Ha scritto Andrea Riccardi – fondatore della Comunità
di Santo Egidio – in “Fratel Biagio, il
profeta semplice del Vangelo vissuto tra i poveri” pubblicato sul
settimanale “Famiglia Cristiana” del 5 di febbraio 2023: (…). Ricordo l'atteggiamento di
Biagio durante la pandemia, quando le chiese annullarono ogni liturgia e tutto
divenne virtuale, con un'innovazione forte rispetto alla pastorale della Chiesa
in altre epidemie: frate! Biagio girava per le strade di Palermo con la croce,
salutava e incoraggiava, invitava tutti a pregare. Fratel Biagio, nel vestire e
nel procedere in mezzo alla gente, aveva qualcosa di alternativo. Un uomo
diverso fin dall'abito e dalla scelta di andare quasi sempre a piedi. Ma il suo
messaggio non era astruso. Parlava alla vita di oggi e ne toccava i problemi,
con un misto di alterità profetica e prossimità affettuosa. Molti suoi temi
sono attuali: «Basta Italia non costruire più armi, ma
strumenti di lavoro». Contro la chiusura ai migranti e i respingimenti,
dichiarava, avendo fatto un lungo digiuno di protesta: «Abbiamo tutti il dovere
di non alzare barriere né muri». Il povero era al centro della sua vita come
persona concreta: era la sua proposta a tutti. Non istituzioni assistenziali,
ma accoglienza e rapporto personale con i poveri. Preghiera e poveri, in cui
vedeva Gesù: la sintesi di un'esistenza pellegrina in Sicilia, in Italia e in
Europa. L'incensazione della autorità, specie quelle civili siciliane, non può
far rientrare l'alterità profetica di questa vita che interroga tutti e pone
questioni alla Chiesa. Il silenzio esprime meglio lo stupore di fronte a
un'esistenza piccola, rivelatrice di un'altra dimensione, forse invisibile.
Questo borghese palermitano, fattosi povero (qualcosa della sua cultura restava
in lui), ha rivelato che siamo un mondo di mendicanti: i poveri come i ricchi,
i disperati come gli astuti, i credenti e i non credenti. Dopo la morte di
Lutero, trovarono un foglio non lontano dal letto: «Siamo tutti mendicanti:
questo è vero», era scritto. La vita di frate! Biagio è il foglio su cui è
scritto questo messaggio che inquieta e inquieterà in futuro. Di seguito,
“Don Peppe Pratesi: il prete contadino,
marito e padre” di Tomaso Montanari pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del
6 di febbraio ultimo: “Forse si potrebbe parlare di una via
normale alla rivoluzione": questa frase della prefazione del padre
domenicano Alberto Simoni descrive perfettamente il senso di “Con tutto l'amore
di cui siamo capaci, il libro intervista di Antonio Scia a Beppe Pratesi e
Lucia Frati. Pratesi è un prete, formatosi nel "sorprendente mondo
fiorentino a cavallo del Concilio Vaticano II, in ultima analisi una lenta ed
efficace operazione di laicizzazione della fede e di de-clericalizzazione della
Chiesa, tanto invocata ai nostri giorni da Papa Francesco ma difficilmente
raggiungibile" (ancora Simoni). Nel 1964, un Pratesi appena ordinato accoglie
l'invito di due confratelli un po' più grandi, Lorenzo Milani e Bruno Borghi, e
firma una lettera di protesta contro la rimozione dalla direzione del seminario
fiorentino di monsignor Bonanni, colpevole (per esempio) di far partecipare i
seminaristi ai convegni politici promossi dal sindaco Giorgio La Pira. Fin da
allora Pratesi sceglie da che parte stare: e presto capisce che i preti non
possono vivere una vita separata da quella del popolo, e che dunque devono
lavorare. Non sceglie, all'inizio, la fabbrica,
ma la campagna: condividendo il duro lavoro dei braccianti. L'esperienza è
illuminante. In occasione della processione del Corpus Domini torna fuori tutta
intera una dimensione feudale ancora vivissima nelle campagne: il prete è al
servizio del padrone, anzi ne legittima il dominio. A Pratesi e a Beppe Socci,
l'altro sacerdote che condivideva quell'esperienza, vengono a dire:
"Allora, ragazzi, la benedizione si dà nella villa dei Frescobaldi, viene
il marchese, voi salite sul balcone, viene anche lui accanto a voi'. Mi par di
vederci, Beppino e io: 'Ma vu scherzate, siamo a questo punto?'. Non ci fu
verso, noi non si accettò. A regola, era una tradizione che il marchese e i
preti si affacciassero per benedire il popolo che, per l'occasione, entrava nel
giardino della villa. Si arrivò alla conclusione che con la processione si
andava in vari posti, nei giardini e nelle aie delle case, anche nel giardino
del marchese. Però che non si parlasse di benedire dal balcone della villa.
Quella era una zona privata, e Gesù benediceva in piazza la gente". Chissà
quanti secoli erano che un prete, da quelle parti, non disertava dal
fiancheggiamento del potere: un potere bestiale, che negava l'eguaglianza e la
fraternità fra tutti gli uomini, cioè uno dei messaggi fondamentali del
Vangelo. Pratesi, che oggi ha 83 anni, era un prete "strano" (cioè
appunto secondo il Vangelo), come quando "venne la zingara a metà messa
con il bambino e ti chiese se glielo battezzavi, questa cosa qui fece scalpore".
Racconta Beppe: "Mi capitò una volta a Montespertoli, nella messa 'bella'
di mezzogiorno, che era riservata al proposto, c'era la gente bene, vestita
bene, nelle messe prima c'erano le massaie che avevano furia di tornare a casa
presto per preparare il pranzo a tutti, povere donne di vera fede e di grandi
sacrifici. "All'ultima messa andavano quelli vestiti bene. Quella mattina
c'ero io. Ad un certo punto... era entrato un bel gruppettino di donne zingare,
e un bambino. Io le conoscevo, era gente con cui ero andato in carovana a
insegnare qualcosina ai ragazzi, a vedere se trovavano un po' di lavoro. Sicché
interruppi la messa, lo battezzai svelto svelto, senza nemmeno andare a
prendere jl libro. E poi si riprese; pero andarono via quasi tutti, ne rimasero
pochi, perché era una messa bene. Fosse stata la prima, forse qualcuno si
avvicinava e faceva una carezza a quel bimbo, moro moro". E poi, scandalo
degli scandali, il prete si sposa, e ha cinque figli, ma senza smettere di
essere prete: "Da allora in poi io non vedo più il celibato come una forma
di vita superiore, una condizione di vita più dedicata a Dio, più santa: io non
sono contrario se uno ha una vita solitaria, da celibe; io non dico che i preti
devono essere sposati, però non sopporto che si continui a vedere la donna come
un pericolo, una minorata che distoglie il prete dalla sua vita santa.... Io ho
continuato a fare il prete assieme a Lucia, non sono stato cancellato come
prete, non ho avuto nessun provvedimento: ho fatto il prete nella vita come mi
sono sentito, spogliandomi di tutte le vesti e le comodità clericali".
Questo libro, questo frammento di storia orale è una tessera preziosa non solo
nella storia, ma anche nel progetto di cambiamento profondo, della Chiesa
italiana: e dunque, in un senso più vasto, anche della società italiana. In
questo anno centenario della nascita, nel quale si moltiplicheranno le
celebrazioni in onore di don Milani, bisognerà non stancarsi di dire che,
nonostante papa Francesco, il potere clericale esiste ancora, ben saldo nelle
mani di coloro che contro don Lorenzo combatterono aspramente, cioè, nelle
parole di Pratesi: "Vescovo, preti in generale - soprattutto quelli con le
stellette - i cristiani più tradizionalisti, i democristiani". Sarà bene
non dimenticarlo.
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