"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 22 dicembre 2021

Paginedaleggere. 74 «Ogni grande comunità è una somma di minoranze».

 

Ha scritto Michele Serra in “Siamo tutti minoranza” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” dell’8 di luglio 2021: (…). È sempre nel nome di presunte maggioranze (…) che si stringono i bulloni dell’intolleranza: salvo poi accorgersi – anche chi si sentiva al riparo – che la stretta riguarda tutti, preme sui muri di ogni casa, leva spazio e respiro ad ogni vita. L’intolleranza non è un metodo selettivo, è una maniera di guardare tutte le persone, ogni persona, come potenziale fonte di seccature, disordine, estraneità. (…). Ogni grande comunità è una somma di minoranze. Il giustamente celebre sermone del pastore luterano Niemoeller, internato dai nazisti a Dachau, lo spiegò una volta per sempre: “Prima vennero a prendere gli zingari, e fui contento perché rubavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi erano antipatici. Poi gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi i comunisti, e non dissi niente perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”. Di seguito, «Le parole per dire “sterminio”» di Miguel Gotor, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 16 di giugno 2021: (…). La ricerca della parola esatta per significare lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti non è un gioco di società, ma riguarda questioni di assoluto rilievo: come raccontare l'indicibile? come nominare l'innominabile? come preservarlo - appunto - dai rischi della banalizzazione, dalla confusione, dalla relativizzazione e dalla distorsione? Il nodo di questa competizione linguistica tra termini diversi nasconde una disputa storica importante tra "relativisti" ed "eccezionalisti" rispetto a cosa sia stato lo sterminio degli ebrei: uno dei tanti genocidi, per quanto particolarmente efferato, avvenuti prima e dopo nella storia dell'umanità oppure, come crediamo, un evento unico ed eccezionale, con una propria "singolarità storica" per usare la definizione offerta da uno studioso come Enzo Traverso? I sostenitori di questa seconda interpretazione pongono l'accento sul fatto che quanto è avvenuto nel cuore dell'Europa è un crimine assoluto non tanto per l'enorme numero dei morti, ma per la sua totale arbitrarietà; a causa della sua organizzazione e pianificazione in termini di apparato burocratico e di meccanismo industriale; per il fatto che gli autori avevano piena consapevolezza di stare compiendo un abominio, di cui pertanto era necessario nascondere ogni traccia agli occhi del mondo. La storia dei concetti di Genocidio, Olocausto e Shoah, (…) merita di essere meglio conosciuta, insieme con le implicazioni psicologiche, culturali, politiche e religiose che sottende, soprattutto quando facciamo un uso pubblico della memoria. La parola Genocidio è come la farina di kamut: sembra avere un'origine etimologica e persino un sapore antichi, ma in realtà è stata prodotta in un laboratorio contemporaneo. La coniò nel 1944 il giurista polacco Raphael Lemkin mescolando il greco ("stirpe") e il latino ("uccisione") con riferimento a quanto subito dagli armeni e dagli ucraini nei decenni precedenti ma con un occhio già rivolto anche a quanto stava accadendo agli ebrei nel cuore dell'Europa. La riflessione teorica di Lemkin servì a definire il delitto di genocidio tra il processo di Norimberga e la Convenzione dell'Onu del 1948, ma mentre quel termine acquistava forza come strumento giuridico erga omnes perdeva inevitabilmente la sua unicità antinazista e per questo alcuni iniziarono a trovarlo inadeguato a designare la specificità degli eventi che avevano travolto gli ebrei. Negli stessi anni nei Paesi anglosassoni si affermò l'uso del vocabolo Olocausto (dal greco "bruciare per intero"), registrato dall'Oxford Dictionary già nel 1942 con lo specifico significato di distruzione degli ebrei. Se nella storia della lingua inglese questo termine aveva ormai perduto ogni connotazione di tipo sacrificale, in altre lingue, come ad esempio il francese e l'italiano, ha continuato a conservarlo. Questo destino semantico ha reso tale parola sottilmente ambigua perché ciò che ha prodotto lo sterminio degli ebrei non è stato un'idea di sacrificio, che prevede dei martiri e dei sacerdoti, ma l'intenzione di distruggere una popolazione intera in quanto e perché tale. Sempre nell'immediato dopoguerra, con l'istituzione dello Stato di Israele nel 1948, prevalse nel mondo ebraico il termine Shoah, traducibile con "distruzione" e "catastrofe" che nel 1951 entrò nel linguaggio ufficiale con l'istituzionalizzazione della Giornata del ricordo della persecuzione denominata Yom ha-Shoah. Il pregio di questa parola, che ha una origine biblica, è quello di appartenere a un campo semantico largo che include anche i concetti di "buio e vuoto totali" e "desolazione assoluta" che ben connotano la disumanità del progetto nazista. Soprattutto in Francia e in Italia l'opera di promozione delle rispettive comunità ebraiche e le scelte compiute dalle istituzioni in favore del termine Shoah nelle loro politiche della memoria hanno consentito a quella parola di sopravanzare nell'uso corrente il lemma Olocausto. Il termine Shoah deve essere preferito a Olocausto e Genocidio perché la sua forza sta nel fatto che, pur collocando l'evento nella storia ebraica, non lo pone al confronto con le altre tragedie precedenti sottolineandone l'aspetto sacro, ma gli offre una sua laica e individuale autonomia storica. In questo modo si attenua il rischio incombente di una de-storicizzazione dello sterminio degli ebrei (…): prima di coltivare la memoria è bene conoscere il linguaggio che la esprime perché, come diceva quel tale, "le parole sono importanti".

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