Da “Saranno
i migranti a salvare l’Europa” di Thomas Piketty, sul quotidiano la
Repubblica del 19 di settembre dell’anno 2015: (…). Il nostro continente, nel
XXI secolo, può e deve diventare una grande terra di immigrazione. Tutto
concorre in tal senso: il nostro invecchiamento autodistruttivo lo impone, il
nostro modello sociale lo consente e l’esplosione demografica dell’Africa
abbinata al riscaldamento globale lo esigerà sempre di più. Tutte queste cose
sono largamente note. Un po’ meno noto, forse, è che prima della crisi
finanziaria l’Europa si avviava a diventare la regione più aperta del mondo in
termini di flussi migratori. È la crisi, scatenatasi nel 2007-2008 negli Stati
Uniti, ma da cui l’Europa non è mai riuscita a uscire per colpa di politiche
sbagliate, che ha condotto all’aumento della disoccupazione e della xenofobia,
e a una chiusura brutale delle frontiere. Il tutto in un momento in cui il
contesto internazionale (Primavera Araba, afflusso di profughi) avrebbe
giustificato, al contrario, una maggiore apertura. Facciamo un passo indietro.
Nel 2015 l’Unione Europea conta quasi 510 milioni di abitanti, contro circa 485
milioni nel 1995 (considerando le frontiere attuali dell’Unione). Questa
progressione di 25 milioni di abitanti in vent’anni di per sé non ha niente di
eccezionale (appena lo 0,2 per cento di crescita annuo, contro l’1,2 per cento
della popolazione mondiale nel suo insieme nello stesso periodo). Ma il punto
importante è che tale crescita è dovuta, per quasi tre quarti, all’apporto
migratorio (più di 15 milioni di persone). Tra il 2000 e il 2010, l’Unione
Europea ha accolto quindi un flusso migratorio (al netto degli espatri) di
circa 1 milione di persone all’anno, un livello equivalente a quello degli
Stati Uniti, con in più una maggiore diversità culturale e geografica (l’islam
rimane marginale Oltreatlantico). In quell’epoca non così remota in cui il
nostro continente sapeva mostrarsi ( relativamente) accogliente, la
disoccupazione in Europa era in calo, almeno fino al 2007-2008. Il paradosso è
che gli Stati Uniti, grazie al loro pragmatismo e alla loro flessibilità di
bilancio e monetaria, si sono rimessi molto in fretta dalla crisi che essi
stessi avevano scatenato. Hanno rapidamente ripreso la loro traiettoria di
crescita (il Pil del 2015 è del 10 per cento più alto di quello del 2007) e
l’apporto migratorio si è mantenuto intorno a 1 milione di persone l’anno. L’Europa,
invece, impantanata in divisioni e posizioni sterili, non è mai riuscita a
tornare al livello di attività economica precedente la crisi, e le conseguenze
sono state la crescita della disoccupazione e la chiusura delle frontiere.
L’apporto migratorio è precipitato drasticamente da 1 milione di persone l’anno
fra il 2000 e il 2010 a meno di 400.000 fra il 2010 e il 2015. Che fare?
Il
dramma dei rifugiati potrebbe essere l’occasione, per gli europei, di uscire
dalle loro piccole diatribe e dal loro egocentrismo. Aprendosi al mondo,
rilanciando l’economia e gli investimenti (case, scuole, infrastrutture),
respingendo i rischi deflazionistici, l’Unione Europea potrebbe tornare senza
alcun problema ai livelli migratori registrati prima della crisi. L’apertura
manifestata dalla Germania al riguardo è una notizia ottima per tutti coloro
che si preoccupavano dell’ammuffimento e dell’invecchiamento dell’Europa.
Certo, qualcuno potrebbe sostenere che la Germania non ha scelta, tenuto conto
della sua bassissima natalità: secondo le ultime proiezioni demografiche
dell’Onu, che pure sono basate su un flusso migratorio due volte più elevato in
Germania che in Francia nei prossimi decenni, la popolazione tedesca passerebbe
dagli 81 milioni odierni a 63 milioni di qui alla fine del secolo, mentre la
Francia, nello stesso periodo, passerebbe da 64 a 76 milioni. Qualcuno potrebbe
ricordare anche che il livello di attività economica osservato in Germania è in
parte la conseguenza di un gigantesco surplus commerciale, che per definizione
non potrebbe essere esteso a tutta l’Europa (perché non ci sarebbe nessuno sul
pianeta in grado di assorbire una tale quantità di esportazioni). Ma questo
livello di attività si spiega anche con l’efficacia del modello industriale
tedesco, che si fonda in particolare su un fortissimo livello di coinvolgimento
dei dipendenti e dei loro rappresentanti (che hanno la metà dei seggi nei
consigli d’amministrazione), e a cui faremmo bene a ispirarci. Soprattutto,
l’atteggiamento di apertura verso il mondo manifestato dalla Germania invia un
messaggio forte agli ex Paesi dell’Europa dell’est membri dell’Unione Europea,
che non vogliono né bambini né migranti e la cui popolazione messa insieme,
sempre secondo l’Onu, dovrebbe passare dagli attuali 95 milioni a poco più di
55 entro la fine del secolo. La Francia deve rallegrarsi di questo
atteggiamento della Germania e cogliere l’opportunità per far trionfare in
Europa una visione aperta e positiva verso i rifugiati, i migranti e il mondo.
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