"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 21 febbraio 2023

Memoriae. 34 Andrea Graziosi: «C'è chi, pur non amandolo, vede in Putin un utile strumento per ridimensionarci».

Ha scritto Massimo Fini in “Le solite (s)ragioni dell’Occidente” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 9 di ottobre dell’anno 2022: (…). Nel 1999, quando la Serbia fu aggredita, D’Alema era presidente del Consiglio. L’aggressione era opera degli americani, ma D’Alema e tutti i D’Alema della terra giudicarono non solo legittimo ma determinante l’attacco alla Serbia in pieno contrasto con le norme del diritto internazionale. La questione Serbia-Kosovo è omologa, anche se a senso invertito, a quella Russia-Ucraina-Donbass. Se si bombarda per 72 giorni una grande capitale europea come Belgrado, cioè con un precedente come questo, è poi difficile attaccare Putin se bombarda Kiev. C’è inoltre una differenza: gli Stati Uniti erano a diecimila chilometri di distanza dalla Serbia e dal Kosovo, tanto che Bill Clinton dovette prendere una grande carta geografica e come un maestrino cercare di spiegare agli americani dove fosse questo misterioso Kosovo. Putin questi problemi ce li ha ai confini della Russia. Milosevic aveva firmato la pace di Dayton che aveva messo fine alla feroce guerra slava. Ma Milosevic aveva un’altra pecca: la Serbia era l’unico paese europeo rimasto socialista o, secondo le interpretazioni, paracomunista d’Europa. E mentre un tempo per l’intellighenzia europea era sufficiente essere di sinistra per avere ragione, dopo la cosa si è capovolta: era sufficiente essere socialista o, se si preferisce, paracomunista per avere torto. (…). Già, negli ultimi vent’anni gli americani, spesso seguiti, anche se non sempre, in modo canino dai paesi europei, mascherando la sudditanza di questi ultimi con fantasiose “coalizioni dei volenterosi”, hanno violato, cominciando proprio dalla Serbia (1999), ogni norma di diritto internazionale, sia quella che vieta di aggredire uno Stato sovrano accreditato all’ONU, sia quella sottoscritta ad Helsinki nel 1975 da quasi tutti gli Stati del mondo che sancisce il “diritto all’autodeterminazione dei popoli”. Lo hanno fatto in Iraq nel 2003 (la Germania si dissociò dai “volenterosi”, così come la Spagna quando fu eletto il socialista Zapatero), per il petrolio e non perché Saddam Hussein possedesse armi chimiche, le aveva avute queste armi, gliele avevano date proprio gli americani, i francesi e i sovietici in funzione anti-iraniana e anti-curda, ma al momento dell’attacco non le aveva più perché le aveva già scaricate sui soldati iraniani e sui curdi (strage di Halabja, un’intera cittadina “gasata” in un sol colpo, 5000 morti). Infine c’è l’aggressione alla Libia (2011), Stato sovrano accreditato all’ONU, del colonnello Gheddafi. Tutte queste aggressioni non avevano il patrocinio, ma la condanna, dell’ONU. Un discorso a parte merita l’Afghanistan, l’Afghanistan talebano del Mullah Omar. L’aggressione questa volta aveva il patrocinio dell’ONU perché si pensava che i Talebani fossero responsabili, direttamente o indirettamente, dell’attacco alle Torri Gemelle. Ma qualche dubbio avrebbe dovuto esserci fin dall’inizio. Non c’erano afgani, tantomeno talebani, nel commando che distrusse le Torri Gemelle, c’erano sauditi, tunisini, marocchini, egiziani, giordani, algerini, arabi insomma (gli afgani non sono arabi). Non c’erano afgani, tantomeno talebani, nelle cellule di Al Qaeda scoperte dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Comunque ora è stato accertato che la dirigenza talebana dell’epoca era completamente all’oscuro di quell’attacco. L’attacco all’Afghanistan perde dunque la copertura ONU e si trasforma in un’operazione NATO chiamata Resolute Support Mission. In un discorso all’ONU Muammar Gheddafi affermò che la questione afgana era tutt’altro che chiara, e questo fu uno dei motivi che portarono all’aggressione alla Libia e all’omicidio di Gheddafi che fu torturato e sodomizzato da alcuni insorti (quegli ‘insorti’ che stesi a pancia all’aria invocavano l’aiuto di Sarkozy) alla presenza dell’esercito francese che non mosse un dito per fermare quell’abominio. La guerra all’Emirato Islamico d’Afghanistan, come il Mullah Omar volle che si chiamasse lo Stato di cui era a capo, è stata una guerra puramente ideologica perché l’Afghanistan è un paese poverissimo, privo di quelle risorse energetiche che fanno tanto gola agli occidentali. Non ci piacevano i costumi di quella gente. E siccome non ci piacevano quei costumi abbiamo iniziato una guerra durata vent’anni, con un bilancio di 300.000 morti civili, ma probabilmente in difetto. Non contiamo ovviamente i Talebani perché, a differenza dei civili, erano dei guerriglieri consapevoli dei rischi che correvano. (…). …i Talebani nell’agosto del 2021 sono entrati a Kabul (…). Ero stato l’unico in Occidente a difendere le loro ragioni, o per lo meno a cercare di comprenderle (Il Mullah Omar, 2011). Non condivido nulla dell’ideologia sessuofobica talebana ma, come mi è toccato spiegare millanta volte, io difendevo il diritto di un popolo, o di parte di esso, ad opporsi all’occupazione dello straniero. Altrimenti prendiamo la nostra Resistenza, su cui abbiamo fatto tanta retorica, che aveva l’appoggio degli Alleati e buttiamola nel cesso. I Talebani non avevano l’appoggio di nessuno. Il molto commendevole Gianni Riotta, grande esperto di esteri, ha sostenuto che i Talebani avevano l’appoggio del Pakistan. Ebbene la più grande e devastante offensiva contro i Talebani si ebbe nella valle di Swat nel 2009 ad opera dell’esercito pakistano. I morti non sono stati contati, gli sfollati sì: saranno due milioni. Il Corriere della Sera titolava: “Due milioni in fuga dai Talebani”, invece erano in fuga dall’esercito pakistano. Questa è la nostra informazione. In questa lotta contro il più potente esercito che sia stato schierato sul campo nei tempi recenti, per una volta, per usare le parole di Francesco Guccini, c’è stata una vittoria dei “giusti sui prepotenti” (Don Chisciotte). Ma prendiamo un’altra frase di Guccini quando parla di un mondo “dove regna il capitale, oggi più spietatamente”. A questo proposito voglio raccontarvi una storia. Dopo la clamorosa fuga in moto del Mullah Omar gli americani e gli inglesi sono a caccia del Mullah. Catturano un importante collaboratore di Omar, Abdul Salam Zaeef, sanno che non è un uomo particolarmente coraggioso, né un talebano fanatico, e quindi pensano di potergli scucire dalla bocca ciò che solo gli interessa: dare indicazioni su dove si trova Omar. Prima lo torturano, comme d’habitude, poi gli promettono la libertà e un mucchio di dollari. E Zaeef risponde: “Non c’è prezzo per la vita di un amico e di un compagno di battaglia”. È a quest’etica, che chiamo “prepolitica, preideologica, prereligiosa”, che io mi sento vicino. Nel “mondo del capitale” ci si vende per quattro soldi. Di seguito, “Occidente non sei più lo stesso”, intervista di Simonetta Fiori allo storico dell’Unione Sovietica Andrea Graziosi pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 12 di febbraio ultimo: «Guardare la realtà può essere doloroso. Anche perché si tratta di dichiarare morto il nostro mondo, quello in cui ci siamo formati. E insieme dobbiamo prendere atto che certe categorie interpretative sono sfocate, quindi non più capaci di vedere il nuovo che è sotto i nostri occhi. (…). Personalmente ho avvertito la rottura culturale negli anni Novanta, quando mi sentivo più vicino alla generazione di mio padre che a quella delle mie figlie" (…). In realtà le radici di quel mutamento risalgono agli anni Settanta del secolo scorso e questo rende ancora più paradossale la nostra condizione: viviamo già da mezzo secolo in un mondo nuovo, facendo finta che quasi nulla sia cambiato».

Lei dichiara morto il nostro Occidente, quello nato nel 1945 dalla convergenza tra l'Europa occidentale e gli Stati Uniti d'America. «Non direi che è finito, ma certo si va lentamente disgregando il blocco scaturito dall'adesione dei principali paesi dell'Europa occidentale al progetto guidato dagli americani. L'Unione Europea s'è felicemente allargata fino a includere larga parte dei paesi dell'Est. E l'America ha smesso da tempo di essere un'Europa fuori d'Europa, ossia una terra culturalmente ed etnicamente europea perché approdo di migrazioni occidentali: dagli anni Sessanta sono cominciati ad arrivare asiatici, africani, latinoamericani. Ma l'Occidente è più di questo: è una categoria intellettuale, quindi mobile sul piano geografico e storico. Ne abbiamo conosciuto incarnazioni diverse, dal mondo ateniese a quello di cui Spengler vedeva il tramonto alla fine della Grande Guerra».

La sua analisi sulla disgregazione del nostro Occidente non rischia di chiuderlo dentro un perimetro etnico? «No, proprio perché Occidente è un concetto intellettuale e quindi generalmente umano, legato a diverse declinazioni dell'idea della libertà e della dignità. Questo naturalmente non deve nascondere il fatto che quello da noi conosciuto dopo il 1945 è stato un Occidente "bianco", allargatosi però verso l'Asia della Corea del Sud e del Giappone, e non solo».

Ma "mondo bianco" è una categoria spendibile? «Il resto del mondo pensa a noi in questo modo, ma noi facciamo finta che questa distinzione non esista. E aggiungo: poiché abbiamo dominato per svariati secoli, le nostre difficoltà generano sì depressione al nostro interno, ma non all'esterno, dove c'è chi, pur non amandolo, vede in Putin un utile strumento per ridimensionarci».

Lei fa coincidere il declino del nostro Occidente con la crisi del "moderno maggiore". Che cosa intende? «È la modernità cresciuta negli Stati Uniti e poi diffusa nell'Europa occidentale: quella del benessere, dei consumi, del miglioramento continuo garantito. Il progresso sembrava non avere fine. Lo storico Pierre Chaunu, alla metà degli anni Settanta, lo sintetizzò in questo modo: "Più cibo, più abitazioni, più libri, più vita, più uomini, una vecchiaia più lunga, una natura meglio dominata dall'uomo". Intendiamoci, anche la società sovietica dopo Stalin ha conosciuto un suo progresso, ma molto più limitato: negli anni Ottanta la speranza di vita degli uomini era 20 anni inferiore alla nostra. Per questo la indico come una "modernità minore"».

Ma dalla società del benessere - è la sua tesi - scaturiscono elementi di crisi che porteranno questo evo moderno alla maturità, cioè al mondo in cui viviamo. Che cosa succede? «Abbiamo smesso di fare figli e, grazie alle conquiste scientifiche, viviamo molto più a lungo: sono questi i due motori della trasformazione che ha reso le nostre società più vecchie e meno vitali. L'arresto della crescita demografica ha ridotto il peso dell'Europa e del nostro "mondo bianco". Quando io sono nato, l'Africa aveva meno della metà degli abitanti dell'Europa: oggi ne ha quasi il doppio e dovrebbe averne il triplo alla fine degli anni Trenta. Tutto questo ha generato reazioni di rivincita e di rivalsa: penso al grido di Trump "Make America Great Again", o al sogno di rinnovata grandezza dell'Inghilterra con la Brexit e - in forma ancora più avvelenata - a Putin che cerca un nuovo, grande mondo russo».

La reazione di rivalsa al tramonto può essere nazionale, ma anche individuale. Lei tratteggia ampi bacini di reazionari naturali che crescono nelle nostre società. «Sì, ma sono reazionari molto diversi da quelli tradizionali, come i difensori dell'aristocrazia e dei suoi privilegi. Sono i milioni di anziani che in Italia vivono da soli e all'immaginazione del futuro preferiscono la commemorazione. Sono le signore delle pulizie che temono gli immigrati o i ceti marginalizzati che competono con i rom per l'assegnazione delle case popolari. Sono le persone fragili che subiscono le "società plurali" e tecnologiche come una vessazione quotidiana. Tutta gente che va ascoltata e con la quale bisogna parlare: questo è il compito della politica».

Non aiuta il fatto che la popolazione sia invecchiata. «Siamo per questo prigionieri dell'utopia del passato. E il passato che in Italia rimpiangiamo è quello dei miracoli del secondo dopoguerra, quindi impossibile da riproporre. Sapevamo che l'onda che aveva spinto tutti verso l'alto si era andata esaurendo dagli anni Settanta, ma abbiamo a lungo preferito premiare la politica che prometteva il suo ritorno. E oggi, pur sapendo che le risorse sono insufficienti, tendiamo ad attribuire il peggioramento delle nostre condizioni alle trame di potenti nascosti».

In che modo cambiano le categorie per interpretare il nuovo? «Le vecchie contrapposizioni - operai e borghesia padronale, città e campagna, laici e cattolici - non riescono più ad afferrare la realtà. Certo, esiste ancora un ceto padronale ed esistono i lavoratori dipendenti: ma i lavoratori dipendenti sono una classe omogenea? Penso alle distinzioni tra vecchi e giovani, uomini e donne, cittadini e immigrati, abili e disabili (la disabilità psichica di vario tipo è elevatissima), garantiti e precari. E inoltre le società si vanno sempre più individualizzando: questo significa che il singolo non si sente più parte del corpo collettivo anche perché non vuole esserlo, vuole essere se stesso, con grandissime conseguenze sociali, culturali, etiche».

A tutto questo è legata anche la crisi del modello di rappresentanza politica del nostro Occidente, ossia la liberaldemocrazia. «Durante lo sviluppo, la liberaldemocrazia è riuscita a tenere insieme dirigenti e diretti. In un mondo in cui le risorse diminuiscono e le aspettative si fanno decrescenti, viene meno la fiducia dei rappresentati nei rappresentanti: se per garantirmi la pensione tu governante la tagli del venti per cento, io mi concentro sul taglio doloroso del mio reddito non sul disegno di ampio respiro. Non è un caso che in Italia a vincere le elezioni siano le persone che promettono di più: è il salto pericolosissimo dalla democrazia alla demagogia. L'abbiamo visto con il successo prima di Berlusconi poi di Grillo, Salvini e Meloni. Ma c'è anche il rischio che i consensi della maggioranza premino una personalità forte. Ci potremmo ritrovare in una democrazia autoritaria, come è accaduto in Russia, in Ungheria, in Polonia».

Per salvare la liberaldemocrazia bisogna prendere atto che il mondo è cambiato? «Deve essere costruito un discorso per la nuova società: oggi manca completamente. Come si provvederà alla moltitudine di vecchi non autosufficienti? Qual è la strada migliore per aumentare le nascite nei paesi sviluppati, un risultato che l'esperienza ha dimostrato difficilissimo da raggiungere? Come possiamo integrare nel nostro paese i milioni di immigrati non europei di cui abbiamo estrema necessità, anche a causa di quella difficoltà? Come si spostano le risorse economiche dalle fasce più anziane - quindi dalle pensioni - ai bisogni dei più giovani? Solo vedendo e quindi affrontando la complessità del mondo nuovo riusciremo a difendere la nostra liberaldemocrazia».

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