"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 26 dicembre 2025

MadeinItaly. 73 Giuseppe Gioachino Belli: «Er Papa ride? Male, amico, è segno / che a momenti er su popolo ha da piagne. Sovrani in alegria so' brutti esempi. / Chi ride cosa fa? Mostra li denti».


(…). L'ascesa immobiliar-gentilizia di Salvini si è subito trascinata dietro un vecchio video social in cui il Capitano - già finto povero, ma gli riusciva benissimo - proponeva ai suoi gonzi follower un'orgogliosa e impudica visita guidata in quello che con una punta di risentimento presentò come «il mio prezioso bilocale»: il cucinotto, il salottino, il lampadario della nonna, gli abiti della tintoria appesi alle maniglie dell'armadio, la canna da pesca in corridoio, il terrazzino che dava su un cortile della periferia di Milano. Altri tempi, ma che ci vuoi fare? Per cui cercando invano una degna foto di villa Salvini (e Verdini, intesa come Francesca, a sua volta cresciuta nella splendida villa toscana di babbo Denis) viene voglia semmai di tenerla alta: «Di ville! Di villule! Di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici delle ville», come scrisse Carlo Emilio Gadda ne La cognizione del dolore; aiutati in questo dalla convinzione che tutto passa, figurarsi le ville di lotta e di governo. Si affollano intanto le ombre e le stravaganze per una possibile elegia villereccia e castale. L'affarone dei La Russa & Santanchè a Forte dei Marmi, il pollaio degli struzzi di villa Angelucci, il trattorino in dono e la gabbia dei pappagalli a villa Rodella-Galan, il reddito recato all'ex Elevato Grillo da villa Corallina sulla spiaggia di Bibbona. Ma siccome qui la commedia sempre prevale su ogni mestizia, un pensiero va alla famiglia di rom che si regalò un'ignara vacanzetta nella villa in Sardegna dove soggiornava il Celeste Formigoni. (Tratto da “Elegia villereccia” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 19 di dicembre 2025).

“Palazzo e avanspettacolo”, pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 20 di dicembre 2025: Che non suoni troppo gravoso o troppo saccente, ma ogni volta che i politici fanno gli spiritosi - e succede spesso - viene da pensare a ciò che scrisse Giacomo Leopardi a proposito del nostro popolo, che qualche riga più sotto definisce "popolaccio". E dunque: "Gli italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza, che non fa niun'altra nazione". Ma siccome la si è presa un po' alla larga, ecco che passando dal laboratorio identitario leopardiano alle grevi, ma assai ben recitate barzellette di Berlusconi, alla stranianti metafore di Bersani, alle tosco-freddure di Renzi, ai siparietti gastro-social di Salvini, alle bimbe di Conte, ai saltelli da Orso Yoghi di Tajani e all'indubbio istrionismo che periodicamente porta la premier Meloni a strabuzzare gli occhi: «Regà!», interrompendo le conferenze stampa perché le scappa la pipì o coprendosi la testa dentro il soprabito nell'aula di Montecitorio...

E insomma, dinanzi a questa raffica di allegria che proviene dai vertici politici e istituzionali, occorre integrare Leopardi con l'osservazione di un altro grande e caustico poeta dell'8oo, Giuseppe Gioachino Belli, al quale dobbiamo un rimarchevole point of view sul buonumore dei potenti: "Er Papa ride? Male, amico, è segno/ che a momenti er su popolo ha da piagne". Il sonetto ha come titolo Le risate der Papa, che ai tempi del Belli restava pur sempre un sovrano assoluto. Dal che l'illuminante conclusione di quei versi: "Sovrani in alegria so' brutti esempi. / Chi ride cosa fa? Mostra li denti". Sarà bene far presente, in questo caso con il soccorso dell'antropologia, che come tutte le cose vitali l'umorismo è una potenza sacra e ambivalente, cioè creativa e distruttiva a un tempo; e se i politici che fanno ridere in genere lo fanno per farsi amare, è pur vero che occorre sempre ridere alle spalle del nemico e nessuna folla resiste a sfogarsi su qualche capro espiatorio. A ripensarci con il senno di poi, le condizioni per il crollo della Prima Repubblica cominciarono ad allinearsi allorché i personaggi della vita pubblica, in simultanea e in parallelo, presero a darsi in pasto a un calcolato dileggio. Così da una parte leader e ministri della maggioranza di governo si distinsero in canti, danze e sciagurate prove atletiche sul proscenio di trasmissioni tv come Cipria o Biberon, fino all'abisso delle "torte in faccia" distribuite da Pippo Franco al Bagaglino. Così come nel mondo comunista ormai in crisi esistenziale, si aprì una sintomatica stagione di auto-satira culminata nella copertina di Cuore, nato come inserto (verdolino) dell'Unità, da cui si affacciò l'allora segretario Natta costretto a ballare nudo mentre Craxi suonava la fisarmonica. Dilla poco venne giù tutto, ma non appena la lunga transizione parve interrompersi con l'avvio del ciclo di potere berlusconiano, le risate si moltiplicarono fino a trasformare la vita pubblica in una specie di carnevale senza Quaresima. Del tutto incurante di essere canzonato come uno "statista da avanspettacolo", a capo di una "Repubblica fescennina" o di finire col naso rosso e in vesti di clown sulle copertine dei magazine internazionali, fin dagli esordi Silvione intensificò uno stile di governo fatto di sorrisi, battute, frizzi, motti, facezie, scherzi, giochi, scenette, finte gaffe, doppi sensi, imitazioni, spiritosaggini. E anche, i confini fra i generi essendo comunque labili, vere buffonerie e obiettive pagliacciate. Mai come nel caso del Cavaliere, che bene o male proveniva dal mondo dello spettacolo e in ogni caso era simpatico e sapeva mobilitare quelle corde, l'umorismo si rivelò un dispositivo strategico, vero e proprio instrumentum regni utilizzato per sciogliere il ghiaccio, scaldare le platee, armonizzare i conflitti, ma soprattutto far venire allo scoperto critiche che sulla bocca degli avversari gli avrebbero fatto più male. In tal modo egli preveniva e al tempo stesso la buttava in caciara facendo suo il potenziale disprezzo per anticiparlo, addomesticarlo e neutralizzarlo secondo un precetto che Shakespeare, mica pizza&fichi, aveva già sintetizzato come meglio non si sarebbe potuto: "Vivi sicuro nella vergogna. Ferito di beffa, fiorisci di beffa". Durò dunque quello che doveva durare, alla fine tra scandali sessuali e disastri economici, anche troppo - per quanto quelle risate suscitino oggi una qualche nostalgia. Ma nel ricordo comprensibilmente edulcorato dell'età berlusconiana si tende di solito a sottovalutare quanto il contagio ridanciano sfruttato a piene mani dal Cavaliere abbia contribuito a rassodare e concimare il terreno per la seguente irruzione di un buffone, Beppe Grillo, che dell'arte di far ridere le moltitudini scagliandosi selvaggiamente contro questo o quello aveva le caratteristiche professionali: voce, tempi, ritmi, smorfie, istinto predatorio. Con il che per qualche anno il partito di maggioranza relativa è risultato in Italia quello fondato e guidato da un attore comico, il quale a sua volta è stato drammaticamente esautorato - a conferma del nesso che dalle nostre parti sempre esiste tra buffoneria e catastrofe, pubblica e privata. E qui si potrebbe perfino chiudere il cerchio ritornando a Leopardi e al suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani (1824), i quali, ieri come oggi "passano il loro tempo a deridersi e a pungersi sino al sangue". Ma forse è più utile, per quanto niente affatto consolatorio, notare come nel frattempo l'osmosi tra il Re e il Buffone si sia compiuta - e quando c'è da ridere non sai bene se davvero ne valga la pena.

N.d.r. I testi sopra riportati sono a firma di Filippo Ceccarelli.

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