Come era l’Italia il 22 di
novembre dell’anno 2010? Come è l’Italia del 22 di novembre 2016, che è l’oggi?
Da “Prodi: ricchi di soldi, poveri di
regole”, intervista di Maria A. Colimberti e Raffaella Cascioli a Romano
Prodi pubblicata sul settimanale A&F del 22 di novembre dell’anno 2010: (…).
Com’è (…) l’Italia vista da fuori gli chiediamo. Può ancora dirsi un paese
ricco? «Credo che l’Italia sia un paese povero abitato da gente ricca. Può
sembrare una risposta scherzosa ma tanto scherzosa non è. Cosa voglio mettere
in evidenza? L’Italia è sicuramente un paese ricco – perché ha livelli di
consumo che si collocano nella fascia più alta; perché ha una speranza di vita
tra le più elevate del mondo; perché ha un’istruzione generalizzata, eccetera –
però ha tali problemi nella sua organizzazione statuale che, sotto
quest’aspetto, non possiamo collocarla tra i paesi più avanzati del mondo. Come
è noto, una cattiva organizzazione statuale rende poveri i beni collettivi».
D. Può servire ridefinire i ruoli
tra Stato e mercato? R. P. «Se si pensava, e qualcuno lo pensa ancora, che il
mercato risolvesse tutti i problemi, la crisi ha dimostrato che non è così.
Quando dicevamo che occorreva uno Stato guardiano, arbitro e armonizzatore, ci
guardavano tutti male e invece adesso ci si è accorti che occorre uno Stato con
queste caratteristiche».
D. Come deve intervenire lo Stato
nella marcata differenziazione nei redditi? R. P. «Alcuni decenni fa, quando
scrissi che, in una stessa impresa, c’era un rapporto da 1 a 40 tra i salari più bassi e
quelli più alti, ne seguì un vero e proprio sdegno popolare. Ora la differenza
è spesso da 1 a
400 e nessuno si scandalizza. Occorre dunque distinguere bene tra la
definizione di paese ricco e quella di gente ricca. Per questo quella di prima
non è in fondo una battuta, perché la povertà delle istituzioni fa in modo che
le disuguaglianze aumentino. Certamente il fisco è uno degli elementi chiave,
soprattutto lo è l’evasione. Perché l’evasione annulla il fisco, va oltre il
fisco ingiusto, che almeno lascia qualcosa alla redistribuzione. (…)».
D. Diversi anni fa lei affermò: «Nelle occasioni in cui posso incontrare i giovani dico: state attenti, perché il Welfare State sarà ricordato nei libri di storia come la più grande conquista del XX secolo». E’ ancora così? R. P. «Questa è la grande domanda. Io mi ribello all’idea che lo Stato sociale sia destinato a tramontare. Dobbiamo correggerlo, proprio in coerenza con quello che abbiamo detto. Alcuni oneri dello Stato sociale, con l’accrescersi dell’arricchimento delle persone, non dovranno più essere sostenuti dallo Stato, ma dalla maggior parte dei cittadini. Non mi riferisco ai bisogni fondamentali, ma ad alcune routine a cui il cittadino medio può far fronte. Penso per esempio all’aumento dell’età pensionabile misurata sulla durata della vita e sulle condizioni di salute reali delle popolazioni. Abbiamo l’obbligo di operare queste correzioni, preservando lo Stato sociale, che vuol dire venire incontro ai bisogni veri, profondi, elementari della gente e tralasciare invece quei problemi che il cittadino è generalmente in grado di affrontare da solo. È un passaggio inevitabile, perché siamo in presenza di un forte aumento dei costi. Basti pensare a cosa significa oggi una sanità raffinata, con le moderne apparecchiature disponibili, in confronto alla sanità meno raffinata di ieri, oppure all’aumento dell’età media, che porta molte persone ad avere bisogno di cure molto più serie che in passato. Una ricerca canadese di qualche anno fa spiegava che metà delle spese della salute sono concentrate nell’ultimo anno di vita. Se noi vogliamo conservare questo sistema sanitario che, voglio ancora sottolinearlo, è la più grande conquista del secolo scorso, dobbiamo anche fare in modo che chi ha qualche risorsa possa e debba contribuirvi. Ancora una volta, ritorniamo sulla questione drammatica del sistema fiscale e dell’evasione fiscale. Se noi avessimo un’evasione fiscale media rispetto all’Europa, non avremmo debito pubblico. Questa è una cosa che tutti dovrebbero tenere a mente».
D. Anche la libertà è un valore:
che rapporto c’è tra ricchezza e libertà? Tra ricchezza e democrazia? R. P. «Per
essere ricchi non è necessario essere democratici. In fondo, è la nostra
storia. Firenze non era una democrazia. Venezia non era una democrazia. Per
essere ricchi basta avere governanti illuminati. Questo è un concetto difficile
da far comprendere. Bisogna tornare indietro nella grande storia della nascita
dei mercati. Nelle signorie italiane ci fu una diffusione di ricchezza molto
forte e non c’era certo democrazia. Per questo non mi sono mai stupito della
diversità della Cina, della possibilità di ricchezza in assenza di strutture
democratiche. Sono però convinto che, nella pratica e col tempo,
l’arricchimento e la diffusione del mercato preparino (o determinino) la
democrazia. Per questo sono sempre istintivamente scettico sugli embargo.
Perché essi interrompono un cammino di democrazia, anche se al momento non lo
avvertiamo come tale».
(…) D. E da noi c’è qualcuno (…) che
capisce i cambiamenti e riesce a stargli dietro? R. P. «I nostri governi hanno
molte difficoltà perché sono vittime della paura popolare. E invece di
controllare e guidare questa paura, la inseguono. Pensano più alle prossime
elezioni che non agli interessi di lungo periodo del loro paese e dell’intera
umanità. Inseguendo gli interessi elettorali non possono evidentemente mettere
in atto le azioni necessarie per interpretare i cambiamenti del mondo».
D. Abbiamo alle spalle decenni di
furibonde delocalizzazioni. Continueranno? R. P. «Le delocalizzazioni non sono
finite. Ma non è solo un problema di costo del lavoro. Che aumenta anche nei
paesi verso i quali avvengono le delocalizzazioni. Certo, la differenza di
costo è ancora enorme, ma non più come un tempo, soprattutto per quanto
riguarda la manodopera specializzata. In Cina un ingegnere costa la metà che da
noi, ma non costa un quarantesimo o un ventesimo come dieci anni fa. Il
problema, semmai, è quello di reagire con il cervello, con innovazioni
tecnologiche, con nuovi modelli organizzativi. Come, almeno in buona parte, è
stata in grado di fare la Germania, dove vi è oggi uno straordinario boom di
esportazioni superiore, in proporzione al Pil, a quello della Cina. Eppure i
tedeschi hanno salari molto più alti dei nostri e hanno già decentrato tutte le
industrie a basso valore aggiunto. Il fattore decisivo è stata la flessibilità.
Se si ha una fabbrica con mille robot e un’intensità di capitale altissima, il
problema non è pagare un po’ di più la manodopera ma saturare gli impianti 24
ore su 24 quanto è necessario. La sfida si può anche vincere ma bisogna essere
aperti al cambiamento e soprattutto bisogna aver chiarissimo in mente quali
debbano essere le strategie necessarie per interagire con successo nei
confronti di questo nuovo mondo. Sono necessarie idee chiare e stabilità
politica e sociale, così come bisogna lavorare pensando al futuro».
D. Come ha scritto Edmondo
Berselli dovremo adattarci ad essere più poveri? R. P. «No, non
necessariamente. Dovremo certo adattarci a essere meno spreconi, a far conto
delle risorse della terra che devono essere ottimizzate e, soprattutto, a
valorizzare le risorse umane che sono le uniche che si possono moltiplicare,
non dico all’infinito, ma quasi».”
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