Interessante questo numero di “scriptamanent”,
un numero di “storia politica” passata o, molto più modestamente, di “cronaca politica”,
un numero che propone uno scritto che risale all’era giurassica della politica,
al 10 di settembre dell’anno 2010 – “Orfani
di leadership”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” – a firma di Paolo
Flores d’Arcais. Imperante l’uomo venuto da Arcore non esisteva segno del nuovo
(sic!) emergente. Ma già allora esisteva quella propensione, dei cosiddetti
democratici, all’inciucio politico, inciucio magistralmente realizzato dopo l’avvento
dell’uomo venuto da Rignano sull’Arno. Un “pezzo” che è cronaca divenuta storia,
da recuperare alla memoria giusto per non smarrire la dritta via. Da gustare. Scriveva
Paolo Flores d’Arcais: L’offerta politica d’opposizione non è mai
stata così ampia, variegata, lussureggiante, eppure mai come ora il cittadino
che si oppone a Berlusconi si è sentito tanto orfano di rappresentanza. Se
questa lancinante contraddizione non viene sanata prima delle elezioni,
Berlusconi vincerà di nuovo e realizzerà la trasformazione del suo attuale
regime in un totalitarismo vero e proprio. Diverso da quelli del secolo scorso,
postmoderno e luccicante, ma egualmente mostruoso. Oggi di opposizioni a
Berlusconi (ciascuna con il suo leader) ne esistono almeno sei. Ecco una breve
rassegna dell’appeal e delle magagne di ciascuna. L’opposizione oggi più
rilevante, e sulla cresta dell’onda mediatica, è quella di Gianfranco Fini, a
realizzazione del detto “gli ultimi saranno i primi”. Non si può però
dimenticare che Fini era nella Genova del G8, durante la mattanza della caserma
Diaz, e ha continuato a difendere i funzionari che per quell’abominio sono
stati condannati in appello. A Mirabello Fini ha rivendicato come antecedente
ideale Almirante (il “fucilatore Almirante”, non sono consentite amnesie) e
fatto tributare l’ovazione a Mirko Tremaglia, volontario repubblichino non
pentito (anzi). E ha continuato a sostenere che Berlusconi, fino a che è primo
ministro, deve essere sottratto ai processi (un’opinione, benché aberrante e in
contrasto con i richiami alla legalità) sul modello di altre democrazie europee
(un fatto, ma falso). E tuttavia non sono pochi gli elettori tradizionalmente
di sinistra (del Pd ma perfino di Rifondazione), che mai voterebbero Casini e
che invece dichiarano che oggi, sic stantibus rebus, voterebbero Fini. Perché
ha affermato senza troppi giri di frase che: Berlusconi ha una concezione
proprietaria dello Stato, dunque agli antipodi di qualsiasi democrazia
liberale; Berlusconi non capisce né la divisione dei poteri né il primato della
legalità, che sono invece valori non negoziabili; Berlusconi usa i media per
distruggere chi non si prostra ai suoi voleri; Berlusconi è uno stalinista.
Fini insomma ha detto ciò che avrebbe dovuto dire qualsiasi oppositore. Lo dice
con quindici anni di ritardo, ma nel Pd queste cose continua a non dirle
nessuno.
Il Pd, dunque, ovvero il maggior partito della (non) opposizione. Il
suo vizio di fondo è tutto qui. Eppure continua a raccogliere un quarto
abbondante dei consensi di quanti dichiarano che parteciperanno al voto. E che
tuttavia non perdono occasione per far capire ai dirigenti del partito che
vorrebbero una politica ben diversa, definitivamente scevra da inciuci. E si
ritrovano invece a dover ingoiare, nella “loro” festa, la presenza degli
Schifani, come fossero degli statisti. Ma sui vizi ormai strutturali del ceto
politico del Pd, comprese le new entries che spesso fanno rimpiangere i bolsi
burocrati delle generazioni che li precede (sembra impossibile, ma è così) è
inutile dilungarsi. (…). Resta la divaricazione – crescente – tra dirigenti
(nazionali, regionali, provinciali, di quartiere, fatte salve le eccezioni
canoniche e sempre più da lanternino) e militanti, tra dirigenti e potenziali
elettori. Che restano un patrimonio insostituibile per l’opposizione, anche se
oggi è un patrimonio congelato o sperperato, grazie a quei dirigenti che non
riescono a rovesciare e che non si decidono ad abbandonare. La riprova di
questo scarto è la travolgente simpatia che accoglie e circonda Nichi Vendola
nelle feste dell’Unità e in ogni occasione a forte presenza di base Pd. Simpatia
meritata e significativa. Meritata, perché Vendola incarna un riformismo che
rifiuta l’inciucio, e può esibire un buongoverno regionale introvabile nel sud
e sempre più raro anche altrove (probabilmente la Toscana e l’Emilia, e poco
più). Significativa, perché Vendola ha vinto le primarie contro il Pd, e anzi
direttamente contro D’Alema, ma con i voti di gran parte del “popolo Pd”. È
convinto di poter ripetere il risultato della Puglia a livello nazionale. Ma
qui viene fuori la debolezza della sua “narrazione”, difficilmente in grado di
riunificare tutti i motivi di opposizione positiva a Berlusconi. Non per troppa
radicalità, sia chiaro, ma per troppa vaghezza, di programmi e di staff. In
concorrenza con Vendola c’è inoltre Di Pietro. La sua opposizione è l’unica che
in Parlamento abbia coerenza, e a questo si deve perciò il raddoppio (e oltre)
di voti alle elezioni europee, ma tale coerenza viene poi contraddetta con le
scelte in fatto di dirigenti locali, in genere primatisti della transumanza da
un partito all’altro, veri e propri fari di opportunismo e di imenoplastica
politica. Di recente, dopo l’ennesimo scandalo che ha portato all’abbandono da
parte di un parlamentare per diatribe interne Di Pietro, immaginando di
formulare una domanda retorica, ha esclamato: dovrei cacciarli tutti? E invece
la risposta è “sì”, un rotondo SÌ, perché solo liberandosi della gran parte dei
dirigenti locali entrerebbero finalmente nell’Idv le energie dei nuovi
elettori, nate nei movimenti di impegno civile, che lo schifo per i cacicchi
locali tiene lontane dalla “militanza” nell’Idv. Resta l'opposizione di Grillo.
Che però rifiuta programmaticamente alleanze possibili con chicchessia, nella
convinzione che l’autoreferenzialità sarà il veicolo di un consenso al suo
“movimento cinque stelle” tale da travolgere non solo Berlusconi ma ogni
berlusconismo anche senza il ducetto di Arcore. Temo si tratti di un wishful
thinking. Della sesta “opposizione”, quella “centrista”, quella di
Cuffaro-Casini e di Rutelli-Montezemolo non vale davvero la pena parlare. Solo
la stupidità ormai ciclopica dei dirigenti Pd può dare a tali figure un credito
qualsivoglia. Dunque, sovrabbondanza di opposizioni, ma in realtà indigenza a
tutt’oggi assoluta per la prospettiva di un’opposizione vincente. (…). Nessuno
di quei sei leader può essere il leader che unifichi e porti alla vittoria una
maggioranza “per la Costituzione”, i suoi valori e la sua realizzazione, che
nel paese credo sia invece schiacciante. Come trovarlo, quel leader? Innanzitutto
bisogna aver chiaro che non potrà nascere da alchimie partitocratiche. Troppo
spesso si ragiona – con perfetta mancanza di realismo – come se i partiti
fossero proprietari dei rispettivi pacchetti di voti. E dunque, il Pd più l’Udc
fa... Invece i partiti prendono quei voti, ma da elettori totalmente
disaffezionati (tranne ristrettissime clientele), elettori che non intendono
affatto ubbidire alle manovre e agli accordi tra le varie oligarchie e
nomenklature della casta. Elettori che il leader capace di sconfiggere se lo
vogliono scegliere. Altrimenti molti di loro alle urne neppure ci andranno (il
Pd in un pugno di anni ha perso qualcosa come cinque milioni di voti!). Ma
questa non-rappresentatività dei partiti ha il suo lato positivo. Infatti ci
sono incompatibilità fra gruppi dirigenti che non hanno un corrispettivo di
incompatibilità tra gli elettori. Insomma, Bersani non riuscirà mai ad allearsi
contemporaneamente con Di Pietro e con Casini, ma molti elettori di questi tre
partiti non avranno alcuna difficoltà a unirsi sotto una leadership credibile
per la realizzazione di un programma di “giustizia e libertà”. Perché quegli
elettori, nella maggioranza dei casi, sono cittadini “senza collare”, senza
fedeltà di appartenenze. La più estrema mobilità elettorale è oggi la costante.
Le masse operaie di Sesto San Giovanni (la “Stalingrado d’Italia”!) sono
passate a Forza Italia, alla Lega, poi di nuovo al centrosinistra, e magari
schifate ora resteranno a casa. E la stessa cosa vale ormai ovunque nel Paese. Perciò
il leader capace di unificare la voglia crescente e smisurata di archiviare per
sempre il regime delle cricche e delle menzogne, non potrà che essere
individuato fuori degli apparati, non potrà che venire dalla società civile, da
un grande movimento e sommovimento di opinione pubblica. E infine, attraverso
primarie vere.
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