"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 17 febbraio 2023

Memoriae. 32 Cordero: «Festosi commenti dal côté berlusconiano: le intercettazioni turbano delicati equilibri; affossiamole».

Ha scritto Marco Travaglio in “Approfittiamone” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, 16 di febbraio 2023: (…). La storia dei processi a B. è una collezione di perle: tutti pezzi unici. Previti, avvocato di B., compra con soldi di B. il giudice della sentenza su Mondadori, che passa da De Benedetti a B.: Previti e il giudice condannati, B. prescritto perché il suo è un reato minore (è solo il mandante). Fininvest di B. paga quattro mazzette alla Finanza perché non scopra le frodi di B.: condannati i finanzieri e il fratello Paolo, B. assolto. B. paga 600 mila dollari a Mills che deve testimoniare contro di lui in due processi, poi Mills scrive al suo commercialista il perché: “La mia testimonianza ha tenuto Mr. B. fuori da un mare di guai in cui l’avrei gettato se avessi detto tutto quel che sapevo” sulle società estere usate per frodare il fisco: Mills condannato in primo e secondo grado e prescritto in Cassazione, B. prescritto subito da una giudice che scrive di non poterlo condannare comunque perché la lettera-confessione di Mills su B. vale per Mills, ma non per B.. Quindi Mills va condannato per essere stato corrotto da B., ma B. non va condannato per avere corrotto Mills. Il tutto, al netto delle 7 prescrizioni perché B. ne ha dimezzato i termini e delle 3 assoluzioni per falso in bilancio perché lui l’ha depenalizzato. Ora la comica finale. Il Codice penale vieta all’imputato di pagare sia i testimoni sia i coimputati che possono inguaiarlo, ci sono montagne di prove che B. ha pagato 28 testimoni che potevano (e spesso minacciavano di) inguaiarlo dicendo la verità sul caso Ruby, e il Tribunale che fa? Lo assolve con tutte le testimoni prezzolate, perché queste non andavano sentite con l’obbligo di rispondere e dire la verità: bisognava indagarle come sue coimputate e interrogarle col diritto di tacere o mentire (in Italia mentire alla Giustizia è un diritto, nei Paesi civili è un crimine). E pazienza se è pure vietato pagare i coimputati perché mentano. E pazienza se 2 gup, 3 giudici d’appello e 9 giudici delle sezioni unite di Cassazione avevano stabilito il contrario. Perciò indignarsi è inutile. Meglio approfittarne: se delinquere e poi pagare testimoni e complici per fregare i giudici non è più reato, diamoci da fare. Poi, se ci beccano, diciamo che ci manda Silvio. Ha lasciato scritto ad imperitura memoria Franco Cordero (1928 – 2020) in “Dove scivolano le norme”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 29 di giugno dell’anno 2012: (…). In Italia il pubblico ministero appare nella legge 13 novembre 1859 n. 3781, "rappresentante del potere esecutivo presso l'autorità giudiziaria": il ministro lo dirige, nomina, promuove, dimette; le corti non hanno poteri disciplinari nei suoi confronti; se qualcosa non va, "rimostrino" al guardasigilli (art. 158); e gode d'una carriera distinta da quella dei giudici, assai più aperta, ma l'art. 154 ammette transiti nei rispettivi quadri; i vertici togati vengono dall'apparato requirente. Ancora nel regio decreto 14 dicembre 1921 n. 1978 impersona il potere esecutivo: idea poco congeniale a uno Stato soidisant liberale; così passa all'ordinamento giudiziario fascista (art. 69 regio decreto 30 gennaio 1941 n. 12); diretto dal ministro, esercita "le funzioni che la legge gli assegna". Nell'Italia 2012 la "justiceretenue" è memoria fossile: il monopolio giurisdizionale appartiene a un corpo la cui autonomia è garantita dall'autogoverno e l'identico status compete al pubblico ministero, ma sappiamo da Freud come il tempo non viga nell'Es, regno delle pulsioni; interessi, abitudini, memoria collettiva formano livelli profondi su cui le norme talvolta scivolano. Gl'interessati le eludono nelle pieghe d'una lingua sonora, enfatica, vacua, dove le parole nascondono la cosa. Abbiamo l'esempio sotto gli occhi. Pendono ipotesi gravissime: che vent'anni fa persone d'alto rango trattassero con i superiori più o meno cogniti della galassia mafiosa; e abbiano concluso un accordo (in Francia se ne stipulavano tra re e ugonotti: XVI secolo, anni sessanta e settanta). Fosse vero, saremmo uno Stato dall'identità equivoca, a due teste: riconosciuta quale partner d'un negoziato, la misteriosa Connection diventa soggetto palese della prassi sinora combattuta, almeno a parole; «convivere con la mafia», predicava un disinvolto ministro forzaitaliota. Poche settimane fa, la Cassazione ha annullato la condanna d'uno stretto sodale d'Arcore: veniva in questione l'idea del concorso esterno in associazione mafiosa; qualcuno vi crede ancora? Forse distiamo poco dalla situazione dei Paesi nei quali il narcotraffico costituisce potere forte, quindi autorità effettiva. È materia capitale stabilire cosa sia accaduto e fin dove l'ipotetico accordo fosse penalmente lecito. Pubblici ministeri palermitani indagano su una persona d'alto rango, illo tempore seconda carica dello Stato, ministro dell'Interno, vicepresidente del Csm: l'accusano d'avere dichiarato il falso occultando fatti su cui l'ascoltavano quale possibile testimone. Posizione scomoda: vuol evitare confronti pericolosi; lamenta indagini «non coordinate» (vi cooperano tre procure); e sarebbe un sollievo passare in mani meno grifagne. Giochi ogni carta difensiva, è suo diritto. L'anomalia sta nei canali: confuti gli avversari o mandi doléances alla procura nazionale antimafia o, se crede, al procuratore generale presso la Cassazione, possibile promotore d'inchieste disciplinari; no, discorre fitto con i consiglieri del Quirinale invocando aiuto. Il tutto viene fuori perché i suoi telefoni erano sotto legittimo controllo. È una gaffe per quei consiglieri avere accettato il dialogo: appelli simili non meritano ascolto; né sta nel decorosamente sostenibile pretendere o pensare che il Capo dello Stato funga da organo censorio d'atti giudiziari, ora sollecitando, ora inibendo, come se il pubblico ministero rappresentasse ancora l'esecutivo e in via Arenula sedessero Alfredo Rocco o Dino Grandi. Che sia una gaffe, lo provano festosi commenti dal côté berlusconiano, fulmineo nell'auspicare larghe intese: le intercettazioni turbano delicati equilibri; affossiamole.

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