(…). L'ascesa immobiliar-gentilizia di Salvini si è subito
trascinata dietro un vecchio video social in cui il Capitano - già finto
povero, ma gli riusciva benissimo - proponeva ai suoi gonzi follower
un'orgogliosa e impudica visita guidata in quello che con una punta di
risentimento presentò come «il mio prezioso bilocale»: il cucinotto, il
salottino, il lampadario della nonna, gli abiti della tintoria appesi alle
maniglie dell'armadio, la canna da pesca in corridoio, il terrazzino che dava
su un cortile della periferia di Milano. Altri tempi, ma che ci vuoi fare? Per
cui cercando invano una degna foto di villa Salvini (e Verdini, intesa come
Francesca, a sua volta cresciuta nella splendida villa toscana di babbo Denis)
viene voglia semmai di tenerla alta: «Di ville! Di villule! Di villoni ripieni,
di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di
rustici delle ville», come scrisse Carlo Emilio Gadda ne La cognizione del
dolore; aiutati in questo dalla convinzione che tutto passa, figurarsi le ville
di lotta e di governo. Si affollano intanto le ombre e le stravaganze per una
possibile elegia villereccia e castale. L'affarone dei La Russa & Santanchè
a Forte dei Marmi, il pollaio degli struzzi di villa Angelucci, il trattorino
in dono e la gabbia dei pappagalli a villa Rodella-Galan, il reddito recato
all'ex Elevato Grillo da villa Corallina sulla spiaggia di Bibbona. Ma siccome
qui la commedia sempre prevale su ogni mestizia, un pensiero va alla famiglia
di rom che si regalò un'ignara vacanzetta nella villa in Sardegna dove
soggiornava il Celeste Formigoni. (Tratto da “Elegia villereccia”
pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 19 di dicembre 2025).
“Palazzo e avanspettacolo”, pubblicato sul settimanale “d” del
quotidiano “la Repubblica” del 20 di dicembre 2025: Che non suoni troppo
gravoso o troppo saccente, ma ogni volta che i politici fanno gli spiritosi - e
succede spesso - viene da pensare a ciò che scrisse Giacomo Leopardi a
proposito del nostro popolo, che qualche riga più sotto definisce
"popolaccio". E dunque: "Gli italiani ridono della vita: ne
ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza,
che non fa niun'altra nazione". Ma siccome la si è presa un po' alla
larga, ecco che passando dal laboratorio identitario leopardiano alle grevi, ma
assai ben recitate barzellette di Berlusconi, alla stranianti metafore di
Bersani, alle tosco-freddure di Renzi, ai siparietti gastro-social di Salvini,
alle bimbe di Conte, ai saltelli da Orso Yoghi di Tajani e all'indubbio istrionismo
che periodicamente porta la premier Meloni a strabuzzare gli occhi: «Regà!»,
interrompendo le conferenze stampa perché le scappa la pipì o coprendosi la
testa dentro il soprabito nell'aula di Montecitorio...
E insomma, dinanzi a
questa raffica di allegria che proviene dai vertici politici e istituzionali,
occorre integrare Leopardi con l'osservazione di un altro grande e caustico
poeta dell'8oo, Giuseppe Gioachino Belli, al quale
dobbiamo un rimarchevole point of view sul buonumore dei potenti: "Er Papa
ride? Male, amico, è segno/ che a momenti er su popolo ha da piagne". Il
sonetto ha come titolo Le risate der Papa, che ai tempi del Belli restava pur
sempre un sovrano assoluto. Dal che l'illuminante conclusione di quei versi:
"Sovrani in alegria so' brutti esempi. / Chi ride cosa fa? Mostra li
denti". Sarà bene far presente, in questo caso con il soccorso
dell'antropologia, che come tutte le cose vitali l'umorismo è una potenza sacra
e ambivalente, cioè creativa e distruttiva a un tempo; e se i politici che
fanno ridere in genere lo fanno per farsi amare, è pur vero che occorre sempre
ridere alle spalle del nemico e nessuna folla resiste a sfogarsi su qualche
capro espiatorio. A ripensarci con il senno di poi, le condizioni per il crollo
della Prima Repubblica cominciarono ad allinearsi allorché i personaggi della
vita pubblica, in simultanea e in parallelo, presero a darsi in pasto a un
calcolato dileggio. Così da una parte leader e ministri della maggioranza di
governo si distinsero in canti, danze e sciagurate prove atletiche sul
proscenio di trasmissioni tv come Cipria o Biberon, fino all'abisso delle
"torte in faccia" distribuite da Pippo Franco al Bagaglino. Così come
nel mondo comunista ormai in crisi esistenziale, si aprì una sintomatica
stagione di auto-satira culminata nella copertina di Cuore, nato come inserto
(verdolino) dell'Unità, da cui si affacciò l'allora segretario Natta costretto
a ballare nudo mentre Craxi suonava la fisarmonica. Dilla poco venne giù tutto,
ma non appena la lunga transizione parve interrompersi con l'avvio del ciclo di
potere berlusconiano, le risate si moltiplicarono fino a trasformare la vita
pubblica in una specie di carnevale senza Quaresima. Del tutto incurante di
essere canzonato come uno "statista da avanspettacolo", a capo di una
"Repubblica fescennina" o di finire col naso rosso e in vesti di
clown sulle copertine dei magazine internazionali, fin dagli esordi Silvione
intensificò uno stile di governo fatto di sorrisi, battute, frizzi, motti, facezie,
scherzi, giochi, scenette, finte gaffe, doppi sensi, imitazioni,
spiritosaggini. E anche, i confini fra i generi essendo comunque labili, vere
buffonerie e obiettive pagliacciate. Mai come nel caso del Cavaliere, che bene
o male proveniva dal mondo dello spettacolo e in ogni caso era simpatico e
sapeva mobilitare quelle corde, l'umorismo si rivelò un dispositivo strategico,
vero e proprio instrumentum regni utilizzato per sciogliere il ghiaccio,
scaldare le platee, armonizzare i conflitti, ma soprattutto far venire allo
scoperto critiche che sulla bocca degli avversari gli avrebbero fatto più male.
In tal modo egli preveniva e al tempo stesso la buttava in caciara facendo suo
il potenziale disprezzo per anticiparlo, addomesticarlo e neutralizzarlo
secondo un precetto che Shakespeare, mica pizza&fichi, aveva già
sintetizzato come meglio non si sarebbe potuto: "Vivi sicuro nella
vergogna. Ferito di beffa, fiorisci di beffa". Durò dunque quello che
doveva durare, alla fine tra scandali sessuali e disastri economici, anche
troppo - per quanto quelle risate suscitino oggi una qualche nostalgia. Ma nel
ricordo comprensibilmente edulcorato dell'età berlusconiana si tende di solito
a sottovalutare quanto il contagio ridanciano sfruttato a piene mani dal
Cavaliere abbia contribuito a rassodare e concimare il terreno per la seguente
irruzione di un buffone, Beppe Grillo, che dell'arte di far ridere le moltitudini
scagliandosi selvaggiamente contro questo o quello aveva le caratteristiche
professionali: voce, tempi, ritmi, smorfie, istinto predatorio. Con il che per
qualche anno il partito di maggioranza relativa è risultato in Italia quello
fondato e guidato da un attore comico, il quale a sua volta è stato
drammaticamente esautorato - a conferma del nesso che dalle nostre parti sempre
esiste tra buffoneria e catastrofe, pubblica e privata. E qui si potrebbe
perfino chiudere il cerchio ritornando a Leopardi e al suo Discorso sopra lo
stato presente dei costumi degl'italiani (1824), i quali, ieri come oggi
"passano il loro tempo a deridersi e a pungersi sino al sangue". Ma
forse è più utile, per quanto niente affatto consolatorio, notare come nel
frattempo l'osmosi tra il Re e il Buffone si sia compiuta - e quando c'è da
ridere non sai bene se davvero ne valga la pena. N.d.r. I testi sopra riportati sono a firma di Filippo Ceccarelli.
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