“CurzioMalteseglialtri”. Ieri Curzio
ci ha lasciato e ci ha per sempre lasciato una Sua “memoria” – ad un Paese immemore
– che ha per titolo “Il Cavaliere vice
del suo vice” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 3 di ottobre
dell’anno 2013: All’ora di pranzo si compie la tragedia di un uomo ridicolo. Berlusconi
poteva scegliersi una fine drammatica da Caimano, con paesaggi in fiamme alle
spalle, oppure una farsesca. Ha scelto con coerenza la seconda. All’una e
mezza, quando l’ombra del Cavaliere annuncia la fiducia e subito scoppia a
piangere, sulle tribune del Senato la stampa di mezzo mondo esplode in una
risata. (…). Erano arrivati tutti al richiamo della grande giornata storica ed
eccoci a raccontare la solita replica dell’8 settembre all’italiana. Un 8
settembre della destra, dove Berlusconi è allo stesso tempo Mussolini, Badoglio
e il re, ma l’annuncio rimane lo stesso della guerra che continua a fianco
dell’alleato, chiunque esso sia. Il generale ha firmato la resa senza avvisare
i colonnelli, i quali hanno continuato a spararsi contro fino a notte fonda nei
talk show. Sui banchi della destra campeggiano ancora in bella vista le copie
del Giornale di famiglia, detto un tempo Il Geniale, con titolo di scatola
«Alfano tradisce», mentre Berlusconi annuncia la fiducia al governo Letta. «Non
senza travaglio», sia pur minuscolo. I falchi guardano le colombe, le colombe
puntano i falchi, le pitonesse strisciano via: possibile? Da ieri il grande
eversore è l’ultimo allievo di Andreotti («Se sei in minoranza, unisciti alla
maggioranza»). Berlusconi è diventato infine il vice di Alfano, in un hegeliano
e spettacolare rovesciamento del rapporto servo padrone. Del resto i paradossi
della giornata non si contano, ma una sola cosa è certa. Come leader Berlusconi
è finito. Dopo la pagliacciata di ieri ha perso lo scettro del comando e non
potrà mai più essere il candidato premier del centrodestra. Si è reso non
candidabile. (…). …è curioso che in fondo a un ventennio trascorso a combattere
il nemico «comunista», Berlusconi non sia riuscito a distruggere la sinistra,
ma in compenso sia ormai a un passo dal demolire la destra. La lascia a pezzi,
immersa nel grottesco, ridotta a una ruota di scorta, anzi due, e senza un
capo. Tutto questo per inseguire un bluff. (…). …Berlusconi non aveva alcun
interesse a far cadere il governo e sull’orlo del baratro si sarebbe ritratto.
La minaccia dell’arma fine di mondo era soltanto l’ultimo disperato ricatto di
un leader ormai spinto ai margini da se stesso, dai propri comportamenti e
reati, per ottenere un impossibile salvacondotto dal governo e dal Quirinale.
Così è andata infine, ma il bluff è fallito nel più dilettantesco dei modi.
(…). Si tratta appunto di una tragedia ridicola. (…). A febbraio, il risultato
del voto era stato salutato da qualche politico straniero e da un bel pezzo di
stampa estera come la «vittoria dei clown», anzitutto Berlusconi e Grillo. Il
presidente Napolitano si era indignato, aveva preteso scuse. Chissà se a
distanza di sei mesi e di tante pagliacciate, il presidente è ancora della
stessa opinione. Impossibile dimenticarlo. Di seguito, “Curzio, un fuoriclasse che odiava i servi
furbi e frustava i conformisti” di Pino
Corrias pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, lunedì 27 di febbraio
2023: Curzio ci ha lasciato in un giorno di pioggia. Era un fuoriclasse. Il
primo a capire che la politica ormai imitava la cattiva televisione. Nei suoi
anni d'oro - prima che la malattia lo consumasse - alle nove di sera accendeva
la sua trentesima Marlboro, finiva il penultimo caffè, diceva "ora
scrivo" e lo faceva come niente fosse: 80 righe filate in venti minuti.
Buone per la prima pagina. Aveva il talento naturale del narratore. Pescava
indizi dai nuovi paesaggi della politica, per trasformarli in un viaggio dentro
agli eterni vizi della società italiana. A cominciare dall'anomia delle classi
dirigenti, laiche o cattoliche, disposte a qualunque corruzione per il potere e
il privilegio. Il conformismo ottuso della borghesia, che campa grazie al
compromesso, all'ipocrisia, al piagnisteo. La subalternità culturale della
sinistra orfana di identità e dunque abbagliata dalle mode e dalla ricchezza,
ma con l'aggravante del moralismo che l'eccesso di spocchia volta in aceto.
L'eterna sudditanza dei ceti più deboli che al netto del rancore, si piegano
volentieri all'inchino per il favore, per la raccomandazione, per la mancia.
Tutti vizi che si sono moltiplicati durante gli anni Novanta, che in uno dei
suoi ultimi libri ha chiamato "il decennio dei servi". Curzio sapeva
raccontare l'Italia camminandoci dentro. Era partito dalla faticosa periferia
di Sesto San Giovanni, anno 1959, orfano da piccolissimo, lavoratore studente
fino alle aule di Scienze politiche. Veloce di sguardo. Ironico sempre.
Arrivato agli inchiostri de La Notte, il quotidiano del pomeriggio che campava
di cronaca nera e titoli a scatola, e poi del giornalismo sportivo dove tutti
si prendevano sul serio tranne lui, che amava più il ciclismo del calcio e il
sudore che si butta sulle rampe d'Appennino, mitologia della vita dura, che
condivideva con il suo futuro amico Paolo Conte. Ci siamo conosciuti nella Torino
del 1987. Al quotidiano La Stampa, via Marenco 32. Tutti e due esuli temporanei
dalle luci di Milano, un tristissimo Residence a testa, che sembrava Detroit,
ingegneri giapponesi compresi, le notti in tipografia, mentre fuori la
città-fabbrica andava a nanna alle nove di sera, per salire all'alba sui tram,
direzione Mirafiori e le cento ciminiere dell'indotto. Noi in controtempo, e in
contromano, fuori all'una di notte, dopo la chiusura della seconda edizione,
due sole pizzerie aperte più un ristorante, il Montecarlo, che era quasi lusso.
Siamo diventati amici per colpa di una certa collega degli Esteri, che si
invaghì di Curzio, o viceversa, ma a scapito di un tizio delle Cronache
italiane con sfida all'Ok Corral nel parcheggio, un pugno a testa, Curzio
soccombente, un livido sullo zigomo, e dunque birra per risarcimento e
chiacchiere fino all'alba a dirci come sarà la vita, come sarà. Furono anni
notevoli. Prima con il formidabile Gaetano Scardocchia, poi con Paolo Mieli e
infine con Ezio Mauro ("si può sapere dov'è Curzio? Perché non risponde al
telefono?) abbiamo fatto, tutti insieme, la migliore Stampa di sempre, seguendo
la ghiaia bianca che si lasciavano alle spalle i vecchi del firmamento - che si
chiamavano Norberto Bobbio, Galante Garrone, Massimo Mila - e certi inviati
d'alta scuola come Igor Man, Guido Vergani e Lietta Tornabuoni, la più brava di
tutti. Notevoli cose accaddero. Il Muro sbriciolato a Berlino. La Lega di Bossi
che ipnotizzava il Nord. Le carte giudiziarie di Di Pietro. I partiti dissolti.
La fuga di Craxi. E in cima al danno, Berlusconi Silvio, con la sua macchina
spettacolare che avrebbe di lì a poco, riciclato i rifiuti della prima
repubblica per edificare la seconda. Di quello ci occupammo per due anni. Tutta
l'avventura, minuto per minuto, che poi trasformammo in "Colpo
grosso", libro sulla ascesa del Dottore fino alla cima del varietà Italia,
27 marzo 1994, che fu inchiostro ben speso, scritto a sei mani con il grande
Massimo Gramellini, che già allora schedava i mostri e le gag, specie a
sinistra, raccontando la loro involontaria leggerezza di foulard democratici al
vento. Lavorammo quella volta per dieci giorni, tutti e tre chiusi in una casa
a Punta Ala, trenta capitoli, dieci a testa, i cellulari che ancora
tossicchiavano, non c'era mai campo, quindi niente interferenze da Roma, da
Milano, dalle fidanzate, ogni sera passata davanti al mare fuori stagione a
parlare dei marziani di Publitalia, di Occhetto il velista, degli occhiali di
Mike Bongiorno, il vero ideologo del partito della nazione, della profezia di
Fedele Confalonieri: o il partito per difenderci o la galera per debiti. Altro
che "questo è il Paese che amo". Da allora, Curzio seguì Ezio Mauro
«Repubblica, editorialista per una ventina d'anni filati, amato dai lettori,
detestato dai politici, come è giusto, l'incontro della vita con Paola, la
nascita di Zeno, le estati in California e a Sperlonga, le partite di poker che
qualche volta duravano una notte. L'amicizia con Renzo Piano. Il sodalizio con
Sabina e Corrado Guzzanti. Il litigio con Beppe Grillo, "il miliardario
sovversivo". Il libro inchiesta sui forzieri del Vaticano, "La
questua"; sul declino della nazione, "Come ti sei ridotto";
sulla fine dell'inganno berlusconiano "La bolla". Nel 2014, la scelta
di candidarsi alle Europee con la lista Tsipras, sinistra radicale, anche per
disincanto professionale, "il giornalismo sta diventando ornamentale”: Era
vero e non era vero, tant'è che avrebbe voluto tornarci a fine mandato. La
malattia lo ha circondato e fatto prigioniero per cinque anni. "Ho dovuto
ricominciare da capo, un passo alla volta, una parola alla volta”. Voleva
scrivere, voleva ricordare. Lo ha fatto, sino all'ultimo, sulla prima pagina di
Domani e in un nuovo libro autobiografico appena terminato, che uscirà postumo.
Lo angosciava la brutta Italia che vedeva, il futuro che si mangiava la parte
buona del passato. Ha scritto: "E poi ti trovi davanti questi ragazzi
assiepati in un'aula universitaria, tutti aspiranti giornalisti. Dove, come,
chissà. Ora tocca a voi raccontare l'Italia agli italiani. Noi abbiamo perso”.
Nel suo caso è stato vero il contrario.
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