Perché non dire: crediamo alla scienza perché funziona, ossia produce risultati concreti che ci hanno migliorato la vita? «In realtà ci sono anche esempi di teorie scorrette o incomplete che però hanno dato risultati utilissimi. Il sistema tolemaico, con la Terra al centro dell’universo, era sbagliato ma permetteva di prevedere con accuratezza le eclissi. La meccanica celeste di Newton era errata – perché spazio e tempo non sono assoluti, come capì Einstein – ma consentiva di fare calcoli astronomici molto precisi. Non si può giudicare la verità di una tesi solo considerando i risultati che produce».
E l’autorevolezza dei singoli scienziati non basta? «Geni come Galileo e Newton hanno apportato contributi significativi. Ma non è che noi crediamo nella relatività perché Einstein era un genio: ci crediamo perché è stata messa alla prova, ha superato ogni scrutinio, ed è ancora una teoria in uso. Anche se gli individui possono avere un ruolo importante nel proporre idee, queste vanno poi verificate dalla comunità scientifica nel suo insieme. E qui voglio evidenziare l’importanza del consenso scientifico, ovvero il carattere sociale della scienza. È questa la ragione della sua credibilità. E perché questo processo di incessante verifica collettiva sia esaustivo, è importante che la comunità degli scienziati sia inclusiva e diversificata: più sono diverse le persone che esaminano le ipotesi scientifiche, più numerose sono le angolazioni da cui giudicarle, e più è probabile che non ci sfugga qualcosa di importante».
Quindi il consenso tra scienziati è cruciale. Però in certi casi teorie che sembravano fondate già dall’inizio sono rimaste controverse per molto tempo prima di essere finalmente accettate, come nel caso della deriva dei continenti. «In quel caso entrarono in gioco fattori di altro tipo, culturali e corporativi. La teoria del geofisico tedesco Alfred Wegener, secondo cui i continenti non erano fissi ma si erano mossi in orizzontale sulla superficie terrestre, negli anni Venti e Trenta polarizzò i geologi. Quelli americani si opponevano alla teoria, mentre quelli europei perlopiù la difendevano. Il problema non era la tesi in sé, quanto il metodo. Wegener aveva presentato la teoria in forma ipotetico-deduttiva, mentre per gli americani la buona scienza doveva essere soltanto induttiva: l’osservazione doveva precedere la teoria, e non il contrario. L’approccio di Wegener, per loro, comportava il rischio che si scivolasse nell’autoritarismo intellettuale. Non erano mossi, nel loro errore, da ignoranza, ma da ideali di pluralismo. E da “tribalismo”, appunto».
Se a volte gli scienziati si sbagliano, come facciamo a esser certi che questa volta, ad esempio sui vaccini o sul cambiamento climatico, hanno ragione? «Quando gli scienziati hanno imboccato una strada che si è rivelata clamorosamente sbagliata, in genere, oltre a mancare il consenso collettivo, c’erano segnali d’allarme già ben evidenti. Un esempio è quello del medico americano Edward Clarke, che nel 1873 si schierò contro l’istruzione femminile perché convinto che avrebbe rimpicciolito l’apparato riproduttivo delle donne. A supporto della sua tesi citava la legge termodinamica della conservazione dell’energia: per lui le attività che incanalavano l’energia verso il cervello la distoglievano dall’utero o dal sistema endocrino. “Una giovane donna non può studiare più di quattro ore al giorno senza rischiare danni”, raccomandò Clarke. Tra gli oppositori di questa tesi – non solo sessista, ma anche assurda perché il principio di conservazione dell’energia vale per i sistemi chiusi e il nostro corpo non lo è – si distinse Mary Putnam Jacobi, docente di Medicina alla Columbia University: la bizzarra tesi di Clarke era popolare – spiegò – solo perché funzionale agli interessi della società patriarcale che voleva scoraggiare l’istruzione superiore femminile, e il campione usato da Clarke per dimostrare la sua tesi era ridicolmente esiguo: solo sette donne».
Il Nobel per la medicina Luc Montagnier sostiene che il Sars-Cov-2 sia sfuggito dal laboratorio, che la vaccinazione di massa sia un grave errore perché così si creano nuove varianti. E per questo oggi è molto citato dai No Vax… «Questo dimostra i rischi del credere a una scienza fatta solo da geni eroici. C’è una lunga storia di premi Nobel che, ottenuta molta attenzione, non sanno più rinunciare alle luci della ribalta e diventano imbarazzanti».
Durante la pandemia il consenso tra scienziati non è stato uniforme: questo ha minato la credibilità della scienza? «Ogni volta che emerge un fenomeno nuovo, e quindi non ancora studiato, come è avvenuto con il Covid, è ovvio che emergano contrasti tra gli scienziati e che serva tempo per vagliare le ipotesi discordanti. Un grave errore, a mio avviso, è stato quello iniziale dell’Oms nello sconsigliare le mascherine. Fu fatto solo per evitare che le persone ne facessero incetta privandone gli ospedali. Il problema è che se non ti fidi della gente, e la cosa diventa palese, poi la gente non si fiderà di te. L’Oms avrebbe dovuto dire: “Le mascherine servono. Ma non compratene troppe o mancheranno per medici e infermieri che ne hanno più bisogno di voi”. E sappiamo che le persone avrebbero capito e avrebbero dato una mano: negli Usa abbiamo visto tanti iniziare a costruirsele a casa, o mettere sul web le istruzioni per realizzarle, o stamparle in 3D».
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