"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 23 marzo 2016

Lalinguabatte. 15 “Abdico questa mia umanità”.



Abdico questa mia “umanità”. Scrive Stefano Rodotà, sul quotidiano la Repubblica del 7 di dicembre dell’anno 2015 – “Di che cosa parliamo quando parliamo di umanità” -: (…). Si avvia (…) una costruzione dell’umanità “per sottrazione”, con una continua operazione di “scarto” di coloro i quali non sono ritenuti degni di farne parte. Ma questa non è una vicenda che possiamo consegnare al passato, per tranquillizzarci. Viviamo in società che producono quelle che Zygmunt Bauman ha definito “vite di scarto”, selezionate con criteri attinti unicamente dal processo produttivo. Ecco allora un orizzonte ingombro di poveri e disoccupati, precari e immigrati, persone alle quali vengono negate eguaglianza e dignità, destituite di umanità. (…). Abdico questa mia “umanità” che è stata costruita per via familiare, religiosa, culturale, sociale senza quel respiro universale che renda questa mia “umanità” partecipe di tutti gli avvenimenti storici del nostro tempo, che non riguardino solamente quelli della porta accanto o tutt’al più quelli che vivano nei limiti oramai ristretti che vanno dalle Alpi al Capo Lilibeo. Abdico questa mia “umanità” che piange, si dimena e si dispera, sotto l’abile copertura dei media, alle tragiche notizie delle giovinette morte nel corso di una gita in pullman, un mero incidente stradale, ma non tanto di più al cospetto delle innumerevoli morti avvenute in fondo al mare di quei migranti per fame, per guerre e per deprivazioni alle tante vite che non si possa dire che siano pienamente “umane”. Abdico questa mia “umanità” forgiata tutta da una storia più che millenaria di violenza e sottomissione nel nome delle colonizzazioni e della esportazione della nostra “civiltà” e di un messaggio religioso assolutista (mentre scrivo scorrono le immagini di quello straordinario documento cinematografico che è “Mission”, la colonizzazione spagnola del centro-America con il supporto vigoroso e colpevole della chiesa di Roma). Abdico questa mia “umanità” che nel tempo non ha costruito quelle condizioni materiali affinché anche al resto degli uomini e delle donne, in tutti gli angoli del pianeta, consentissero loro di muoversi liberamente e non sotto il ricatto della fame e della guerra e di godere dall’andare liberamente in giro per il mondo ed accedere ai luoghi nei quali si potesse rendere più leggera e più sostenibile l’umana esistenza, per come abitudini e civiltà che consideriamo per noi irrinunciabili hanno copiosamente diffuso in questa nostra parte del mondo. Scrive ancora Stefano Rodotà:
Alla sottrazione di diritti, che la costruzione per sottrazione dell’umanità implica, si oppone la riflessione di Hannah Arendt, che ci ricorda come «il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa». Ma come si definisce l’umanità? Chi parla in suo nome? Per rispondere, bisogna muovere da una premessa semplice, anche se impegnativa: può ritrovarsi umanità solo là dove eguaglianza, dignità e solidarietà trovano pieno riconoscimento. Troviamo un riferimento eloquente nelle parole dell’Internazionale: «L’Internazionale futura umanità», bella traduzione del testo originale, dove si dice «l’Internationale sera le genre humain». Perché sottolineare queste parole? Perché l’umanità è declinata al futuro, non è vista come la somma degli esseri viventi, come un semplice dato quantitativo, un insieme biologico, una realtà già esistente, di cui ci si può limitare a prendere atto. È qualcosa da costruire incessantemente attraverso l’azione comune e solidale di una molteplicità di soggetti, che producono non tanto un “valore aggiunto”, ma una realtà continuamente “aumentata”. È il processo al quale stiamo assistendo, quello di umanità che include e riconosce tutti gli altri, quasi capovolgendo la conclusione di Sartre, «l’inferno sono gli altri». Ma, con la globalizzazione, questa umanità si fa tutta presente, e può essere percepita come invadente. Ogni accadimento, per quanto lontano, ci fa partecipi di quel che accade alle persone colpite da un terremoto, o da uno tsunami, in luoghi che fino a ieri erano remoti e che il sistema della comunicazione avvicina e rende visibili. Questo provoca moti di solidarietà: basta digitare un numero sul cellulare per far arrivare un contributo finanziario all’alluvionato asiatico o al bambino africano. Se, però, queste persone si materializzano ai nostri confini, possono diventare oggetto di rifiuto. È così per i migranti, per i poveri, visti come aggressori o incomodi. Così gli altri tornano ad essere segni d’un inferno al quale si vuole sfuggire. Di colpo l’umanità si scompone e si immiserisce. Quella lontana suscita ancora sentimenti e azioni solidali, quella vicina turba. L’idea di “prossimo” si rattrappisce, sembra addirittura morire. Al suo posto troviamo spesso comunità chiuse. Ma questa constatazione, ci conferma che l’umanità è una costruzione ininterrotta, non un approdo consolatorio. Vi sono usi di “umanità” che la costruiscono come un riferimento capace di sottrarci a sopraffazioni. Quando si parla di patrimoni dell’umanità, si sfidano sovranità e proprietà, che vorrebbero sottoporre al potere e agli egoismi degli Stati e dei privati pezzi del mondo, e persino ciò che è fuori di esso come spazio e tempo. (…). L’eguaglianza nell’accesso ai vantaggi incessantemente offerti dalla tecnoscienza è condizione indispensabile perché non nasca una società “castale”. La dignità è limite invalicabile, perché proprio qui, reagendo alle aggressioni di ieri e alle negazioni di oggi, possiamo ritrovare il proprio dell’umano. Abdico questa mia “umanità”. Ha scritto Massimo Fini – “Le parole nel vuoto di papa Bergoglio” – il 14 di febbraio dell’anno 2015: Papa Bergoglio è l'ultimo comunista rimasto al mondo, almeno in quello occidentale. Nel suo videomessaggio del 7 febbraio inviato ai partecipanti (grandi imprenditori, manager, politici) a “Le idee di Expo 2015” dedicato al cibo, Bergoglio ha affermato: “No a un’economia dell'esclusione e dell'iniquità. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in Borsa. Questo è il frutto della legge di competitività per cui il più forte ha la meglio sul più debole”. E ancora: “Ci sono alcune scelte prioritarie da compiere: rinunciare all'autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e agire innanzitutto sulle cause strutturali dell'iniquità”. Il Sommo Pontefice non lo può fare apertamente ma questo, fra le righe, è un attacco frontale al mercato, al denaro, all’”economia di carta” per usare un titolo di un famoso saggio di D.T. Bazelon del 1964, che sono proprio le “cause strutturali dell'iniquità” che Bergoglio denuncia. È questo tipo di economia che riduce alla fame, su cui si spargono tante lacrime di coccodrillo, i Paesi poveri (e gli stessi poveri dei Paesi ricchi). L'esempio emblematico è quello dell'Africa Nera. Ai primi del 900, con le sue economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) l'Africa era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%), nel 1961. Ma da quando ha cominciato a essere aggredita dall'integrazione economica – prima era considerata un mercato del tutto marginale e poco interessante – le cose sono precipitate. L'autosufficienza è scesa all'89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere quello che è successo dopo non sono necessarie le statistiche: basta guardare le drammatiche immagini che ci vengono dal Continente Nero e i suoi disperati flussi migratori. Eppure in questo stesso periodo la produzione mondiale dei cereali di base, riso, grano e mais, è aumentata rispettivamente del 30, 40 e 50% e una crescita, sia pur modesta, della produzione di questi alimenti c'è stata anche in Africa. Ma gli africani, come tanta altra gente dei Paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, muoiono lo stesso di fame. Perché in un’economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo non va dove ce n'è bisogno, ma dove c'è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e in generale al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che il 66% della produzione mondiale dei cereali è destinato all’alimentazione degli animali dei Paesi ricchi (dati Fao). Il paradosso dei paradossi è che i poveri del Terzo Mondo sono costretti a vendere alle bestie occidentali il cibo che potrebbe sfamarli. È la legge del mercato e del denaro. Non si tratta quindi di portare ai Paesi poveri i nostri pelosi “aiuti”, che anzi, integrandoli ancor più nel mercato globale, finiscono per strangolarli del tutto. Non si tratta di “salvare” nessuno. L'Africa, come s'è visto, stava molto meglio quando si salvava da sola. Si tratta di cambiare radicalmente l'orientamento del nostro pensiero – sulla linea di Bergoglio – rimettendo al centro del sistema l’uomo e relegando l'economia al ruolo secondario che ha sempre avuto prima che apparisse come forte classe sociale il mercante, precursore della più odiosa di tutte le figure, l'imprenditore (che si spellava le mani al messaggio di Bergoglio) da cui quasi tutti noi oggi dipendiamo come “schiavi salariati”. Una mission impossibile di fronte alla quale anche quelle di un Papa sono parole al vento. Abdico questa mia “umanità”.

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