"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 2 novembre 2019

Memoriae. 15 «La normalità dell’uomo di consorteria».


La “memoria” di oggi risale al sabato 17 di settembre dell’anno 2011. L’Italia venuta fuori in questi anni può ben rispecchiarsi nelle parole di denuncia della “memoria”, anche – o soprattutto - nei suoi ultimi sviluppi. Scrivevo a quel tempo che “da che storia è storia, i demagoghi di qualsivoglia colore, i populisti più sfrontati, (…) hanno tentato e tentano di continuo d’instaurare un modello sociale caratterizzato dalla “ferinità” incontrollata tanto nelle idee quanto nei comportamenti degli umani”. Come non riconoscere in quelle “cose” scritte otto anni addietro l’aspetto più preoccupante che ha caratterizzato le vicissitudini del governo del “cambiamento”? Leggiamo la “memoria”:
Ho letto con grande interesse parte della lezione, che propongo di seguito alla Vostra amorevole attenzione, che il filosofo – o la filosofa - Roberta de Monticelli ha tenuto in Sassuolo nell’ambito delle manifestazioni del “Festival della filosofia” che è in corso in questi giorni in quel di Modena, Carpi e Sassuolo - www.festivalfilosofia.it -. Quella parte di lezione è stata pubblicata da “il Fatto Quotidiano” col titolo “La normalità di Gomorra”, che di seguito trascrivo in parte. Ho “conosciuto” Roberta de Monticelli attraverso il Suo lavoro “La questione morale” – Raffaello Cortina editore (2011) pagg. 186 € 14,00 –, tante volte citato nei post di questo blog, ed attraverso gli innumerevoli Suoi sempre dotti interventi sui quotidiani nazionali. Scrive alla pagina 50 di quel Suo straordinario lavoro: (…). …senso comune, o comune sentire, oggi da noi vuol dire essenzialmente comune volontà di partecipare al privilegio particolare: e di farlo coi mezzi da sempre propri dei sudditi, ovvero dello stato di servitù politica, e non dei cittadini, ovvero dei soggetti di una società civile in cui, come ci insegnavano a scuola, “lo Stato siamo noi”. Vale a dire con mezzi opposti a quelli della competizione leale e del merito specifico in presenza di regole: cioè con i mezzi servili più antichi dello scambio di favori, della raccomandazione, del ricatto, della protezione familistica o mafiosa ecc.(…). C’è tutto il Suo pensiero in quel breve passo di prosa. Emerge con forza la denunzia di quella che Roberta de Monticelli definisce, nella lezione di oggi, “la normalità dell’uomo di consorteria”, entro la quale “normalità” stanno sì le norme e le regole, ma sono le norme e le regole stabilite dai più forti, forti non nella fisica forza ma nel potere economico e di tutte quelle risorse, lecite ed illecite, che sono poi le risorse del comando per il comando e dell’asservimento degli altri nelle forme subdole che si sono materializzate in questa parte della Storia. Non è lecito rinchiudersi in orizzonti limitati ed angusti; la “normalità” delle consorterie è sempre esistita nel bel paese, ne è stata la forza perversa che ne ha condizionato lo sviluppo e la vita stessa in tutti i gangli nei quali essa si dipana. Sarebbe assurdo che si limitasse oggigiorno una tale forte denuncia solamente agli ultimi decenni, quelli caratterizzati da una certa infausta “scesa in campo”, quelli caratterizzati dall’opportunismo più sfrenato e senza vergogna alcuna, ovvero i decenni dell’effimero come condizione preminente e dirimente del vivere. Sarebbe un’illogica, falsa, antistorica, elitaria denunzia. Una speranza ci soccorre, e viene esplicitata nella lezione stessa: “il modello socratico di umanità è una possibilità” per gli umani, ed a quel modello vanno rivolte tutte le iniziative affinché esso diventi la “norma”, la regola della convivenza. Anche se gli spiriti primitivi che albergano negli strati più profondi della nostra innegabile “animalità” stanno lì sempre pronti ad avvalorare quanto dalla Monticelli stessa sostenuto, ovvero che il “modello socratico” potrebbe non rivelarsi come  “necessità della nostra natura”. Ma è proprio su questa ultima primitiva indisponibilità degli esseri umani che puntano da sempre, da che storia è storia, i demagoghi di qualsivoglia colore, i populisti più sfrontati, che hanno tentato e tentano di continuo d’instaurare un modello sociale caratterizzato dalla “ferinità” incontrollata tanto nelle idee quanto nei comportamenti degli umani. È proprio a quel sinistro disegno che bisognerà opporsi in nome di una umanità compiuta. Scrive Roberta de Monticelli: C’è normalità e normalità, nella vita quotidiana degli uomini. La Grecia ha inventato l’etica e la politica. E i nostri modelli educativi mirano a formare esseri umani capaci di libera decisione, di responsabilità, di veglia morale e riflessione critica – detto altrimenti, capaci di pensare con la propria testa. Ma la storia recente ci insegna che di questo tipo umano le comunità, anche quelle che hanno sviluppato istituzioni come la democrazia, possono facilmente fare a meno, come Aldous Huxley vide assai bene quando prospettò, in Brave New World, la sua società di ipnotizzati morali. La questione morale è in effetti una questione antropologica, nel senso che il modello socratico di umanità è una possibilità, ma certamente non una necessità della nostra natura. Una possibilità preziosa, tuttavia, di cui dobbiamo chiarire il fondamento, se vogliamo provare a combattere il progressivo affermarsi delle società di ipnotizzati morali, per i quali è normalità proprio quell’assenza di virtù socratiche che il Novecento ha fotografato nell’espressione banalità. Del male. L’uomo è animale normativo. Questo vuol dire che mentre gli altri primati vivono in base agli istinti, tutta la nostra vita è invece soggetta a norme. Bisognerebbe imparare a sentire, nella parola normalità, proprio il senso pervasivo della normatività radicata nel nostro comportamento quotidiano. Del resto, l’anima di ogni cultura – a cominciare dalla suo stesso scheletro, la lingua di quella cultura – è un’anima normativa, è in qualche modo coscienza di un dovuto. Nell’esempio della lingua lo si vede con la massima chiarezza. Nessuno parla come gli passa per la testa, perché non parlerebbe affatto. Parlare è piegarsi alle norme di senso della lingua in cui si parla. Questa è anche la ragione per la quale la degenerazione della lingua nello spazio della ragione pubblica è un sintomo così grave di declino della civiltà, perché eleva a normalità lo sgorbio, il solecismo, perfino l’osceno. (…). …è dai tempi di Socrate che noi conosciamo un modello di normalità umana che è centrato sul potere dell’interrogativo, sul fondamento delle norme. Socrate incentrò su questo potere la sua paideia, l’educazione dell’uomo alla ricerca dei fondamenti di giustificazione delle norme, di qualunque tipo, inclusi i nostri mores. È il modello della veglia morale: «Fatti non foste a viver come bruti…». Lungo la via di Socrate è cresciuto, nell’anima d’Europa, quasi tutto ciò per cui vale la pena di vivere: la libera ricerca nelle scienze, nelle arti, nell’etica, nel diritto, nella politica, nella religione. La normalità socratica è il rinnovamento morale quotidiano. In un certo senso è l’eterna giovinezza: in un senso opposto a quello della grottesca, scimmiesca simulazione di giovinezza che abbiamo sotto gli occhi nelle viziose gerontocrazie di oggi. La normalità come rinnovamento tende sempre a sclerotizzarsi nella normalità come routine. La veglia del dovuto tende sempre a decadere nel sonno del si fa così. Lo stupore e lo sdegno tendono sempre a spegnersi nell’indifferenza e nella rassegnazione. E questo è possibile proprio perché le società umane sono organizzate in modo cooperativo. Alla base della cultura c’è una mutazione genetica che ci rende animali cooperativi, a differenza degli altri primati (…). Ma la cooperazione funziona tanto nella giustizia quanto nell’ingiustizia – quello che cambia non è necessariamente l’efficienza dell’organizzazione, ma la distribuzione equa dei doveri e dei diritti. Da uno zero a un massimo di giustizia. Il fenomeno più palese della cooperazione senza giustizia è la consorteria, origine di ogni forma di criminalità organizzata, che è oggettivamente la tendenza a co-operare non nel rispetto del dovuto, ma conformemente al vantaggio dei cooperanti (qualunque sia lo svantaggio di terzi estranei). Il modello di normalità umana che sembra oggi dominante, almeno qui, è la normalità dell’uomo di consorteria. Questa coincide con la soggettività degli ipnotizzati morali. Al meglio, è semplicemente quella dell’uomo tribale o dell’uomo pre-moderno, che non ha ancora trovato se stesso come qualcosa di distinto dal noi collettivo, o l’ha perduto: l’uomo-massa. Al peggio, è la soggettività così caratteristica dei nostri giorni, per la quale non abbiamo ancora una parola, se non la banalizzazione della parola normale. È la normalità incosciente, nel senso letterale di priva di coscienza morale, letteralmente priva di ogni senso di (in)adeguatezza, priva perfino dell’ombra di un interrogativo. È la mentalità dell’esecutore di posizioni prese altrove, che sia poi quella del complice, del servitore o di quel mezzo fra i due che è il moderno servo dei potenti. È ovunque caratterizzata dalla perfetta assenza di una disponibilità personale a rispondere di decisioni, comportamenti o asserzioni – anche le proprie: esattamente come se fossero prese altrove. (…).

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