchezza. Da allora, un enorme flusso di cambiamenti ha attraversato il mondo: Paesi poveri sono diventati ricchi o meno poveri, e Paesi industrializzati si sono de-industrializzati, mentre la diseguaglianza sociale è cresciuta vertiginosamente quasi ovunque. Le imprese fondate sulla tecnologia informatica dominano le classifiche economiche, variamente intrecciate all’industria finanziaria, mentre gli enormi profitti che entrambe realizzano si traducono in scarsi investimenti e occasioni di occupazione. Che ne è di tutte quelle promesse? Ripercorrere le tappe principali della “grande trasformazione” aiuta a fare i conti con le promesse mancate da una versione ludica e autoreferenziale dell’economia, che nel gioco della speculazione finanziaria scommette ogni giorno una parte consistente delle risorse del globo. E forse può aiutare a valutare le risposte più adeguate al futuro che vogliamo costruire.
Dopo le varie difficoltà che avevano segnato l’economia degli anni 70, portando gli Stati Uniti alla denuncia degli accordi di Bretton Woods, vari segnali annunciavano una più innovativa organizzazione economica del mondo, trainata dalla finanza. Le innovazioni tecnologiche e le nuove possibilità di interconnessione planetaria sembravano dischiudere un inedito orizzonte di possibilità per i destini dell’intera umanità. Un ventaglio di promesse accompagnò il cambiamento e nuove parole e locuzioni come “crescita economica”, “efficienza”, “sussidiarietà”, “autogoverno”, “self-management”, “trickle-down”, “concorrenza”, “sviluppo”, “meritocrazia”, “trasparenza”, “partecipazione”, “empowerment”, cominciarono a circolare con insistenza. Così, mentre la politica apriva le porte a crescenti livelli di liberalizzazione e di internazionalizzazione dei rapporti economici, la finanza speculativa guidata dai grandi investitori cambiò significativamente il mondo e l’assetto proprietario delle imprese, nonché il volto dello stesso capitalismo. Margaret Thachter e Ronald Reagan furono i primi politici ad assecondare il nuovo modello, intingendo il motto “enrichissez-vous” in salsa americana: l’idea del trickle down (sgocciolamento) associa infatti la ricchezza a una sorta di legge di gravità, che delle posizioni più cospicue la fa “scivolare in basso”, nei rivoli sociali più modesti. Nonostante alcuni scricchiolii provenienti dalle crisi asiatiche, la fiducia nel nuovo modello crebbe rapidamente. Negli anni 90, la cosiddetta new economy vide aumentare vertiginosamente le start-up della Silicon Valley legate all’innovazione tecnologica, e suggellò definitivamente la conoscenza come il nuovo “dono”, che permetteva leggerezza e vie più facili e inclusive per la creazione e la distribuzione della ricchezza. Da allora, un enorme flusso di cambiamenti ha attraversato il mondo: Paesi poveri sono diventati ricchi o meno poveri, e Paesi industrializzati si sono de-industrializzati, mentre la diseguaglianza sociale è cresciuta vertiginosamente quasi ovunque. Le imprese fondate sulla tecnologia informatica dominano le classifiche economiche, variamente intrecciate all’industria finanziaria, mentre gli enormi profitti che entrambe realizzano si traducono in scarsi investimenti e occasioni di occupazione. Che ne è di tutte quelle promesse? Ripercorrere le tappe principali della “grande trasformazione” aiuta a fare i conti con le promesse mancate da una versione ludica e autoreferenziale dell’economia, che nel gioco della speculazione finanziaria scommette ogni giorno una parte consistente delle risorse del globo. E forse può aiutare a valutare le risposte più adeguate al futuro che vogliamo costruire.
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