“Bloch Notes”,
testo del colloquio di Marco Cicala con Suzette Bloch – nipote di Marc Leopold
Benjamin Bloch – pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 19
di aprile 2024: Lione. La baracca dove ammassavano gli ebrei è stata rimossa dal
cortile, ma tutto il resto è rimasto praticamente uguale. I ballatoi, i
catenacci, gli spioncini, le latrine, le porte, le grate… Tra il febbraio 1943
e la Liberazione della Francia, agosto 1944, dal carcere lionese di Montluc –
oggi “luogo di memoria” – passarono diecimila persone. Molte dirette verso i
campi della morte, altre liquidate prima del viaggio. Benché i tedeschi
avessero trasformato in galera qualsiasi locale del vecchio forte militare
(refettori, docce, officine, cantine), le celle erano ufficialmente 122,
distribuite su tre piani. Ognuna di quattro metri quadri. Accalcati dentro,
otto prigionieri. Nei momenti di massimo affollamento l’edificio arrivò a
contenerne 1.300: partigiani, ebrei o gente arraffata nei rastrellamenti per
essere fucilata in caso di rappresaglie. Se le feritoie di Montluc fossero
occhi avrebbero visto avvicendarsi un lugubre corteo di bambini, donne, vecchi,
francesi, immigrati, artigiani, operai, contadini, preti, monache, impiegati,
avvocati, militari… O professori come Marc Bloch, che la sera del 16 giugno di
ottant’anni fa – dieci giorni dopo lo sbarco alleato in Normandia – venne
portato via da qui con altri 29 detenuti. Il più anziano del gruppo era lui, 57
anni, il più giovane un diciannovenne. Ammanettati due a due, furono spinti su
camion coperti. Il tragitto durò un’oretta. Si concluse su una radura in
località Saint-Didier-de-Formans. A far partire le raffiche furono quattro
uomini, due in uniforme tedesca, due in borghese. Una seconda sventagliata di
mitra mise fine ai gemiti dei corpi ammucchiati nel buio primaverile. Con la
strage si vendicava un’imboscata partigiana avvenuta nei dintorni la settimana
precedente. Dei trenta ostaggi ammazzati, quattro non hanno ancora un nome;
sebbene gravemente feriti, due riuscirono invece a scamparla fingendosi morti.
E avrebbero raccontato. Pare che poco prima degli spari, il professor Bloch
abbia detto al ragazzino che gli tremava accanto: «No, petit, non farà male»,
per poi cadere gridando: «Vive la France!». Trattasi di una leggenda
martirologica. Dunque da prendere o lasciare. Anche se quell’ultimo fotogramma
fosse inventato, il sacrificio del professeur non ne uscirebbe diminuito. Però
è singolare che un racconto mitico avvolga proprio Marc Bloch, cioè un grande
storico, per alcuni il maggiore del Novecento, che con intuizione e metodo
pionieristici aveva frugato nelle leggende – remote e moderne – ritenendo che
non andassero snobbate con boria scientista, ma al contrario analizzate in
quanto preziosissimi rivelatori di mentalità, psicologie collettive, visioni
del mondo. È perciò con assoluta coerenza che in un profetico scritto del 1921,
Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra, Bloch dissezionava
le “fake news” raccolte sul fronte del primo conflitto mondiale – da cui era
tornato pluridecorato – e nel successivo I re taumaturghi, suo esordio
saggistico (1924), scandagliava i “miracolosi” poteri di guarigione dalla
“scrofola” (tubercolosi delle ghiandole linfatiche) attribuiti nel Medioevo ad
alcuni sovrani di Francia e Inghilterra. Insomma, per Marc Bloch le leggende
possono e devono servire alla ricerca di una verità storica. Nel testamento
datato 1940 lasciò scritto: «Desidererei che la mia tomba, quale unico motto,
portasse incise queste semplici parole: Dilexit veritatem». “Ha amato la
verità” si legge sulla lastra del piccolo cimitero di campagna a Fougères,
nella Francia centrale. Ricordi di famiglia. Marc Léopold Benjamin Bloch
proveniva da una famiglia ebraica, ma non praticante, di optants alsaziani,
ossia coloro che in quella regione contesa con la confinante Germania avevano
optato per la nazionalità francese dopo la guerra del 1870. Dalla moglie
Simonne Vidal ebbe sei figli. Louis era il terzo, padre di Suzette, che
incontro nel suo appartamento parigino. Prima di ricevermi ha messo le mani
avanti: «Venga, ma la deluderò. Non ho granché da raccontare». Mi spiega che le
memorie dei Bloch sono frantumate, la guerra ha flagellato il nucleo familiare
con accanimento: «Non ho conosciuto i miei nonni, sono arrivata dopo. Di come
erano so solo quel che ho ascoltato in famiglia o che si può ricostruire dalle
poche lettere, foto, documenti rimasti. Ho ricordi d’infanzia della famosa
casa-biblioteca di Marc Bloch a Parigi, in rue de Sèvres, ormai spoglia,
depredata dai tedeschi, che avevano piazzato una contraerea sul tetto. Ho anche
soggiornato nella dimora di villeggiatura a Fougères. In una piccola dependance
accanto all’orto Bloch scrisse libri importanti come La società feudale e La
strana disfatta. Quando ci entrai, il suo studio aveva un aspetto polveroso, ma
era bello acciambellarsi sul vecchio lettino di velluto rimasto ai piedi della
biblioteca». Che cosa ha potuto scoprire sulla morte del nonno? «Le circostanze
dell’arresto e dell’uccisione restano oscure. In pochi mesi era diventato un
alto responsabile della Resistenza. Nel marzo del ’44 fu catturato e torturato
dalla Gestapo. Non è escluso che a rivelarne il nascondiglio sia stato qualcuno
di cui si fidava, forse un suo nipote, a sua volta partigiano, preso e fatto
parlare dai tedeschi. Nel caos della guerra i Bloch si dispersero. I tre figli
più grandi, tra cui mio padre, scelsero la lotta armata e vissero da
combattenti le traversie della Liberazione. Gli altri sfuggirono alle
persecuzioni trovando rifugio presso famiglie. Nonna Simonne morì di malattia
in un ospedale di Lione qualche settimana dopo l’esecuzione del marito, di cui
non aveva più notizie. Siccome si nascondeva sotto falso nome, fu gettata in
una fossa comune. Per questo le sue spoglie perdute non riposano accanto a
quelle di Marc Bloch. La sorella di Simonne non tornò da Auschwitz e il marito
di lei venne fucilato». Storico rivoluzionario, insegnante engagé, martire
della Resistenza: come si coabita con un’eredità del genere? «Noi nipoti siamo
cresciuti con i valori blochiani dello spirito critico, dell’impegno
democratico, della libertà di pensiero» dice Suzette «ma in famiglia quel
lascito è sempre stato temperato da una discrezione e da un pudore atavici che
in un certo senso stridevano con l’immagine eroica del Marc Bloch gloria
nazionale. E non perché quell’immagine sia falsa, ma perché ha rischiato spesso
di finire preda della retorica patriottarda, strumentalizzata dalla politica:
oggi quella del presidente-banchiere Emmanuel Macron, ma prima di lui ci aveva
già provato Nicolas Sarkozy, per non parlare dei tentativi di riappropriazione
da parte della destra sovranista di Marine Le Pen o di Éric Zemmour. Tentativi
ai quali gli accademici hanno reagito con troppa timidezza». Suzette Bloch non
è una storica né un’universitaria, per oltre trent’anni è stata giornalista
dell’agenzia France Presse, tra l’altro come corrispondente da Roma. Sorride:
«In un’epoca, la nostra, di strapotere mediatico, neo-oscurantismi, fake e
post-verità, non le pare che la lezione critica di Marc Bloch possa tornare
utile anche per chi fa informazione?». Un innovatore. (…). Lo raccontano come
un tipo severo, spigoloso. Eppure il personaggio Bloch ha qualcosa di irresistibile.
Occhiali, baffetti, pochi capelli, borsa sempre sottobraccio, è un accademico
borghese, ma posseduto dal demone della curiosità. Appassionato di romanzi
polizieschi come di letteratura erotica (la custodiva in un cantuccio della
biblioteca). Padre e marito austero, ma capace di insospettate tenerezze nelle
lettere ai figli e nelle poesie alla moglie. Un eccentrico. «Non sono mai stato
molto capace di annoiarmi» confessava a un amico, «quando si ama osservare gli
uomini, le cose, le nuvole e si ha, in se stessi, qualche argomento di
meditazione si è abbastanza premuniti contro questo disagio». Altrove scriveva:
«Ho sempre pensato che il primo dovere di uno storico
consista nell’interessarsi alla “vita”». E poi: «Se non ci si china sul
presente è impossibile capire il passato». Un passato che fino
all’industrializzazione ha visto l’uomo vincolato alla terra. Da qui
l’interesse di Bloch per i mondi agrari, indagati studiando i cereali, il
bestiame, i fertilizzanti, le mappe catastali, i passaggi di proprietà, la
forma dei campi: aperti o chiusi, regolari o frastagliati. Lo sguardo dello
storico si riposiziona “dal basso”, ma senza perdere di vista il potere, le
strutture del dominio, le gerarchie sociali. (…). Bestseller incompiuto. Nel
1941, mentre si appresta ad entrare in clandestinità, Marc Bloch avverte
l’impellenza di difendere la missione critica degli studi storici nel momento
in cui ogni razionalità sembra annientata dal delirio delle ideologie
totalitarie. Apologia della storia o Mestiere di storico è un libro di metodo,
dall’incipit non troppo velatamente autobiografico: «“Papà, allora spiegami a
che serve la storia”. È così che pochi anni fa un ragazzino che conosco
interrogava un padre storico. Del libro che state per leggere vorrei dire che è
la mia risposta, perché per un autore non c’è lode più bella che l’essere in
grado di parlare con lo stesso tono ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità
così alta è il privilegio di pochi eletti». (…). In Apologia Bloch analizzava i
complicati rapporti che separano/uniscono passato e presente. Nel ’43, dopo
decenni dedicati allo scavo del passato, lui saltava nell’urgenza del presente
aggregandosi al movimento di resistenti Franc-tireur. Non era un bellicista, ma
aveva sempre nutrito una passionaccia per la vita militare. Con quel suo
aspetto da contabile di mezz’età a fargli da camuffamento, si sarebbe rivelato un
grande organizzatore delle attività clandestine, al punto che, quando fu
catturato, si meritò un trafiletto sulle colonne del Völkischer Beobachter,
organo ufficiale del partito nazista: «Arrestato il capo giudeo d’una banda di
assassini». In La strana disfatta, uscito postumo, aveva formulato una spietata
requisitoria sulle cause militari, politiche, morali che avevano portato
all’umiliante invasione hitleriana della Francia. Ma il libro era anche un atto
di autoaccusa intellettuale: «La mia generazione ha cattiva coscienza… Abbiamo
preferito la pavida quiete dei nostri studi. Possano i nostri figli perdonare
il sangue che ci macchia le mani». (…). E sia. Ma è forse un caso se
l’avventura storiografica di Bloch e seguaci si esaurisce proprio negli anni
Ottanta del Novecento, cioè – detto brutalmente – nell’epoca del “disimpegno”?
«Certamente no» ritiene Mastrogregori. «Marc Bloch era stato un giovane di
simpatie socialiste. Non fu un marxista, ma nei suoi scritti e in quelli della
cosiddetta “scuola delle Annales” si avverte per così dire il “calore” del
marxismo, del materialismo storico». (…). Bloch fu un umanista quasi
cannibalico: «Lo storico» scriveva «è come l’orco delle favole, va là dove
sente odore di carne umana». In che modo raccoglierne l’eredità oggi che
abbiamo già un piede nel post-umano? «Difficile dirlo» conclude Mastrogregori (professore
presso la “Scuola superiore di studi storici” n.d.r.). «Viene da chiedersi che cosa
sarà un “umanista” quando non esisteranno più biblioteche e domineranno
intelligenze artificiali di macchine che non distinguono tra cosa è vero e cosa
è falso, semplicemente perché non lo sanno. In un futuro del genere, mancando
di strumenti per discernere e fare scelte, non avremmo più alcuna importanza
politica. Sarebbe un’interruzione della tradizione storica di dimensioni
inimmaginabili. Paragonabile, che so, al crollo del mondo antico».
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