Ha scritto Silvia Truzzi in “Messina Denaro: da feroce boss a elegante playboy” pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” di ieri giovedì 2 di febbraio 2023: Qualche giorno fa un commerciante
di Napoli ha ben pensato di promuovere con un video i suoi montoni, simili a quello
che indossava Matteo Messina Denaro nel giorno dell'arresto. "Nuovi
modelli, da buon intenditore, poche parole: MMD. Ce li ho sia per donne, un po'
più corti, che per uomini, più lunghi. Con e senza cappuccio. Vi aspetto".
Così il boss è diventato anche una televendita, dopo che la sua vita è stata resa
pubblica in ogni dettaglio, personale e personalissimo. Aveva molte amanti,
prendeva il viagra, usava i preservativi, gli piacevano gli abiti di lusso, aveva
i poster del Padrino appesi alle pareti. Ma sappiamo anche tutto della sua
cartella clinica, ampiamente raccontata e perfino commentata da illustri
oncologi. È diritto di cronaca? No. Il giudizio morale su Matteo Messina
Denaro, di cui qui non è necessario ricordare il terrificante curriculum
criminale, è definitivo e inappellabile; ma il giudizio morale non può togliere
all'uomo le garanzie dello Stato di diritto in nome della curiosità. I dettagli
del suo stato di salute non aggiungono nulla al racconto della cattura: sarebbe
cambiato qualcosa se ci si fosse limitati a dire che soffre di una grave
malattia, per la quale era in cura nella clinica siciliana? No. Il ritrovamento
di viagra e preservativi cosa dice del mafioso? Che la sua vita da latitante è
stata diversa da quel- la ritirata e "povera" di altri boss, come
Riina o Provenzano, si poteva spiegare senza rendere noto il modo con cui si
procurava le erezioni. È un criminale della peggior specie, ma questo non significa
che gli si possa fare di tutto: togliergli la dignità ò il diritto alla
privacy. La curiosità pettegola sui fatti di cronaca nera è un'abitudine
vecchia come il mondo: Alexandre Dumas padre ne ha fatto la fortuna della sua
vastissima produzione letteraria e giornalistica. Già il Savigny (1779-1861),
fondatore della scuola storica del diritto, notava come in Italia il commentare
gli accadimenti processuali fosse un'abitudine talmente in voga che
"persino le donne ne parlano". Ai nostri giorni, grazie al
moltiplicarsi dei mezzi d'informazione (o pseudo tali) e a un imbarbarimento
del modo di fare informazione, quel che ci deve preoccupare non è la curiosità
pettegola, il voyeurismo, ma la scomparsa di ogni limite, perfino di quelli
imposti dalla legge e dai codici deontologici. E dunque Matteo Messina Denaro è
il personaggio di una fiction che seguiamo in ospedale, in camera da letto, al
bar e che può perfino lanciare mode, diventando un testimonial di capispalla.
Questa confusione dove tutto diventa un indecente mercato, non è solo pericolosa
per i protagonisti (vittime, carnefici, forze dell'ordine o magistrati) che
formano il cast della serie (e se si trovano dalla parte dei cattivi possono
essere lapidati e dilapidati dei loro diritti) ma è pericolosa per la
democrazia che diventa la messa in scena di se stessa. L'opinione pubblica è
disorientata dalla quantità e dalla qualità delle informazioni che vengono
somministrate con il solo criterio del consenso che arriva dai click: se la
notizia tira, allora la si gonfia fino all'inverosimile (nel senso letterale
della parola). I media non mediano più nulla, si limitano a vendere un
prodotto. Oggi Matteo Messina Denaro non è più solo l'uomo che ha ordinato le
stragi di Capaci e via D'Amelio e l'indicibile fine del piccolo Di Matteo, ma
anche è il playboy sorridente che ama vestirsi con capi firmati. Un modello da
seguire. Di seguito, “E il boss
abbassò lo sguardo davanti allo Stato” di Nicola Graziano pubblicato sul
settimanale “L’Espresso” del 29 di gennaio ultimo: Era domenica quel 19 luglio 1992
e io, rientrando in auto dal meraviglioso weekend in Cilento, ero incolonnato
al casello autostradale. La strage di via d’Amelio avvenne alle 16.58 e passò
pochissimo tempo per la diffusione capillare della notizia. La appresi dalla
radio, che interruppe quella musica domenicale adatta a conciliare l’ozio e il
rientro da giornate estive. Fu subito rabbia. E sgomento, perché non c’era
stato nemmeno il tempo di capire cosa fosse accaduto due mesi prima a Giovanni
Falcone. Ero appena laureato e, come per tanti giovani di allora, questi
episodi criminali sono stati determinanti per scegliere da che parte stare per
tutto il resto della vita. L’anno dopo Matteo Messina Denaro, che era stato tra
i mandanti di quei maledetti delitti contro lo Stato, si dava alla latitanza e
solo due settimane fa (a distanza cioè di trent’anni) è stato arrestato dai
carabinieri del Ros. Spetterà agli inquirenti ricostruire i lunghissimi anni di
latitanza, gli spostamenti, le connivenze, i rapporti con quanti hanno reso
possibile tutto ciò. E sarà, ancora una volta, una gioia vedere che assicurati
alla giustizia saranno quanti hanno consentito che u siccu potesse girare
liberamente nei luoghi della sua giovinezza durante la quale ha germogliato,
nella sua anima malata, il seme della criminalità. A noi interessa tutto il
resto, affinché ognuno di noi sia chiamato a fare la sua parte. Noi siamo la
società civile che non può più assistere in silenzio alla pervasività delle
infiltrazioni criminali, le quali, sempre più frequentemente, occupano lo
spazio che prima era della Politica. Perché purtroppo sempre più concreta è
quella compenetrazione tra la criminalità e il tessuto sociale, là dove
l’assenza dello Stato genera ideali di appartenenza a sodalizi criminali che
fanno intravedere vana speranza e incerto futuro. Nel piccolo centro abitato
dal boss nessuno ha visto e sentito e forse nessuno ha avuto il coraggio di
vedere e di sentire. Ora lì, come in tanti luoghi della Sicilia e non solo, la
gente è scesa in piazza come in un giorno di festa ed è stato bello vedere
tanti striscioni tra le mani di giovanissimi studenti. Diceva Giovanni Falcone
che la conoscenza del fenomeno mafioso deve essere alla base della coscienza
civile delle nuove generazioni. Così ho visto i giovani anche negli occhi
impauriti ma felici dei carabinieri che stringevano le braccia dell’ultimo
latitante stragista. Avevano le spalle dritte e fiere come vele al vento della
Legalità. «Te l’ho già detto. Sono Matteo Messina Denaro», disse il boss con
voce fioca e dimessa, mentre abbassava lo sguardo non potendo incrociare gli
occhi verdi del carabiniere che lo aveva fermato. «Sono lo Stato», gli rispose
lui: «Quello Stato che a volte tarda a venire, ma che c’è e ci sarà sempre
contro chi ha provato a minare la Democrazia, a volte piegandole le gambe dal
dolore per quegli Uomini e quelle Donne che hanno perso la vita». «Siamo lo
Stato», continuò: «Io con la mia divisa e il mio orgoglio quotidiano, i miei
figli che studiano per diventare uomini onesti, i ragazzi che credono nella
Bellezza della Libertà». Tacque. Gli misero la mano sulla testa per farlo
sedere nel blindato che lo porterà ancora una volta in carcere. Sì, ancora una
volta! Perché è per tutta la vita in carcere chi fugge dai suoi inseguitori,
chi vive nascondendosi, chi ruba agli altri la Libertà.
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