Scriveva Alessandro Robecchi in “Coraggio, tutti insieme appassionatamente
verso i primi del 900” su “il Fatto Quotidiano” dell’8 di ottobre dell’anno
2015, giusto un annetto addietro in attesa del trionfo odierno di Trump: È passato
un annetto giusto giusto da quando il presidente di Confindustria Giorgio
Squinzi emetteva il suo sfumato giudizio: “Il governo Renzi realizza tutti i
nostri sogni”. Il problema è che da allora l’attività onirica di Squinzi,
Confindustria e imprenditori italiani è stata frenetica: la logica prevalente è
quella che se si aiutano i padroni (uh, parolaccia), si aiutano anche i loro dipendenti,
un sillogismo piuttosto bislacco, a dire il vero, ma accettato come un dogma.
Così, per fare un esempio, mentre si mascherano i tagli alla sanità con una
variante del Comma 22 (non ti pago gli esami se non sei grave, ma per sapere se
sei grave devi fare gli esami), si annunciano tagli alle tasse sui profitti
d’impresa. I famosi vasi comunicanti, solo che comunicano in un verso solo: dal
pubblico al privato, dal welfare al profitto, dai tanti ai pochi, dal basso
all’alto della piramide sociale. Chissà se prende qualcosa, pillole, gocce, per
sognare tanto, ma insomma, sta di fatto: il padronato italiano ha ora un nuovo
sogno e il governo si accinge a realizzarlo. Per la verità non è un sogno
nuovissimo ma un vecchio pallino: “superare” il contratto collettivo di lavoro
e lasciare che ogni azienda se la veda da sé nelle vertenze sui rinnovi
contrattuali. Contestualmente, si dovrebbe varare il salario minimo, cioè una
linea di semigalleggiamento sotto cui non sarà possibile andare (né campare).
Ora, per tradurre in italiano: l’operaio metalmeccanico (poniamo) della piccola
media azienda non potrà più contare sulle lotte comuni e condivise di tutti i
metalmeccanici, e quindi su una forza poderosa per sostenere le trattative, ma
dovrà vedersela col singolo consiglio di amministrazione. Non è difficile
immaginare, dunque, che il potere contrattuale penderà clamorosamente dalla
parte degli imprenditori ed è piuttosto fantascientifico immaginare che
l’operaio di una piccola azienda di Crotone avrà un domani gli stessi diritti
(e lo stesso stipendio) di un collega che lavora in una grande fabbrica del
Nord. Dal punto di vista tecnico-economico si tratta di una nuova rapina ai
danni del mondo del lavoro, dal punto di vista storico-culturale è invece il
definitivo omicidio di concetti come unità dei lavoratori, l’unione fa la
forza, uniti si vince eccetera, eccetera, tutte cosucce che ingombrano il
disegno thatcheriano in corso. I narratori delle gesta renziste si affanneranno
a dire che – wow! – arriva il salario minimo, e lo venderanno come progresso e
cambiaverso in una selva di hashtag osannanti, il che rappresenta, ovviamente
una fregatura parallela. Perché tra poco, per essere in regola, basterà offrire
ai lavoratori un salario minimo appena sufficiente a campare, e tutto il resto
(il salario accessorio) dipenderà dai risultati, dalla disponibilità
(straordinari, festivi, notti, doppi turni, obbedienza).
Insomma, a farla breve, dalla discrezionalità di chi guida le aziende, con le ovvie e prevedibili ricadute in termini di ricatto economico: fai così o prendi due lire, ubbidisci o ripiombi in un lumpenproletariat da inizio secolo. Riassumendo: sei demansionabile (Jobs act), licenziabile a costi risibili (sempre Jobs act), i tuoi diritti sono determinati dall’umore del datore di lavoro, il tuo salario è variabile a seconda di come ti comporti, e tra poco si metterà mano a una restrizione del diritto di sciopero. Niente male, per un governo – destra e sinistra Pd, Ncd, sor Verdini e compari – che si affanna a dire a tutti che è “di sinistra”. Riprendo queste considerazioni all’indomani del trionfo di Trump. Nel nostro inveterato vizio “eurocentrista“, come se ancora potessimo ritenerci il centro del pianeta e non vassalli di “imperi” che dettano e detteranno le leggi economiche e quant’altro del nostro domani, i turiferari della stampa e dei mass media ‘de noantri parlavano e straparlavano stamane di “notte elettorale”; balordi tutti d’un pezzo, ché la notte era scesa e scenderà su questo nostro angolo di pianeta e non tanto sugli Stati Uniti d’America dove si è votato alla luce del giorno (americano). Ma non è tanto questo l’aspetto che ora mi preme sottolineare. È che, dal mio edicolante, Trump e le vicende americane hanno tenuto banco per l’intera mattinata con l’incredibile scoperta - fatta dai più - che anche i diseredati d’America hanno dato il loro voto all’istrione di turno. E questo è un dato certo. Era un dato pure scontato, come scritto negli astri. La crisi assilla l’Occidente, e la speranza di poterne venire fuori spinge i più alle scelte che hanno portato ai risultati della “notte elettorale” americana. E non sia detto che analoghi risultati non si verificheranno tra breve anche nelle contrade europee. Ma Trump, da quale parte è stato allorquando le aziende di quel paese de-localizzavano per migliorare profitti e rapine negli angoli più diversi del pianeta Terra? La “pancia” di quell’elettorato non si è posta la domanda se Trump, che sul piano sociale è stato e lo è ancora dalla parte di chi ha selvaggiamente de-localizzato, ed impoverito milioni di americani del ceto medio, riuscirà ad imporre a quella sua stessa parte sociale scelte diverse (di rientro) che immancabilmente dovranno essere “compensate” con un ulteriore restringimento dei diritti e delle retribuzioni dei lavoratori americani? Trump sta dalla stessa parte dei “soliti ignoti” di cui ha scritto Alessandro Robecchi nella Sua nota all’inizio ri-proposta. È certo che tempi perigliosi assai si annunciano. Occorrerebbe allora che si costruissero intese ed alleanze capaci di contrapporsi all’incombente pericolo. Intese ed alleanze tra chi? Nell’Europa che, in forma confusa vede ciascuno battere vie autonome e senza sbocchi precisi, sarebbe auspicabile che quelle forze di ispirazione e prassi politica che hanno realizzato la ricostruzione post-bellica e creato gli stati sociali che rimangono tuttora insuperati, riprendano dialogo e programmi comuni senza dei quali il ciclone Trump investirà ferocemente le nostre vite. Come sia possibile infatti credere – ma quella pancia d’America vi ha creduto - che il Trump d’America al pari di tutti gli “squinzi” d’Italia e d’Europa possano e vogliano invertire una direzione che essi stessi hanno creato con le bolle speculativo-finanziarie che, a datare dai tempi della famigerata Lehman Brothers Holdings Inc. (2008), attanaglia e stritola le nostre vite e le speranze di milioni di giovani occidentali? In questa ore il problema sul quale porre l’attenzione e le speranze è unicamente questo: quale baluardo sarà e dovrà essere costruito per fronteggiare il pericolo Trump? Con quali forze? Con quali idee ed ideali? Tanto, o quasi tutto, dipenderà da noi tutti. Chiudo queste mie considerazioni proponendo la lettura di una corrispondenza di Vittorio Zucconi - “Di notte nel parcheggio degli ultimi sogni” – pubblicata sul settimanale “D” del 22 di ottobre ultimo scorso, corrispondenza che la dice lunga sullo stato di salute di quell’America, stato di salute per il quale Trump e la sua parte sociale portano le responsabilità più grosse: Lungo l'autostrada numero 50 che per quasi 5mila chilometri collega la California con la costa atlantica,quando l'asfalto raggiunge i sobborghi di Washigton, il "sogno americano" esplode in centinaia di case con l'obbligatorio pezzo di giardino, le fioriture di azalee, magnolie, ciliegi e cornioli secondo le stagioni e concessionari di automobili che sgomitano gli uni accanto agli altri, cercando di attirare qualche cliente in una contea chiamata Fairfax, tra le cinque più ricche d'America, con un reddito medio per famiglia pari a 102mila euro all'anno. Per servire la legione di padroni di casa che martellano, trapanano, coprono, pitturano, piantano e limano con diligente costanza, a un incrocio della Route 50 sorge un supercentro di utensili e materiali da costruzione che definire un ferramenta sarebbe come definire lo Stadio Olimpico di Roma un campetto da calcio. È uno dei più grandi d'America, parte della catena Home Depot, ma se l'interno è sconfinato, è il parcheggio che merita attenzione. Per la dimensione, che è di 200 mila metri quadrati, ma soprattutto per quello che diventa di notte, quando le auto dei clienti e del personale se ne vanno. Il parcheggio scoperto di Home Depot si trasforma nella città del popolo su ruote. Dozzine di persone, uomini e donne di ogni età e condizioni di salute portano fino a questo parcheggio l'ultima cosa che rimane della loro passata prosperità, l'automobile, il minivan, il suv che sono ormai la loro abitazione. L'ultima fermata prima del marciapiede, delle volte del ponte, della branda in un dormitorio pubblico d'emergenza, se la si trova. L'assortimento di modelli è un catalogo della produzione automobilistica degli ultimi vent'anni. E il ricordo di una vita che sembrava felice e sicura. C'è il minivan comprato quando nacque il terzo figlio e i ragazzi si dovevano portare in giro tra i campi di baseball o di calcio, con ancora le ammaccature provocate dal primogenito quando imparava a guidare. C'è la vecchia Mercedes dignitosamente scalcagnata, ma ancora miracolosamente funzionante. Ci sono le Oldsmobile, le Buick, le Lincoln d'una volta, abitate da vedove che le hanno ereditate dal marito. E pickup, i camioncini con attrezzi da giardinaggio usati durante il giorno per guadagnare abbastanza per mangiare un hamburger e comperare la benzina. Gli abitanti della città sulle ruote si conoscono tutti e quando si aggrega uno nuovo viene esaminato dagli altri, prima di essere accettato. Si sorvegliano a vicenda, parcheggiando gli uni accanto agli altri. Si servono della stessa officina, gestita da un meccanico di enorme cuore che rappezza i loro catorci e segna tutto su un libretto, sapendo che quei conti non saranno mai saldati. Certamente non dalla decana del popolo su gomma, Kathleen McDermott, che ogni notte addormenta i suoi 87 anni pregando le figurine degli angioletti in fila sul cruscotto della Ford Focus del 2002. Tutto quello che rimane di una vita con un marito morto lasciandole soltanto una valanga di debiti, di fatture mediche e di tasse arretrate. Quasi tutti loro pensano, sperano, s'illudono di avere ancora una possibilità di trovare quel lavoro permanente che gli permetterà di affittare un alloggio, di dormire in un letto vero, anziché sul sedile posteriore nel sacco a pelo. Ognuno coltiva un proprio sogno, come John Baird, che vorrebbe andare a conoscere il nipote che vive con la figlia a 300 km daWashington. Una distanza che il suo minivan con le gomme lisce come la pelle di un neonato non potrebbe mai affrontare. Mangia alle mense di carità tutti i giorni per raggranellare i 400 dollari necessari per un buon treno di gomme usate. La polizia della Contea e i capi dell'HomeDepot fingono di ignorarli, perché sono cittadini esemplari, mai una cartaccia, una cicca, una buccia per terra, e permettono a loro di usare le toilette del mercatone. Ma anche qui, come in sempre più città e contee, sta per passare un regolamento che probisce il parcheggio notturno per dormire in auto ai 300 mila abitanti delle città su ruote che esistono negli Stati Uniti. Dovranno cercarsi un altro luogo dove portare la loro casa di lamiera, per non offendere la vista degli abitanti di una delle regione più ricche del mondo.
Insomma, a farla breve, dalla discrezionalità di chi guida le aziende, con le ovvie e prevedibili ricadute in termini di ricatto economico: fai così o prendi due lire, ubbidisci o ripiombi in un lumpenproletariat da inizio secolo. Riassumendo: sei demansionabile (Jobs act), licenziabile a costi risibili (sempre Jobs act), i tuoi diritti sono determinati dall’umore del datore di lavoro, il tuo salario è variabile a seconda di come ti comporti, e tra poco si metterà mano a una restrizione del diritto di sciopero. Niente male, per un governo – destra e sinistra Pd, Ncd, sor Verdini e compari – che si affanna a dire a tutti che è “di sinistra”. Riprendo queste considerazioni all’indomani del trionfo di Trump. Nel nostro inveterato vizio “eurocentrista“, come se ancora potessimo ritenerci il centro del pianeta e non vassalli di “imperi” che dettano e detteranno le leggi economiche e quant’altro del nostro domani, i turiferari della stampa e dei mass media ‘de noantri parlavano e straparlavano stamane di “notte elettorale”; balordi tutti d’un pezzo, ché la notte era scesa e scenderà su questo nostro angolo di pianeta e non tanto sugli Stati Uniti d’America dove si è votato alla luce del giorno (americano). Ma non è tanto questo l’aspetto che ora mi preme sottolineare. È che, dal mio edicolante, Trump e le vicende americane hanno tenuto banco per l’intera mattinata con l’incredibile scoperta - fatta dai più - che anche i diseredati d’America hanno dato il loro voto all’istrione di turno. E questo è un dato certo. Era un dato pure scontato, come scritto negli astri. La crisi assilla l’Occidente, e la speranza di poterne venire fuori spinge i più alle scelte che hanno portato ai risultati della “notte elettorale” americana. E non sia detto che analoghi risultati non si verificheranno tra breve anche nelle contrade europee. Ma Trump, da quale parte è stato allorquando le aziende di quel paese de-localizzavano per migliorare profitti e rapine negli angoli più diversi del pianeta Terra? La “pancia” di quell’elettorato non si è posta la domanda se Trump, che sul piano sociale è stato e lo è ancora dalla parte di chi ha selvaggiamente de-localizzato, ed impoverito milioni di americani del ceto medio, riuscirà ad imporre a quella sua stessa parte sociale scelte diverse (di rientro) che immancabilmente dovranno essere “compensate” con un ulteriore restringimento dei diritti e delle retribuzioni dei lavoratori americani? Trump sta dalla stessa parte dei “soliti ignoti” di cui ha scritto Alessandro Robecchi nella Sua nota all’inizio ri-proposta. È certo che tempi perigliosi assai si annunciano. Occorrerebbe allora che si costruissero intese ed alleanze capaci di contrapporsi all’incombente pericolo. Intese ed alleanze tra chi? Nell’Europa che, in forma confusa vede ciascuno battere vie autonome e senza sbocchi precisi, sarebbe auspicabile che quelle forze di ispirazione e prassi politica che hanno realizzato la ricostruzione post-bellica e creato gli stati sociali che rimangono tuttora insuperati, riprendano dialogo e programmi comuni senza dei quali il ciclone Trump investirà ferocemente le nostre vite. Come sia possibile infatti credere – ma quella pancia d’America vi ha creduto - che il Trump d’America al pari di tutti gli “squinzi” d’Italia e d’Europa possano e vogliano invertire una direzione che essi stessi hanno creato con le bolle speculativo-finanziarie che, a datare dai tempi della famigerata Lehman Brothers Holdings Inc. (2008), attanaglia e stritola le nostre vite e le speranze di milioni di giovani occidentali? In questa ore il problema sul quale porre l’attenzione e le speranze è unicamente questo: quale baluardo sarà e dovrà essere costruito per fronteggiare il pericolo Trump? Con quali forze? Con quali idee ed ideali? Tanto, o quasi tutto, dipenderà da noi tutti. Chiudo queste mie considerazioni proponendo la lettura di una corrispondenza di Vittorio Zucconi - “Di notte nel parcheggio degli ultimi sogni” – pubblicata sul settimanale “D” del 22 di ottobre ultimo scorso, corrispondenza che la dice lunga sullo stato di salute di quell’America, stato di salute per il quale Trump e la sua parte sociale portano le responsabilità più grosse: Lungo l'autostrada numero 50 che per quasi 5mila chilometri collega la California con la costa atlantica,quando l'asfalto raggiunge i sobborghi di Washigton, il "sogno americano" esplode in centinaia di case con l'obbligatorio pezzo di giardino, le fioriture di azalee, magnolie, ciliegi e cornioli secondo le stagioni e concessionari di automobili che sgomitano gli uni accanto agli altri, cercando di attirare qualche cliente in una contea chiamata Fairfax, tra le cinque più ricche d'America, con un reddito medio per famiglia pari a 102mila euro all'anno. Per servire la legione di padroni di casa che martellano, trapanano, coprono, pitturano, piantano e limano con diligente costanza, a un incrocio della Route 50 sorge un supercentro di utensili e materiali da costruzione che definire un ferramenta sarebbe come definire lo Stadio Olimpico di Roma un campetto da calcio. È uno dei più grandi d'America, parte della catena Home Depot, ma se l'interno è sconfinato, è il parcheggio che merita attenzione. Per la dimensione, che è di 200 mila metri quadrati, ma soprattutto per quello che diventa di notte, quando le auto dei clienti e del personale se ne vanno. Il parcheggio scoperto di Home Depot si trasforma nella città del popolo su ruote. Dozzine di persone, uomini e donne di ogni età e condizioni di salute portano fino a questo parcheggio l'ultima cosa che rimane della loro passata prosperità, l'automobile, il minivan, il suv che sono ormai la loro abitazione. L'ultima fermata prima del marciapiede, delle volte del ponte, della branda in un dormitorio pubblico d'emergenza, se la si trova. L'assortimento di modelli è un catalogo della produzione automobilistica degli ultimi vent'anni. E il ricordo di una vita che sembrava felice e sicura. C'è il minivan comprato quando nacque il terzo figlio e i ragazzi si dovevano portare in giro tra i campi di baseball o di calcio, con ancora le ammaccature provocate dal primogenito quando imparava a guidare. C'è la vecchia Mercedes dignitosamente scalcagnata, ma ancora miracolosamente funzionante. Ci sono le Oldsmobile, le Buick, le Lincoln d'una volta, abitate da vedove che le hanno ereditate dal marito. E pickup, i camioncini con attrezzi da giardinaggio usati durante il giorno per guadagnare abbastanza per mangiare un hamburger e comperare la benzina. Gli abitanti della città sulle ruote si conoscono tutti e quando si aggrega uno nuovo viene esaminato dagli altri, prima di essere accettato. Si sorvegliano a vicenda, parcheggiando gli uni accanto agli altri. Si servono della stessa officina, gestita da un meccanico di enorme cuore che rappezza i loro catorci e segna tutto su un libretto, sapendo che quei conti non saranno mai saldati. Certamente non dalla decana del popolo su gomma, Kathleen McDermott, che ogni notte addormenta i suoi 87 anni pregando le figurine degli angioletti in fila sul cruscotto della Ford Focus del 2002. Tutto quello che rimane di una vita con un marito morto lasciandole soltanto una valanga di debiti, di fatture mediche e di tasse arretrate. Quasi tutti loro pensano, sperano, s'illudono di avere ancora una possibilità di trovare quel lavoro permanente che gli permetterà di affittare un alloggio, di dormire in un letto vero, anziché sul sedile posteriore nel sacco a pelo. Ognuno coltiva un proprio sogno, come John Baird, che vorrebbe andare a conoscere il nipote che vive con la figlia a 300 km daWashington. Una distanza che il suo minivan con le gomme lisce come la pelle di un neonato non potrebbe mai affrontare. Mangia alle mense di carità tutti i giorni per raggranellare i 400 dollari necessari per un buon treno di gomme usate. La polizia della Contea e i capi dell'HomeDepot fingono di ignorarli, perché sono cittadini esemplari, mai una cartaccia, una cicca, una buccia per terra, e permettono a loro di usare le toilette del mercatone. Ma anche qui, come in sempre più città e contee, sta per passare un regolamento che probisce il parcheggio notturno per dormire in auto ai 300 mila abitanti delle città su ruote che esistono negli Stati Uniti. Dovranno cercarsi un altro luogo dove portare la loro casa di lamiera, per non offendere la vista degli abitanti di una delle regione più ricche del mondo.
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