La “sfogliatura” di oggi
risale al 14 di settembre dell’anno 2011, di un mercoledì. Lo dichiaro subito: sono “preso”
assai da Barbara Spinelli. Non mi si fraintenda: nel senso letterario, emotivo,
culturalmente parlando. Poiché Barbara Spinelli è una straordinaria creatrice
di prosa. Dopo averla ascoltata in occasioni diverse, leggere la Sua prosa poi
è come riascoltare la Sua voce; nel Suo scrivere, c’è tutta la “prosodia” necessaria affinché la
lettura, al pari dell’ascolto nelle affabulazioni, crei quei rapimenti
dell’animo e della mente ad un tempo che solo la grande, grandissima prosa
riesce a fare. La leggo sempre con un trasporto che ha dell’inusuale; aspetto i
Suoi “pezzi” affinché, tramite essi,
si possa passare per altri orizzonti, liberandoci delle inutilità di una realtà
miserrima. La Sua prosa scava e scandaglia all’interno dell’anima; a tratti
affabula pure, ma non concede evasione alcuna dalla sostanza delle cose e dai
fatti che tramite essa, la Sua superba e sublime scrittura, vuole affrontare,
sezionare per meglio osservare, nella viva carne delle cose vissute. Ed il Suo
scrivere è magia di orizzonti nuovi, mai visti e neppure intuiti; è un
inabissarsi verso quelle profondità del pensiero che solo ai Maestri riesce
facile fare. Leggerla è come farsi rapire dalla Sua scrittura dotta ma al
contempo di una leggerezza che ha del miracolo; il miracolo di una grande
mente. Si è di recente superata Barbara Spinelli in quel Suo straordinario “pezzo” che ha per titolo “Le nostre metamorfosi” pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica”. Di seguito lo trascrivo in parte. È come se Barbara
Spinelli avesse voluto attirarci in un
gioco letterario di alta qualità per poi condurci per mano alla discoverta del
mondo nostro al tempo del signore di Arcore. Parte il moderno “aedo” conducendoci per mano alla
lettura dell’ultima fatica di Eugenio Scalfari “Scuote l’anima mia Eros” – Einaudi (2011) -; a lettura ultimata,
si scopre d’aver navigato nell’infido pelago nel quale sembra essersi
inabissato quel che un tempo era nomato essere il “bel paese”. Inabissato con tutto ciò che su di esso ha trovato
posto nel tempo trascorso; esseri umani e cose, dignità e legalità, solidarietà
ed accoglienza. Tutto in un pauroso gorgo, sommerso dall’”avarizia” che nulla vede se non il proprio miserevole tornaconto. Scrive la grande ad un certo punto: “Chi siamo noi è la questione. È la sola
che conti". Chi siamo divenuti al tempo dell’egoarca di Arcore? Sosteneva
Giovanni Sartori in una intervista rilasciata al quotidiano “la Repubblica” il
21 di febbraio dell’anno 2004:
(…). Il
nostro è un paese disossato, storicamente senza vertebre. Nel 1922 Ortega y
Gasset scriveva della Spagna invertebrata. Ho sempre pensato che quel titolo
fosse più calzante per l’Italia. (…). … al momento della prova, gli italiani
non reagiscono, subiscono. (…). Siamo il paese forse più invaso e conquistato
d’Europa. E con tutti i conquistatori siamo riusciti sempre a trovare un
accordo, nel segno della sopravvivenza. (…). …anche ai tempi delle invasioni
barbariche siamo stati capaci di soluzioni accomodanti. Con potenti e
prepotenti possiamo esibire uno straordinario mestiere di navigazione. Che è
anche rassegnazione e sottomissione. (…). Ecco: “rassegnazione e sottomissione”. È l’etica di sempre? Sopravvissuta
o avanzante nei tempi oscuri al seguito di barbari “scorridori”? Avvio in questa occasione una nuova sezione di questo
blog per la quale ho preso a prestito il titolo dell’ultimo lavoro di Paolo Di
Paolo “Dove eravate tutti” –
Feltrinelli Editore, pagg. 224 € 15 -. Corretto sarebbe chiedersi: dove eravamo
tutti noi mentre lo scempio distruggeva il tempo nostro? (…). Il curioso, lo dice l'etimologia, ha cura di quel che a prima
vista pare enigmatico. Non gli basta vedere la pelle delle cose, ha brama di investigare,
di tuffarsi molto a fondo, immergendosi con la testa come la balena narrata da
Melville. Non si accontenta, e in genere usa poco questo tiepido aggettivo:
contento. Il suo modo d'essere gli consente di intuire, nelle parole e negli
eventi, quel che è altro dalla parola o dall'evento subito percepibili. (…). Nel
raccontare l'epoca che abbiamo alle spalle, Scalfari ragiona (…) allo stesso
modo: - La questione davvero importante non è Berlusconi. È come l'Italia abbia
potuto sopportare un personaggio così per 17 anni. Chi siamo noi è la questione
-. L'essenza di Berlusconi non è Berlusconi, (…). In Italia l'essenza è la
misteriosa, sempre ambigua metamorfosi dell'uomo e del suo mondo: il mondo che
egli crea e quello che da fuori lo pigia e lo mette alla prova. Che lo spaventa
anche, inducendolo a bendarsi gli occhi e seguire chimere per non vedere i
precipizi verso cui sta correndo. Se cito Scalfari a proposito dei bilanci che
si stanno facendo (del berlusconismo, …) è perché la metamorfosi è parte centrale
del suo ultimo libro (Scuote l'anima mia Eros, Einaudi 2011) e perché i
concetti di cui il testo è disseminato aiutano a capire la crisi che viviamo:
la metamorfosi in primis ma anche la guerra fra gli istinti, l'amore di sé e
dell'altro, la morte che impronta la vita e dunque viene prima della vita. E
l'avarizia infine, una parola che mi ha colpito perché stranamente si è
diradata nel dialogo fra le persone. Nel libro è evocata almeno tre volte. Una
prima volta quando l'autore s'interroga sul segno (più lieve della traccia che
una lepre fuggitiva lascia sulla neve) che resta delle singole vicende umane.
Proprio perché la nostra è una “piccola vita circondata dal sonno”, scrive
citando Shakespeare: “Non dilapidatela, non difendetela con avarizia (...)
Vivetela con intensa passione, con speranza ed allegria”. Queste cose si
imparano nell'adolescenza, quando sei in trasformazione e provi a cambiare in
meglio il tuo Io. S'imparano anche in vecchiaia: se vissuta bene, è anch'essa
metamorfosi. Ricordo il bellissimo disegno di Goya, al Prado. Un vecchio
cammina appoggiato a due faticosi bastoni e sotto è scritto: Aùn aprendo,
Ancora sto imparando. Il secondo accenno all'avarizia è quando i mortali sono
descritti come centauri, metà bestie metà uomini, sempre esposti al sopravvento
del cavallo. L'avarizia di sé è figlia di questo rachitismo spirituale:
dimentichi quel che fa dell'uomo un uomo, sei sopraffatto, rattrappisci. C'è
infine un terzo passaggio, in cui ingeneroso è chi crede in una sola verità, e
diviene avaro di sé. L'avaro somiglia molto all'incurioso, che si fascia gli
occhi per paura di disperdere quel che ammonticchia per sé. Anch'egli non ha
cura dell'altro. Quando gli va incontro, è uno specchio che cerca: dunque vede
solo se stesso. Giustamente è stato evocato, nella discussione, il narcisismo
che affligge Berlusconi e l'Italia che l'ha scelto come modello. L'avaro
incurioso vede l'Uno (la propria verità); al Due non arriva. (…). …Berlusconi
chiede, di continuo: Perché mi odiano?, come se la sua persona fosse
satanicamente osteggiata per motivi estranei a quel che lui è e fa. Anche qui è
elusa la vera domanda: come avviene la seduzione? Cosa ha prodotto? (…). Dice
Scalfari che gli italiani hanno un terzo istinto, oltre a quello buono e
cattivo: un istinto anarcoide, antipolitico. Credo non sia un vizio solo
italiano: penso alle civiltà suicide descritte da Jared Diamond nel libro
Collasso, agli abitanti dell'isola di Pasqua, allo spirito anarcoide con cui
distrussero tutti gli alberi fino a non poter costruire una sola barca per
andare a pescare e nutrirsi. In Italia (…), l'evento cui abbiamo assistito è la
morte della politica, il trionfo di poteri paralleli e sommersi (…). E la
storia di questo trionfo è molto più lunga (…) dei diciassette che ci separano
dal Berlusconi politico. (…). I fenomeni grandiosamente anomali hanno tutto un
pedigree, e non solo: hanno effetti - sulla vita dei cittadini e sul futuro -
che il giudizio finale deve incorporare. (…). Quanto all'Italia, cosa ha
prodotto la talentuosa conquista berlusconiana dei consensi? È ancora Scalfari
che parla: - Il risultato lo si vede: siamo ridotti in mutande -. (…). Chi
siamo noi è la questione. È la sola che conti. Non si tratta di dividersi tra
benpensanti e malpensanti. Qui c'è bisogno di pensanti, tout court. Di
trasformatori, consapevoli con Nietzsche che “Noi, cercatori della conoscenza,
siamo a noi stessi degli sconosciuti, per il semplice motivo che non ci siamo
mai cercati”.
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