A lato. "Giornata di sole a Chioggia", acquerello (2021) di Anna Fiore.
Tratto da “Quel che resta della dignità umana” di Bjorn Larsson pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 30 di settembre 2021: È una vita che provo a capire cosa significhi essere umani.
(…). …mi rendo conto che se ho qualcosa da dire sull’essere umano, forse ho poco da dire sulla sua dignità. (…). Inutile (…) cercare «dignità» nelle opere che trattano dell’essere umano di evoluzionisti e cognitivisti, come Pinker, Damasio, Bregman, Dawkins o Gould, giusto per citarne alcuni. La dignità è la grande assente anche nel mio vasto repertorio di linguistica e scienze del linguaggio. Possibile? In fin dei conti solo nella Dichiarazione Universale dei Diritti umani compare la parola «dignità». Chi non conosce la famosa frase del primo articolo: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti». Ma che cosa significa realmente «essere uguali in dignità»? Comincio a sospettare che la dignità sia come tante altre facoltà che attribuiamo all’homo sapiens: libertà, senso, conoscenza, coscienza, bellezza, linguaggio e immaginazione. Da un lato, non si può parlare dell’umano senza evocarle; dall’altro, esse scivolano via tra le dita come sabbia fine quando si cerca di spiegarle, allo stesso modo in cui il tempo sfuggiva a Sant’Agostino: «Che cosa è dunque, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più». Allora, vado su Google e inizio la mia ricerca su «dignité», «dignity» e «dignità». Lì, come sempre, c’è una caterva di roba da leggere e su cui riflettere per parecchie vite. Per la parola inglese, «dignity», Google trova 226 milioni di occorrenze (in 56 secondi), per la parola italiana «dignità», “soltanto” 14 milioni. D’altro canto non è il caso di cercare la parola svedese «dignitet», che ha un significato molto diverso, e simile a quello della parola inglese «dignitary», a indicare una persona importante, né di cercare una parola tedesca derivante dalla radice «degno», perché non c’è. In svedese, si utilizza il termine «människovärde», letteralmente «il valore dell’essere umano», in tedesco «Menschenwürde». La «dignità» quindi è una particolarità tutta anglo-franco-italiana? Mi si potrà obiettare che sarebbe stato meglio consultare un buon dizionario piuttosto che Google. Ma non bisogna dimenticare che il dizionario ci dà “soltanto” il senso attribuito alle parole e alle espressioni. Dal dizionario possiamo apprendere cosa si intende comunemente per «fantasma» o «unicorno». Per sapere se esistono, però, dobbiamo consultare l’enciclopedia, che include la scienza. Questa differenza fondamentale tra senso ed esistenza, purtroppo, raramente viene mantenuta. Quando esaminiamo gli articoli sulla dignità trovati su Google, ad esempio, vediamo che molti si occupano della «definizione» del concetto, non di che cosa sia la dignità, né si domandano della sua reale esistenza. Naturalmente è molto importante concordare sul senso delle parole per poter ben comunicare e capirsi. Questa intersoggettività simbolica è il fondamento dell’umano al di là della biologia, e anch’io la pongo al centro della mia storia dell’essere umano. In effetti, è grazie alla scoperta, risalente a qualche centinaia di migliaia di anni fa, che una «cosa» – un suono, un gesto, una grafia – poteva rappresentare qualsiasi altra cosa, che l’essere umano è diventato veramente umano. E questo è ciò che giustamente si intende per «comunicare»; ovvero condividere il senso intersoggettivamente… a parte il fatto che la comunicazione al giorno d’oggi è più monologo che dialogo. Se questa separazione tra senso ed esistenza ha permesso da un lato all’essere umano di liberarsi del reale, d’immaginare ciò che la realtà potrebbe essere e d’inventare il linguaggio quale strumento incomparabile di comunicazione, dall’altro ha reso precaria non soltanto la nostra conoscenza del mondo, ma anche la trasmissione del senso. La breccia aperta dall’arbitrarietà del riferimento simbolico ci ha permesso di dubitare dell’esistenza; ci ha dato la fede. Ma anche la scienza. È proprio perché i simboli arbitrari ci hanno allontanato dal reale che abbiamo avuto bisogno della scienza come metodo capace di far coincidere il senso e l’esistenza. Tuttavia l’errore – sostenuto da tutti i relativisti o idealisti di ogni tempo, da Platone ai postmoderni – è di pensare o di lasciare intendere che concetti o idee, anche condivisi, siano garanzie di esistenza. In effetti, è la precarietà del rapporto tra il senso e il reale il terreno preferito da tutti i demagoghi, dai dittatori e da coloro, compresi No Vax e complottisti, che vogliono farci credere che non esistono verità e fatti. I manipolatori di ogni colore alimentano la confusione tra il senso e il reale per convincerci, come accade per i bambini, che siccome c’è una parola, ci deve essere necessariamente qualcosa nella realtà che corrisponda ad essa. Non molto tempo fa, papa Francesco ha dichiarato dall’alto della finestra del suo appartamento in Vaticano che «la vita è sacra». Pur essendo un non credente, e anzi proprio per questo, sono abbastanza d’accordo con il papa su questo punto, con qualche riserva sull’applicazione del principio. Eppure basta una piccola riflessione per rendersi conto che, se il papa sente il bisogno di fare una simile affermazione, questo accade perché evidentemente nel mondo reale, la vita non è sempre sacra. Anche lui non può fare a meno di giocare con quello che è stato definito il presupposto dell’esistenza del senso delle parole. In realtà, quello che il papa avrebbe dovuto dire, è che la vita dovrebbe essere sacra, e che invece non lo è abbastanza. Lo stesso si può dire del primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti umani. Va bene dire che tutti gli esseri umani nascono «liberi e uguali in dignità e diritti» e desiderare che sia così; ma purtroppo non è così. Negli Stati Uniti, per esempio, decina di migliaia di bambini nascono ogni anno trovandosi in gravi crisi di astinenza, partoriti da donne eroinomani. Possiamo affermare che questi bambini siano uguali in dignità? La condizione umana consiste quindi nel cercare un equilibrio tra la necessità dei segni, che grazie a un senso condiviso ci permettono di comunicare, e il bisogno di conoscere ciò che è reale; per troppa immaginazione simbolica, rischiamo di perdere il senso delle varie realtà, perfino di impazzire; se troppo poca, rischiamo di diventare disumani. (…).
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