Ha scritto Massimo Fini in
“Le solite (s)ragioni dell’Occidente” pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 9 di ottobre dell’anno 2022:
(…). Nel 1999, quando la Serbia
fu aggredita, D’Alema era presidente del Consiglio. L’aggressione era opera degli
americani, ma D’Alema e tutti i D’Alema della terra giudicarono non solo
legittimo ma determinante l’attacco alla Serbia in pieno contrasto con le norme
del diritto internazionale. La questione Serbia-Kosovo è omologa, anche se a
senso invertito, a quella Russia-Ucraina-Donbass. Se si bombarda per 72 giorni
una grande capitale europea come Belgrado, cioè con un precedente come questo,
è poi difficile attaccare Putin se bombarda Kiev. C’è inoltre una differenza:
gli Stati Uniti erano a diecimila chilometri di distanza dalla Serbia e dal
Kosovo, tanto che Bill Clinton dovette prendere una grande carta geografica e
come un maestrino cercare di spiegare agli americani dove fosse questo
misterioso Kosovo. Putin questi problemi ce li ha ai confini della Russia. Milosevic
aveva firmato la pace di Dayton che aveva messo fine alla feroce guerra slava.
Ma Milosevic aveva un’altra pecca: la Serbia era l’unico paese europeo rimasto
socialista o, secondo le interpretazioni, paracomunista d’Europa. E mentre un
tempo per l’intellighenzia europea era sufficiente essere di sinistra per avere
ragione, dopo la cosa si è capovolta: era sufficiente essere socialista o, se
si preferisce, paracomunista per avere torto. (…). Già, negli ultimi vent’anni
gli americani, spesso seguiti, anche se non sempre, in modo canino dai paesi
europei, mascherando la sudditanza di questi ultimi con fantasiose “coalizioni
dei volenterosi”, hanno violato, cominciando proprio dalla Serbia (1999), ogni
norma di diritto internazionale, sia quella che vieta di aggredire uno Stato
sovrano accreditato all’ONU, sia quella sottoscritta ad Helsinki nel 1975 da
quasi tutti gli Stati del mondo che sancisce il “diritto all’autodeterminazione
dei popoli”. Lo hanno fatto in Iraq nel 2003 (la Germania si dissociò dai
“volenterosi”, così come la Spagna quando fu eletto il socialista Zapatero),
per il petrolio e non perché Saddam Hussein possedesse armi chimiche, le aveva
avute queste armi, gliele avevano date proprio gli americani, i francesi e i
sovietici in funzione anti-iraniana e anti-curda, ma al momento dell’attacco
non le aveva più perché le aveva già scaricate sui soldati iraniani e sui curdi
(strage di Halabja, un’intera cittadina “gasata” in un sol colpo, 5000 morti).
Infine c’è l’aggressione alla Libia (2011), Stato sovrano accreditato all’ONU,
del colonnello Gheddafi. Tutte queste aggressioni non avevano il patrocinio, ma
la condanna, dell’ONU. Un discorso a parte merita l’Afghanistan, l’Afghanistan
talebano del Mullah Omar. L’aggressione questa volta aveva il patrocinio
dell’ONU perché si pensava che i Talebani fossero responsabili, direttamente o
indirettamente, dell’attacco alle Torri Gemelle. Ma qualche dubbio avrebbe
dovuto esserci fin dall’inizio. Non c’erano afgani, tantomeno talebani, nel
commando che distrusse le Torri Gemelle, c’erano sauditi, tunisini, marocchini,
egiziani, giordani, algerini, arabi insomma (gli afgani non sono arabi). Non
c’erano afgani, tantomeno talebani, nelle cellule di Al Qaeda scoperte dopo
l’attacco alle Torri Gemelle. Comunque ora è stato accertato che la dirigenza
talebana dell’epoca era completamente all’oscuro di quell’attacco. L’attacco
all’Afghanistan perde dunque la copertura ONU e si trasforma in un’operazione
NATO chiamata Resolute Support Mission. In un discorso all’ONU Muammar Gheddafi
affermò che la questione afgana era tutt’altro che chiara, e questo fu uno dei
motivi che portarono all’aggressione alla Libia e all’omicidio di Gheddafi che
fu torturato e sodomizzato da alcuni insorti (quegli ‘insorti’ che stesi a
pancia all’aria invocavano l’aiuto di Sarkozy) alla presenza dell’esercito
francese che non mosse un dito per fermare quell’abominio. La guerra
all’Emirato Islamico d’Afghanistan, come il Mullah Omar volle che si chiamasse
lo Stato di cui era a capo, è stata una guerra puramente ideologica perché
l’Afghanistan è un paese poverissimo, privo di quelle risorse energetiche che
fanno tanto gola agli occidentali. Non ci piacevano i costumi di quella gente.
E siccome non ci piacevano quei costumi abbiamo iniziato una guerra durata
vent’anni, con un bilancio di 300.000 morti civili, ma probabilmente in
difetto. Non contiamo ovviamente i Talebani perché, a differenza dei civili,
erano dei guerriglieri consapevoli dei rischi che correvano. (…). …i Talebani
nell’agosto del 2021 sono entrati a Kabul (…). Ero stato l’unico in Occidente a
difendere le loro ragioni, o per lo meno a cercare di comprenderle (Il Mullah
Omar, 2011). Non condivido nulla dell’ideologia sessuofobica talebana ma, come
mi è toccato spiegare millanta volte, io difendevo il diritto di un popolo, o
di parte di esso, ad opporsi all’occupazione dello straniero. Altrimenti
prendiamo la nostra Resistenza, su cui abbiamo fatto tanta retorica, che aveva
l’appoggio degli Alleati e buttiamola nel cesso. I Talebani non avevano
l’appoggio di nessuno. Il molto commendevole Gianni Riotta, grande esperto di
esteri, ha sostenuto che i Talebani avevano l’appoggio del Pakistan. Ebbene la
più grande e devastante offensiva contro i Talebani si ebbe nella valle di Swat
nel 2009 ad opera dell’esercito pakistano. I morti non sono stati contati, gli
sfollati sì: saranno due milioni. Il Corriere della Sera titolava: “Due milioni
in fuga dai Talebani”, invece erano in fuga dall’esercito pakistano. Questa è
la nostra informazione. In questa lotta contro il più potente esercito che sia
stato schierato sul campo nei tempi recenti, per una volta, per usare le parole
di Francesco Guccini, c’è stata una vittoria dei “giusti sui prepotenti” (Don
Chisciotte). Ma prendiamo un’altra frase di Guccini quando parla di un mondo
“dove regna il capitale, oggi più spietatamente”. A questo proposito voglio
raccontarvi una storia. Dopo la clamorosa fuga in moto del Mullah Omar gli
americani e gli inglesi sono a caccia del Mullah. Catturano un importante
collaboratore di Omar, Abdul Salam Zaeef, sanno che non è un uomo
particolarmente coraggioso, né un talebano fanatico, e quindi pensano di
potergli scucire dalla bocca ciò che solo gli interessa: dare indicazioni su
dove si trova Omar. Prima lo torturano, comme d’habitude, poi gli promettono la
libertà e un mucchio di dollari. E Zaeef risponde: “Non c’è prezzo per la vita
di un amico e di un compagno di battaglia”. È a quest’etica, che chiamo
“prepolitica, preideologica, prereligiosa”, che io mi sento vicino. Nel “mondo
del capitale” ci si vende per quattro soldi. Di seguito,
“Occidente non sei più lo stesso”,
intervista di Simonetta Fiori allo storico dell’Unione Sovietica Andrea
Graziosi pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 12 di febbraio ultimo:
«Guardare
la realtà può essere doloroso. Anche perché si tratta di dichiarare morto il
nostro mondo, quello in cui ci siamo formati. E insieme dobbiamo prendere atto
che certe categorie interpretative sono sfocate, quindi non più capaci di
vedere il nuovo che è sotto i nostri occhi. (…). Personalmente ho avvertito la
rottura culturale negli anni Novanta, quando mi sentivo più vicino alla
generazione di mio padre che a quella delle mie figlie" (…). In realtà le
radici di quel mutamento risalgono agli anni Settanta del secolo scorso e
questo rende ancora più paradossale la nostra condizione: viviamo già da mezzo
secolo in un mondo nuovo, facendo finta che quasi nulla sia cambiato».
Lei dichiara morto il nostro Occidente,
quello nato nel 1945 dalla convergenza tra l'Europa occidentale e gli Stati
Uniti d'America. «Non direi che è finito, ma certo si va lentamente disgregando
il blocco scaturito dall'adesione dei principali paesi dell'Europa occidentale
al progetto guidato dagli americani. L'Unione Europea s'è felicemente allargata
fino a includere larga parte dei paesi dell'Est. E l'America ha smesso da tempo
di essere un'Europa fuori d'Europa, ossia una terra culturalmente ed
etnicamente europea perché approdo di migrazioni occidentali: dagli anni
Sessanta sono cominciati ad arrivare asiatici, africani, latinoamericani. Ma
l'Occidente è più di questo: è una categoria intellettuale, quindi mobile sul
piano geografico e storico. Ne abbiamo conosciuto incarnazioni diverse, dal
mondo ateniese a quello di cui Spengler vedeva il tramonto alla fine della
Grande Guerra».
La sua analisi sulla disgregazione del
nostro Occidente non rischia di chiuderlo dentro un perimetro etnico? «No,
proprio perché Occidente è un concetto intellettuale e quindi generalmente
umano, legato a diverse declinazioni dell'idea della libertà e della dignità.
Questo naturalmente non deve nascondere il fatto che quello da noi conosciuto
dopo il 1945 è stato un Occidente "bianco", allargatosi però verso
l'Asia della Corea del Sud e del Giappone, e non solo».
Ma "mondo bianco" è una categoria
spendibile? «Il resto del mondo pensa a noi in questo modo, ma noi facciamo
finta che questa distinzione non esista. E aggiungo: poiché abbiamo dominato
per svariati secoli, le nostre difficoltà generano sì depressione al nostro
interno, ma non all'esterno, dove c'è chi, pur non amandolo, vede in Putin un
utile strumento per ridimensionarci».
Lei fa coincidere il declino del nostro
Occidente con la crisi del "moderno maggiore". Che cosa intende? «È
la modernità cresciuta negli Stati Uniti e poi diffusa nell'Europa occidentale:
quella del benessere, dei consumi, del miglioramento continuo garantito. Il
progresso sembrava non avere fine. Lo storico Pierre Chaunu, alla metà degli
anni Settanta, lo sintetizzò in questo modo: "Più cibo, più abitazioni,
più libri, più vita, più uomini, una vecchiaia più lunga, una natura meglio
dominata dall'uomo". Intendiamoci, anche la società sovietica dopo Stalin
ha conosciuto un suo progresso, ma molto più limitato: negli anni Ottanta la speranza
di vita degli uomini era 20 anni inferiore alla nostra. Per questo la indico
come una "modernità minore"».
Ma dalla società del benessere - è la sua
tesi - scaturiscono elementi di crisi che porteranno questo evo moderno alla
maturità, cioè al mondo in cui viviamo. Che cosa succede? «Abbiamo smesso di
fare figli e, grazie alle conquiste scientifiche, viviamo molto più a lungo:
sono questi i due motori della trasformazione che ha reso le nostre società più
vecchie e meno vitali. L'arresto della crescita demografica ha ridotto il peso
dell'Europa e del nostro "mondo bianco". Quando io sono nato,
l'Africa aveva meno della metà degli abitanti dell'Europa: oggi ne ha quasi il
doppio e dovrebbe averne il triplo alla fine degli anni Trenta. Tutto questo ha
generato reazioni di rivincita e di rivalsa: penso al grido di Trump "Make
America Great Again", o al sogno di rinnovata grandezza dell'Inghilterra
con la Brexit e - in forma ancora più avvelenata - a Putin che cerca un nuovo,
grande mondo russo».
La reazione di rivalsa al tramonto può
essere nazionale, ma anche individuale. Lei tratteggia ampi bacini di
reazionari naturali che crescono nelle nostre società. «Sì, ma sono reazionari
molto diversi da quelli tradizionali, come i difensori dell'aristocrazia e dei
suoi privilegi. Sono i milioni di anziani che in Italia vivono da soli e
all'immaginazione del futuro preferiscono la commemorazione. Sono le signore
delle pulizie che temono gli immigrati o i ceti marginalizzati che competono
con i rom per l'assegnazione delle case popolari. Sono le persone fragili che
subiscono le "società plurali" e tecnologiche come una vessazione
quotidiana. Tutta gente che va ascoltata e con la quale bisogna parlare: questo
è il compito della politica».
Non aiuta il fatto che la popolazione sia
invecchiata. «Siamo per questo prigionieri dell'utopia del passato. E il
passato che in Italia rimpiangiamo è quello dei miracoli del secondo
dopoguerra, quindi impossibile da riproporre. Sapevamo che l'onda che aveva
spinto tutti verso l'alto si era andata esaurendo dagli anni Settanta, ma
abbiamo a lungo preferito premiare la politica che prometteva il suo ritorno. E
oggi, pur sapendo che le risorse sono insufficienti, tendiamo ad attribuire il
peggioramento delle nostre condizioni alle trame di potenti nascosti».
In che modo cambiano le categorie per
interpretare il nuovo? «Le vecchie contrapposizioni - operai e borghesia
padronale, città e campagna, laici e cattolici - non riescono più ad afferrare
la realtà. Certo, esiste ancora un ceto padronale ed esistono i lavoratori
dipendenti: ma i lavoratori dipendenti sono una classe omogenea? Penso alle
distinzioni tra vecchi e giovani, uomini e donne, cittadini e immigrati, abili
e disabili (la disabilità psichica di vario tipo è elevatissima), garantiti e
precari. E inoltre le società si vanno sempre più individualizzando: questo
significa che il singolo non si sente più parte del corpo collettivo anche
perché non vuole esserlo, vuole essere se stesso, con grandissime conseguenze
sociali, culturali, etiche».
A tutto questo è legata anche la crisi del
modello di rappresentanza politica del nostro Occidente, ossia la
liberaldemocrazia. «Durante lo sviluppo, la liberaldemocrazia è riuscita a
tenere insieme dirigenti e diretti. In un mondo in cui le risorse diminuiscono
e le aspettative si fanno decrescenti, viene meno la fiducia dei rappresentati
nei rappresentanti: se per garantirmi la pensione tu governante la tagli del
venti per cento, io mi concentro sul taglio doloroso del mio reddito non sul
disegno di ampio respiro. Non è un caso che in Italia a vincere le elezioni
siano le persone che promettono di più: è il salto pericolosissimo dalla
democrazia alla demagogia. L'abbiamo visto con il successo prima di Berlusconi
poi di Grillo, Salvini e Meloni. Ma c'è anche il rischio che i consensi della
maggioranza premino una personalità forte. Ci potremmo ritrovare in una
democrazia autoritaria, come è accaduto in Russia, in Ungheria, in Polonia».
Per salvare la liberaldemocrazia bisogna
prendere atto che il mondo è cambiato? «Deve essere costruito un discorso per
la nuova società: oggi manca completamente. Come si provvederà alla moltitudine
di vecchi non autosufficienti? Qual è la strada migliore per aumentare le
nascite nei paesi sviluppati, un risultato che l'esperienza ha dimostrato
difficilissimo da raggiungere? Come possiamo integrare nel nostro paese i
milioni di immigrati non europei di cui abbiamo estrema necessità, anche a
causa di quella difficoltà? Come si spostano le risorse economiche dalle fasce
più anziane - quindi dalle pensioni - ai bisogni dei più giovani? Solo vedendo
e quindi affrontando la complessità del mondo nuovo riusciremo a difendere la
nostra liberaldemocrazia».
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