Ha scritto Curzio Maltese sul settimanale “il
Venerdì di Repubblica” del 2 di settembre ultimo nel “pezzo” che ha per titolo “Ma quelli del manifesto di Ventotene oggi
sarebbero manganellati in piazza”: (…). L'Europa che si è formata o deformata
in questi anni è la negazione assoluta
del progetto originario, federale e socialista. È una non federazione pensata e realizzata per rendere più ricche le nazioni dominanti,
la Germania in testa, e più povere le già povere (Grecia e tutto il Sud), per
aumentare l'ingiustizia sociale all'interno delle nazioni e per smantellare, insieme al welfare, un
secolo di conquiste sindacali, in nome di un sacro credo liberista. Non si
tratta di opinioni, ma di cifre e statistiche facilmente consultabili nella
biblioteca del parlamento europeo a Bruxelles. Che cosa c'entra tutto questo
col manifesto di Ventotene? Nulla. Ed è il nulla infatti che i tre spinelliani
immaginari (Angela Merkel, Francois Hollande e l’uomo venuto da Rignano
sull’Arno n.d.r.) hanno celebrato davanti alle telecamere, mentre dietro Hollande e
Renzi trattavano piccoli favori con la Merkel, in cambio di grandi, per non
perdere le prossime elezioni. Che è un po' come negoziare un posto più vicino all'orchestra
sul Titanic. L'immagine dello show è un'Europa vecchia, stanca e cinica che
corre a imbellettarsi per rispondere allo schiaffo terribile della Brexit, senza
riuscire per questo a sembrare né più giovane né più attraente, ma al contrario
ancora più decrepita. Per quanto può durare senza cambiare davvero nulla? Nessuno
può saperlo, ma forse neppure un'altra legislatura europea. È solamente
patetica ed al contempo tragica la politica seguita e messa in atto da quei
figuri sulla tolda di una nave da guerra. Quegli stolti hanno dimenticato la
lezione della Storia, hanno dimenticato quanto dolore e morte l’ottusità di una
certa politica – magistralmente denunciata da Curzio Maltese - hanno portato
nella culla della civiltà, l’Europa. Hanno dimenticato gli stolti quanto quell’immenso
Bertold Brecht ci ha lasciato quale perenne memoria: “Prima di tutto vennero a
prendere gli zingari. E fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a
prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a
prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi
vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero
comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a
protestare”.
Nell’Europa della cristianità, nell’Europa dei “lumi”,
nell’Europa del più avanzato movimento operaio e di classe, in questa Europa di
beceri politicanti, l’orrore denunciato da quell’immenso sembra non più essere
ascoltato. Ma accade, come per un miracolo, nel mentre si è preda di tanta
avanzante barbarie, che giunga nelle nostre vite una inattesa corrispondenza
all’altra parte dell’Atlantico a firma di Federico Rampini, corrispondenza
pubblicata sull’ultimo numero del settimanale “D” del 3 di settembre,
corrispondenza che apre alla speranza affinché quella barbarie non abbia a
compiere il suo mortale e nefasto percorso. Ha scritto Federico Rampini in “Il talento di Ahmed, che l’America non si
sa meritare”: (…). Donald Trump non c'entra, stavolta. Ma i suoi ammiratori e seguaci
sì. Sono loro ad avere avuto l'ultima parola, nella vicenda cominciata il 15
settembre dell'anno scorso. Quel giorno nel liceo di Irving, una cittadina del
Texas vicino a Dallas, il 14enne Ahmed Mohamed arriva in classe portando il
frutto di un suo progetto: appassionato di piccoli lavori ingegneristici, ha
messo a punto da solo un orologio digitale. In una scatola a parte ha messo i
cavetti che servono a collegarlo alla presa elettrica. Una prof d'inglese vede
quei fili che escono dalla scatola, squadra Ahmed: bruno, capelli ricci
nerissimi, le sue origini etniche sono inconfondibili (il padre è un arabo del
Sudan, fuggito con la famiglia negli Stati Uniti per salvarsi dalle
persecuzioni religiose). Altri prof di quella scuola conoscono le prodezze
tecniche di Ahmed, spesso gli chiedono di aggiustargli computer e smartphone.
Ma l'insegnante d'inglese non sa, e lancia l'allarme: bomba in classe. Arriva
la polizia, Ahmed viene ammanettato e portato via. In commissariato lo
interrogano senza la presenza di un legale. E anche se viene rilasciato dopo
poche ore, arriva la sanzione dalla scuola: sospensione disciplinare. Della
storia si accorge il quotidiano Dallas Morning News. Poi un blogger
specializzato in tecnologia, Anil Dash. Il caso diventa virale, nelle prime 24
ore dalla notizia, un milione di americani esprimono la loro solidarietà con
l'adolescente, twittando #IstandwithAhmed, "io sto con Ahmed". Fino
ad attirare l'attenzione di Obama, di Zuckerberg, e di tanti altri. Il
ragazzino geniale viene invitato alla Nasa. Partecipa a una conferenza dell'Onu
al Palazzo di Vetro. Altro che ammanettarlo, l'America progressista ne vuol
fare un modello per tanti suoi coetanei. Ma l'attenzione di quest'America si
dilegua col passare dei mesi. Le subentra un'altra nazione, feroce e crudele,
la sua gemella nemica. Razzista, islamofoba, in cerca di vendette contro il
gesto pacificatore di Obama. Nei social media di destra cominciano le
insinuazioni: Ahmed e la sua famiglia sarebbero degli imbroglioni in cerca di
fama. Peggio, alcune teorie del complotto lo descrivono come un docile
strumento nelle mani di gruppi islamici che vogliono screditare la polizia del
Texas. Arrivano minacce, anche di morte. Via via che la storia di Ahmed
sparisce dalle prime pagine dei giornali, altri media più discreti ma tenaci se
ne impadroniscono. La trasformano in una controstoria. La notorietà diventa un
pericolo. Il ragazzino non regge allo stress, il padre teme per il suo
equilibrio. Arriva, benefica, l'offerta di una borsa di studio dalla Qatar
Foundation. I legali di Ahmed convocano una conferenza stampa e annunciano: la
famiglia si trasferisce a Doha. Trump non c'entra, col caso Ahmed, però ogni
giorno sdogana il razzismo, la xenofobia, l'islamofobia. Invoca esami di
religione alla frontiera Usa per tener fuori i musulmani. La fuga di Ahmed ci
ricorda che quando vince il pregiudizio e diamo la caccia ai diversi, alla fine
restiamo tutti un po' più poveri.
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