"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 3 febbraio 2023

Eventi. 99 “«Te l’ho già detto. Sono Matteo Messina Denaro», disse il boss con voce fioca e dimessa, mentre abbassava lo sguardo”.

Ha scritto Silvia Truzzi in “Messina Denaro: da feroce boss a elegante playboy” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri giovedì 2 di febbraio 2023: Qualche giorno fa un commerciante di Napoli ha ben pensato di promuovere con un video i suoi montoni, simili a quello che indossava Matteo Messina Denaro nel giorno dell'arresto. "Nuovi modelli, da buon intenditore, poche parole: MMD. Ce li ho sia per donne, un po' più corti, che per uomini, più lunghi. Con e senza cappuccio. Vi aspetto". Così il boss è diventato anche una televendita, dopo che la sua vita è stata resa pubblica in ogni dettaglio, personale e personalissimo. Aveva molte amanti, prendeva il viagra, usava i preservativi, gli piacevano gli abiti di lusso, aveva i poster del Padrino appesi alle pareti. Ma sappiamo anche tutto della sua cartella clinica, ampiamente raccontata e perfino commentata da illustri oncologi. È diritto di cronaca? No. Il giudizio morale su Matteo Messina Denaro, di cui qui non è necessario ricordare il terrificante curriculum criminale, è definitivo e inappellabile; ma il giudizio morale non può togliere all'uomo le garanzie dello Stato di diritto in nome della curiosità. I dettagli del suo stato di salute non aggiungono nulla al racconto della cattura: sarebbe cambiato qualcosa se ci si fosse limitati a dire che soffre di una grave malattia, per la quale era in cura nella clinica siciliana? No. Il ritrovamento di viagra e preservativi cosa dice del mafioso? Che la sua vita da latitante è stata diversa da quel- la ritirata e "povera" di altri boss, come Riina o Provenzano, si poteva spiegare senza rendere noto il modo con cui si procurava le erezioni. È un criminale della peggior specie, ma questo non significa che gli si possa fare di tutto: togliergli la dignità ò il diritto alla privacy. La curiosità pettegola sui fatti di cronaca nera è un'abitudine vecchia come il mondo: Alexandre Dumas padre ne ha fatto la fortuna della sua vastissima produzione letteraria e giornalistica. Già il Savigny (1779-1861), fondatore della scuola storica del diritto, notava come in Italia il commentare gli accadimenti processuali fosse un'abitudine talmente in voga che "persino le donne ne parlano". Ai nostri giorni, grazie al moltiplicarsi dei mezzi d'informazione (o pseudo tali) e a un imbarbarimento del modo di fare informazione, quel che ci deve preoccupare non è la curiosità pettegola, il voyeurismo, ma la scomparsa di ogni limite, perfino di quelli imposti dalla legge e dai codici deontologici. E dunque Matteo Messina Denaro è il personaggio di una fiction che seguiamo in ospedale, in camera da letto, al bar e che può perfino lanciare mode, diventando un testimonial di capispalla. Questa confusione dove tutto diventa un indecente mercato, non è solo pericolosa per i protagonisti (vittime, carnefici, forze dell'ordine o magistrati) che formano il cast della serie (e se si trovano dalla parte dei cattivi possono essere lapidati e dilapidati dei loro diritti) ma è pericolosa per la democrazia che diventa la messa in scena di se stessa. L'opinione pubblica è disorientata dalla quantità e dalla qualità delle informazioni che vengono somministrate con il solo criterio del consenso che arriva dai click: se la notizia tira, allora la si gonfia fino all'inverosimile (nel senso letterale della parola). I media non mediano più nulla, si limitano a vendere un prodotto. Oggi Matteo Messina Denaro non è più solo l'uomo che ha ordinato le stragi di Capaci e via D'Amelio e l'indicibile fine del piccolo Di Matteo, ma anche è il playboy sorridente che ama vestirsi con capi firmati. Un modello da seguire. Di seguito, “E il boss abbassò lo sguardo davanti allo Stato” di Nicola Graziano pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 29 di gennaio ultimo: Era domenica quel 19 luglio 1992 e io, rientrando in auto dal meraviglioso weekend in Cilento, ero incolonnato al casello autostradale. La strage di via d’Amelio avvenne alle 16.58 e passò pochissimo tempo per la diffusione capillare della notizia. La appresi dalla radio, che interruppe quella musica domenicale adatta a conciliare l’ozio e il rientro da giornate estive. Fu subito rabbia. E sgomento, perché non c’era stato nemmeno il tempo di capire cosa fosse accaduto due mesi prima a Giovanni Falcone. Ero appena laureato e, come per tanti giovani di allora, questi episodi criminali sono stati determinanti per scegliere da che parte stare per tutto il resto della vita. L’anno dopo Matteo Messina Denaro, che era stato tra i mandanti di quei maledetti delitti contro lo Stato, si dava alla latitanza e solo due settimane fa (a distanza cioè di trent’anni) è stato arrestato dai carabinieri del Ros. Spetterà agli inquirenti ricostruire i lunghissimi anni di latitanza, gli spostamenti, le connivenze, i rapporti con quanti hanno reso possibile tutto ciò. E sarà, ancora una volta, una gioia vedere che assicurati alla giustizia saranno quanti hanno consentito che u siccu potesse girare liberamente nei luoghi della sua giovinezza durante la quale ha germogliato, nella sua anima malata, il seme della criminalità. A noi interessa tutto il resto, affinché ognuno di noi sia chiamato a fare la sua parte. Noi siamo la società civile che non può più assistere in silenzio alla pervasività delle infiltrazioni criminali, le quali, sempre più frequentemente, occupano lo spazio che prima era della Politica. Perché purtroppo sempre più concreta è quella compenetrazione tra la criminalità e il tessuto sociale, là dove l’assenza dello Stato genera ideali di appartenenza a sodalizi criminali che fanno intravedere vana speranza e incerto futuro. Nel piccolo centro abitato dal boss nessuno ha visto e sentito e forse nessuno ha avuto il coraggio di vedere e di sentire. Ora lì, come in tanti luoghi della Sicilia e non solo, la gente è scesa in piazza come in un giorno di festa ed è stato bello vedere tanti striscioni tra le mani di giovanissimi studenti. Diceva Giovanni Falcone che la conoscenza del fenomeno mafioso deve essere alla base della coscienza civile delle nuove generazioni. Così ho visto i giovani anche negli occhi impauriti ma felici dei carabinieri che stringevano le braccia dell’ultimo latitante stragista. Avevano le spalle dritte e fiere come vele al vento della Legalità. «Te l’ho già detto. Sono Matteo Messina Denaro», disse il boss con voce fioca e dimessa, mentre abbassava lo sguardo non potendo incrociare gli occhi verdi del carabiniere che lo aveva fermato. «Sono lo Stato», gli rispose lui: «Quello Stato che a volte tarda a venire, ma che c’è e ci sarà sempre contro chi ha provato a minare la Democrazia, a volte piegandole le gambe dal dolore per quegli Uomini e quelle Donne che hanno perso la vita». «Siamo lo Stato», continuò: «Io con la mia divisa e il mio orgoglio quotidiano, i miei figli che studiano per diventare uomini onesti, i ragazzi che credono nella Bellezza della Libertà». Tacque. Gli misero la mano sulla testa per farlo sedere nel blindato che lo porterà ancora una volta in carcere. Sì, ancora una volta! Perché è per tutta la vita in carcere chi fugge dai suoi inseguitori, chi vive nascondendosi, chi ruba agli altri la Libertà.

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