Da “Europa,
l’inganno delle celebrazioni” di Barbara Spinelli, su “il Fatto Quotidiano”
del 23 di marzo 2017: (…). Le celebrazioni sono il luogo
dell’inganno visivo e della falsa coscienza. Non mancheranno gli accenni ai
padri fondatori, e perfino ai tempi duri che videro nascere l’idea di un’unità
europea da opporre alle disuguaglianze sociali, ai nazionalismi, alle guerre
che avevano distrutto il continente. Anche questi accenni sono inganni visivi.
Lo spettacolo delle glorie passate si sostituisce al deserto del reale per
dire: “Ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare”. La realtà dell’Unione
va salvata da quest’operazione di camuffamento. Come ricorda il filosofo Slavoj
Žižek, la domanda da porsi è simile a quella di Freud a proposito della
sessualità femminile: “Cosa vuole l’Europa?”. Cosa vuole l’élite che oggi
pretende di governare l’Unione presentandosi come erede dei fondatori, e quali
sono i suoi strumenti privilegiati? La prima cosa che vuole è risolvere a
proprio favore la questione costituzionale della sovranità, legittimando
l’oligarchia sovranazionale e prospettandola come una necessità tutelare e
benefica, quali che siano i contenuti e gli effetti delle sue politiche. Il
primo marzo, illustrando il Libro Bianco della Commissione sul futuro dell’UE,
il Presidente Juncker è stato chiaro: “Non dobbiamo essere ostaggi dei periodi
elettorali negli Stati”. In altre parole, il potere UE deve sconnettersi da
alcuni ingombranti punti fermi delle democrazie costituzionali: il suffragio
universale in primis, lo scontento dei cittadini o dei Parlamenti,
l’uguaglianza di tutti sia davanti alla legge, sia davanti agli infortuni
sociali dei mercati globali. Scopo dell’Unione non è creare uno scudo che
protegga i cittadini dalla mondializzazione, ma facilitare quest’ultima
evitandole disturbi. Nel 1998 l’allora Presidente della Bundesbank Hans
Tietmeyer invitò ad affiancare il “suffragio permanente dei mercati globali” a
quello delle urne. Il binomio, già a suo tempo osceno, salta. Determinante
resta soltanto, perché non periodico bensì permanente, il plebiscito dei
mercati. In quanto potere relativamente nuovo, l’oligarchia dell’Unione ha
bisogno di un nemico esterno, del barbaro. Oggi ne ha uno interno e uno
esterno. Quello interno è il “populismo degli euroscettici”: un’invenzione
semantica che permette di eludere i malcontenti popolari relegandoli tutti
nella “non-Europa”, o di compiacersi di successi apparenti come il voto in
Olanda (“È stato sconfitto il tipo sbagliato di populismo” ha decretato il
conservatore Mark Rutte, vincitore anche perché si è appropriato in extremis
dell’offensiva anti-turca di Wilders). Il nemico esterno è oggi la Russia,
contro cui gran parte dell’Europa, su questo egemonizzata dai suoi avamposti a
Est, intende coalizzarsi e riarmarsi. La difesa europea e anche l’Europa a due
velocità sono proposte a questi fini. Sono l’ennesimo tentativo di
comunitarizzare tecnicamente le scelte politiche europee tramite un inganno
visivo, senza analizzare i pericoli di tali scelte e ignorando le inasprite
divisioni dentro l’Unione fra Nord e Sud, Est e Ovest, Stati forti e Stati
succubi. Si fa la difesa europea tra pochi come a suo tempo si fece l’euro:
siccome il dolce commercio globale è supposto generare provvidenzialmente pace
e democrazia, si finge che anche la Difesa produrrà naturaliter unità politica,
solidarietà e pace alle frontiere e nel mondo.
Da questo punto di vista è insufficiente reclamare più trasparenza dell’UE. Il meccanismo non è meno sbagliato se trasparente. All’indomani della crisi del 2007-2008 la Grecia è stata il terreno di collaudo economico e costituzionale di queste strategie. L’austerità e le riforme strutturali l’hanno impoverita come solo una guerra può fare, e l’esperimento è additato come lezione. La Grecia soffre ormai la sindrome del prigioniero, ed essendosi sottomessa al memorandum di austerità deve allinearsi in tutto: migrazione, politica estera, difesa. Deve perfino sottostare alla domanda di cambiare le proprie leggi in modo da permettere la detenzione dei rifugiati e le loro espulsioni verso Paesi terzi. Nel vertice di Malta del 3 febbraio si è evitato per pudore di menzionare l’obiettivo indicato nell’ordine del giorno: ridefinire il principio di non-respingimento iscritto nella Convenzione di Ginevra. La politica su migrazione e rifugiati è strettamente connessa ai nuovi rapporti di forza che si vogliono consolidare. Il fallimento dell’Unione in questo campo è palese, e l’élite che la governa ne è cosciente. L’afflusso di migranti e rifugiati non è alto (appena lo 0,2 per cento della popolazione UE), ma resta il fatto che la paura è diffusa e che a essa occorre dare risposte al tempo stesso pedagogiche e convincenti. Se non vengono date è perché sulle paure si fa leva per sconnettere scaltramente le due crisi: quella economica e sociale dovuta a riforme strutturali tuttora ritenute indispensabili, e quella migratoria. Basta ascoltare i municipi che temono i flussi migratori:come fare accoglienza, se i comuni sono costretti a liquidare i servizi pubblici e ad affrontare emergenze abitative? Questo nesso è ignorato sia dai fautori dell’austerità, sia dalle destre estreme che la avversano. Lo è anche dalle sinistre che si limitano a difendere i diritti umani dei migranti e non – in un unico pacchetto, con gli occhi aperti sui rischi di dumping sociale – i diritti sociali di tutti, connazionali e non. Se avesse deciso di combattere la crisi con un New Deal, mettendosi in ascolto dei cittadini (della realtà), l’Unione potrebbe trasformarsi in una terra di immigrazione, così come la Germania si è col tempo trasformata da terra di immigrati temporaneamente “ospiti” (Gastarbeiter) in terra di immigrati con diritti all’integrazione e alla cittadinanza. Il New Deal non c’è, e il legame tra le varie crisi è negato per meglio produrre un’Europa rimpicciolita, basata non già sulla condivisione di sovranità ma sul trasferimento delle sovranità deboli a quelle forti (nazionali o sovranazionali). Ultima realtà occultata dalla società dello spettacolo che si auto-incenserà a Roma: il Brexit. Per le élite dell’Unione è la grande occasione: adesso infine si può “fare l’Europa” osteggiata per decenni da Londra. Sia il compiacimento dell’Unione sia quello di Theresa May sono improvvidi: se non danno assoluta priorità al sociale i Ventisette perdono la scommessa del Brexit; se il Brexit serve per demolire ulteriormente il già sconquassato welfare britannico Theresa May si troverà alle prese con chi ha votato l’exit per disperazione sociale. Anche in questo caso viene misconosciuta o negata la sequenza cruciale: quella che dal dramma ricattatorio del Grexit ha condotto al Brexit. È l’ultimo inganno visivo delle cerimonie romane.
Da questo punto di vista è insufficiente reclamare più trasparenza dell’UE. Il meccanismo non è meno sbagliato se trasparente. All’indomani della crisi del 2007-2008 la Grecia è stata il terreno di collaudo economico e costituzionale di queste strategie. L’austerità e le riforme strutturali l’hanno impoverita come solo una guerra può fare, e l’esperimento è additato come lezione. La Grecia soffre ormai la sindrome del prigioniero, ed essendosi sottomessa al memorandum di austerità deve allinearsi in tutto: migrazione, politica estera, difesa. Deve perfino sottostare alla domanda di cambiare le proprie leggi in modo da permettere la detenzione dei rifugiati e le loro espulsioni verso Paesi terzi. Nel vertice di Malta del 3 febbraio si è evitato per pudore di menzionare l’obiettivo indicato nell’ordine del giorno: ridefinire il principio di non-respingimento iscritto nella Convenzione di Ginevra. La politica su migrazione e rifugiati è strettamente connessa ai nuovi rapporti di forza che si vogliono consolidare. Il fallimento dell’Unione in questo campo è palese, e l’élite che la governa ne è cosciente. L’afflusso di migranti e rifugiati non è alto (appena lo 0,2 per cento della popolazione UE), ma resta il fatto che la paura è diffusa e che a essa occorre dare risposte al tempo stesso pedagogiche e convincenti. Se non vengono date è perché sulle paure si fa leva per sconnettere scaltramente le due crisi: quella economica e sociale dovuta a riforme strutturali tuttora ritenute indispensabili, e quella migratoria. Basta ascoltare i municipi che temono i flussi migratori:come fare accoglienza, se i comuni sono costretti a liquidare i servizi pubblici e ad affrontare emergenze abitative? Questo nesso è ignorato sia dai fautori dell’austerità, sia dalle destre estreme che la avversano. Lo è anche dalle sinistre che si limitano a difendere i diritti umani dei migranti e non – in un unico pacchetto, con gli occhi aperti sui rischi di dumping sociale – i diritti sociali di tutti, connazionali e non. Se avesse deciso di combattere la crisi con un New Deal, mettendosi in ascolto dei cittadini (della realtà), l’Unione potrebbe trasformarsi in una terra di immigrazione, così come la Germania si è col tempo trasformata da terra di immigrati temporaneamente “ospiti” (Gastarbeiter) in terra di immigrati con diritti all’integrazione e alla cittadinanza. Il New Deal non c’è, e il legame tra le varie crisi è negato per meglio produrre un’Europa rimpicciolita, basata non già sulla condivisione di sovranità ma sul trasferimento delle sovranità deboli a quelle forti (nazionali o sovranazionali). Ultima realtà occultata dalla società dello spettacolo che si auto-incenserà a Roma: il Brexit. Per le élite dell’Unione è la grande occasione: adesso infine si può “fare l’Europa” osteggiata per decenni da Londra. Sia il compiacimento dell’Unione sia quello di Theresa May sono improvvidi: se non danno assoluta priorità al sociale i Ventisette perdono la scommessa del Brexit; se il Brexit serve per demolire ulteriormente il già sconquassato welfare britannico Theresa May si troverà alle prese con chi ha votato l’exit per disperazione sociale. Anche in questo caso viene misconosciuta o negata la sequenza cruciale: quella che dal dramma ricattatorio del Grexit ha condotto al Brexit. È l’ultimo inganno visivo delle cerimonie romane.
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