Scrive Pirandello: "I vivi credono di piangere i loro morti,
invece piangono una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di
quelli che se ne sono andati". Quello che noi dimentichiamo è che, oltre
al nostro Io, siamo abitati da un'altra soggettività sotterranea, solitamente
non pensata e quindi inconscia, che ci prevede come funzionari della specie, la
quale, per la sua conservazione, esige la morte dei singoli individui. Questa
concezione, che gli antichi Greci avevano ben presente al punto da nominare
l'uomo col termine "mortale", è stata ignorata dalla tradizione
giudaico-cristiana che, dopo aver identificato Dio con il "Vivente"
(Deut., 5,23), ha individuato nella morte la sua peggior nemica. Di qui la
resurrezione di Cristo, avvenuta la quale, Paolo di Tarso può dire "O
morte dov'è la tua vittoria? O morte dov'è il tuo pungiglione?" (1 Cor.,
15,55). (…). Marx, che conosceva la cultura greca, come dimostra la sua tesi di
laurea sulla Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di
Epicuro, scrive: "La morte appare una dura vittoria della specie
sull'individuo, e una contraddizione della loro unità". Per cui la
contrapposizione non è tra "la vita e la morte" come vuole la
concezione cristiana, ma tra "la vita e la vita": la vita della
natura che per la sua perpetuazione esige la morte delle singole esistenze, e
le singole esistenze che, per vivere, devono allontanare, per quanto è
possibile, la morte. Anche se poi è l'economia della specie che alla fine ha la
partita vinta sull'economia dell'individuo. (…). Un giorno un mio amico e
professore di estetica Raffaele Perrotta, mi riassunse così l'essenza della
cultura greca: "Chi conosce il suo limite non teme il destino". Nel
nostro caso chi non accetta il limite della condizione umana non può evitare
l'angoscia di fronte alle domande ultime che, proprio perché non si è accettato
il limite, sono senza risposta, per quanto disperatamente la si cerchi. E non è
un rimedio non affezionarsi troppo alle persone per non soffrire della loro perdita,
innanzitutto perché non sappiamo se ce ne andiamo prima noi o prima loro, e poi
perché non è atrofizzando il cuore che si raggiunge la gioia e la serenità che
la vita, accolta nel suo limite, ci concede. (Tratto da “La lezione
dei greci per non temere il destino” di Umberto Galimberti, pubblicato sul
settimanale “D” del 26 di gennaio dell’anno 2013).
“C’era una volta la verità”, testo della intervista di Marco
Bracconi a Umberto Galimberti pubblicata sul settimanale “il Venerdì di
Repubblica” del 28 di novembre 2025: (…). «Io sono greco, penso come un
greco, (…). Sperare vuol dire porre le condizioni per la disperazione, (…). Se
dico che sono greco è perché sull'essere umano ragiono come loro: l'uomo è
mortale. Una verità che, imbevuti di cristianesimo e platonismo, non vogliamo
vedere. Continuiamo ad assecondare un'idea secondo cui il futuro viene a sanare
i guasti del passato. E ci affidiamo alla speranza, che è una categoria vuota».
(…). Facciamo che sono un suo studente. Mi spiega in una riga
cos'è la verità? «La verità è una storia alla quale ogni epoca e cultura cambia
il significato».
Due esempi. «La verità come azione, fare, della tradizione
ebraica, la verità come esattezza dell'epoca scientifica, quella delle ipotesi
fatte dall'uomo e poi messe alla prova della natura. Dopo questa fase, che dura
un bel po', addio antropocentrismo».
E anche fine di ogni umanesimo. «Esatto. L'uomo esce dalla
Storia. Per non rientrarci più».
Ne riparliamo tra poco. A quale filosofo telefono per farmi
spiegare la verità del populismo? «A Platone. La persuasione serve sia alle
parole di verità che a quelle per l'inganno. Chi possiede l'arte della
persuasione ha in mano il timone per condurre la vita degli altri secondo i
propri disegni. Poi quando perfino la persuasione cede, arriva la forza. Ha
ragione chi è più forte».
Ci siamo? «Eccome».