È pur vero che l’appuntamento di domenica 4 di
dicembre è solamente (sic!) un referendum confermativo di “revisione” – divenuto in buona sostanza, nella prossima
circostanza referendaria, di conferma di “modifica” costituzionale – di quella
legge fondamentale che trasforma un qualsivoglia Stato in uno Stato più democratico.
Trattasi quel referendum, per l’appunto, di un momento altamente significativo
ed importante nella nostra vita socio-politica, poiché quella “revisione” – che
non c’è stata - avrebbe dovuto avere il concorso – per il consenso sarebbe
stato auspicabile ricercarlo allo spasimo sino all’ultima riga e respiro - di
tutte le componenti politiche rappresentate nel Parlamento nazionale e sarebbe
stato necessario che il suo esame non venisse tarpato, svilito, dai tanti voti
di fiducia e dagli escamotage procedurali vari che hanno avvalorato l’ipotesi
che la finalità ultima del dibattito parlamentare fosse di annichilire ed
ammutolire le voci discordi. Poiché per la legge costituzionale non valgono i
distinguo e gli arzigogoli propri della normale legislazione; servono per essa
che tutti alla fine ci si riconosca in quella scrittura che pur non avendo
alcunché di “sacro” possiede in egual misura quella “sacralità” che la rende
unica ed insostituibile fin quando una nuova, diffusamente pensata e concordata
legge costituzionale non interverrà a renderla sorpassata e quindi di fatto obsoleta.
Ha scritto Stefano Rodotà –
all’indomani delle elezioni amministrative
del mese di giugno ultimo – un “pezzo” che mantiene anche in questa circostanza
referendaria, e forse proprio in questa circostanza referendaria più che mai,
tutta la sua importanza e pregnanza, “pezzo” che ha per titolo “Dalle urne la società che vogliamo”, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 17 di giugno 2016. Ebbene, come non pensare a
questo titolo ora che ci si appresta al voto referendario? Poiché in tutte le
varie fasi elettorali che si rincorrono nella vita democratica di un qualsivoglia
paese democratico sarebbe cosa buona e giusta riflettere su quale società si ha
in mente di costruire, se la si vuole costruire con la partecipazione di tutti
o se invece si vuole selezionare e quindi escludere coloro che, se di diverso
parere, avrebbero sempre il diritto di concorrere a quella costruzione
collettiva. Vi è parso che in questa ennesima tornata elettorale – a maggior
ragione essendo una tornata referendaria costituzionale – si sia parlato di
questa idea di società che si vuole costruire, ovvero di una società che assimili
i tanti, i più, di una società dell’inclusione e non della esclusione? A me non
è parso essere aleggiato questo spirito, tutt’altro. Contrapposizione feroce e
un ordine preciso: “non faremo prigionieri”, copyright di uno statista
indimenticabile – passato dal Parlamento al parlatorio - di questo stralunato
paese. Ha scritto Stefano Rodotà: (…). È di un’altra politica che si va alla
ricerca, seguendo motivazioni diversificate, a partire da un bisogno di
rappresentanza, non più soddisfatto dai partiti esistenti, di cui si coglie
piuttosto l’ormai consolidata deriva oligarchica, divenuta così forte e
sfrontata da respingere sullo sfondo il fatto che questo sia un modo d’essere (…).
Sono i paradossi di una situazione che ha visto (nelle elezioni
amministrative di giugno 2016 n.d.r.) proprio il disconnettersi tra politica e
società, con una ossessiva ricerca del bene assoluto della decisione che
travolge ogni altra esigenza e porta verso una concentrazione oligarchica del
potere. Così stando le cose, ogni rifiuto dell’oligarchia diviene un segno
importante per la permanenza della logica democratica.
Si è giustamente detto che la democrazia rischia di ridursi da “due a uno”, identificata con chi detiene il potere di governo in un momento determinato, sì che l’alternativa viene poi presentata come impossibile o addirittura come pericolosa. (…). Quando ci si domanda se sia ricominciata una stagione dei diritti, (…), non si possono dare risposte che prescindano da uno sguardo d’insieme, dunque da una considerazione primaria anche dai diritti sociali. Lavoro, salute, istruzione, abitazione e trasporti ci portano nel cuore della vita quotidiana, dove il rapporto tra i cittadini e le istituzioni viene percepito nella sua materialità. Qui il ritorno ad una contrapposizione tra società e individui può produrre politiche che portano ad una distribuzione delle risorse non solo a pioggia (o, come ora si dice, lanciate da un elicottero), ma che poi si traduce nell’abbandono di razionali strategie politiche e si affida ad un individualistico “fai-da-te” affidato a bonus, contributi, benefici occasionali. Ma così non si recupera la fiducia dei cittadini, ma si istituzionalizza una loro condizione di dipendenza, con inevitabili conflitti tra gruppi per la spartizione di risorse scarse. (…). …da tempo si discute dell’introduzione di un reddito garantito, definito da molti appunto come reddito “di dignità”. Una misura, questa, che in Italia ancora non esiste e che (…) “potrebbe essere uno degli strumenti per non essere ricattati”, dunque per attribuire alle persone una garanzia indispensabile per il rispetto dei loro diritti fondamentali. Questo tipo di reddito può assumere forme diverse (…) e rappresenterebbe un essenziale elemento per la ricostruzione delle basi materiali della dignità. Se si vuole continuare a pronunciare quella parola senza farla divenire complice di un permanente imbroglio retorico, bisogna ricostruire le condizioni della sua effettiva rilevanza, della sua materialità, del suo essere componente essenziale di quello che deve essere definito il “costituzionalismo dei bisogni”. Ma non possiamo fermarci qui. La società italiana, ce lo ricordano periodicamente le vicende delle campagne di Rosarno, conosce ormai una vera e propria schiavitù. Nessun dato elettorale ci parla di queste persone. Ma questo ci autorizza ad ignorarle, a concludere d’avere la coscienza tranquilla perché è stata approvata una legge sul caporalato? Gli schiavi ci sono, mangiamo i pomodori che raccolgono, ma sembra che vi sia ormai un tacito consenso sul fatto che in Italia possano vivere persone per le quali la disattenzione istituzionale e civile esclude la dignità. (…). Di fronte agli schiavi, privati di dignità e diritti, rimaniamo silenziosi. E non possiamo dire di non sapere. Qualche sera fa in una trasmissione televisiva è stato intervistato un uomo che vive in quei luoghi. Gli veniva chiesto che cosa pensasse della sua situazione. Con tono pacato e in un impeccabile italiano ha detto soltanto: «Ho perduto la speranza». No, questa non può essere la società nella quale accettiamo di vivere.
Si è giustamente detto che la democrazia rischia di ridursi da “due a uno”, identificata con chi detiene il potere di governo in un momento determinato, sì che l’alternativa viene poi presentata come impossibile o addirittura come pericolosa. (…). Quando ci si domanda se sia ricominciata una stagione dei diritti, (…), non si possono dare risposte che prescindano da uno sguardo d’insieme, dunque da una considerazione primaria anche dai diritti sociali. Lavoro, salute, istruzione, abitazione e trasporti ci portano nel cuore della vita quotidiana, dove il rapporto tra i cittadini e le istituzioni viene percepito nella sua materialità. Qui il ritorno ad una contrapposizione tra società e individui può produrre politiche che portano ad una distribuzione delle risorse non solo a pioggia (o, come ora si dice, lanciate da un elicottero), ma che poi si traduce nell’abbandono di razionali strategie politiche e si affida ad un individualistico “fai-da-te” affidato a bonus, contributi, benefici occasionali. Ma così non si recupera la fiducia dei cittadini, ma si istituzionalizza una loro condizione di dipendenza, con inevitabili conflitti tra gruppi per la spartizione di risorse scarse. (…). …da tempo si discute dell’introduzione di un reddito garantito, definito da molti appunto come reddito “di dignità”. Una misura, questa, che in Italia ancora non esiste e che (…) “potrebbe essere uno degli strumenti per non essere ricattati”, dunque per attribuire alle persone una garanzia indispensabile per il rispetto dei loro diritti fondamentali. Questo tipo di reddito può assumere forme diverse (…) e rappresenterebbe un essenziale elemento per la ricostruzione delle basi materiali della dignità. Se si vuole continuare a pronunciare quella parola senza farla divenire complice di un permanente imbroglio retorico, bisogna ricostruire le condizioni della sua effettiva rilevanza, della sua materialità, del suo essere componente essenziale di quello che deve essere definito il “costituzionalismo dei bisogni”. Ma non possiamo fermarci qui. La società italiana, ce lo ricordano periodicamente le vicende delle campagne di Rosarno, conosce ormai una vera e propria schiavitù. Nessun dato elettorale ci parla di queste persone. Ma questo ci autorizza ad ignorarle, a concludere d’avere la coscienza tranquilla perché è stata approvata una legge sul caporalato? Gli schiavi ci sono, mangiamo i pomodori che raccolgono, ma sembra che vi sia ormai un tacito consenso sul fatto che in Italia possano vivere persone per le quali la disattenzione istituzionale e civile esclude la dignità. (…). Di fronte agli schiavi, privati di dignità e diritti, rimaniamo silenziosi. E non possiamo dire di non sapere. Qualche sera fa in una trasmissione televisiva è stato intervistato un uomo che vive in quei luoghi. Gli veniva chiesto che cosa pensasse della sua situazione. Con tono pacato e in un impeccabile italiano ha detto soltanto: «Ho perduto la speranza». No, questa non può essere la società nella quale accettiamo di vivere.
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