Ha scritto Michele Serra in “Siamo tutti minoranza” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”
dell’8 di luglio 2021: (…). È sempre nel nome di presunte
maggioranze (…) che si stringono i bulloni dell’intolleranza: salvo poi
accorgersi – anche chi si sentiva al riparo – che la stretta riguarda tutti,
preme sui muri di ogni casa, leva spazio e respiro ad ogni vita. L’intolleranza
non è un metodo selettivo, è una maniera di guardare tutte le persone, ogni
persona, come potenziale fonte di seccature, disordine, estraneità. (…). Ogni grande comunità è una somma di minoranze. Il
giustamente celebre sermone del pastore luterano Niemoeller, internato dai
nazisti a Dachau, lo spiegò una volta per sempre: “Prima vennero a prendere gli
zingari, e fui contento perché rubavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e
stetti zitto, perché mi erano antipatici. Poi gli omosessuali, e fui sollevato,
perché mi erano fastidiosi. Poi i comunisti, e non dissi niente perché non ero
comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a
protestare”. Di seguito, «Le parole per dire
“sterminio”» di Miguel Gotor, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 16 di giugno 2021: (…). La ricerca della parola esatta per
significare lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti non è un gioco di
società, ma riguarda questioni di assoluto rilievo: come raccontare
l'indicibile? come nominare l'innominabile? come preservarlo - appunto - dai
rischi della banalizzazione, dalla confusione, dalla relativizzazione e dalla
distorsione? Il nodo di questa competizione linguistica tra termini diversi
nasconde una disputa storica importante tra "relativisti" ed
"eccezionalisti" rispetto a cosa sia stato lo sterminio degli ebrei:
uno dei tanti genocidi, per quanto particolarmente efferato, avvenuti prima e
dopo nella storia dell'umanità oppure, come crediamo, un evento unico ed
eccezionale, con una propria "singolarità storica" per usare la
definizione offerta da uno studioso come Enzo Traverso? I sostenitori di questa
seconda interpretazione pongono l'accento sul fatto che quanto è avvenuto nel
cuore dell'Europa è un crimine assoluto non tanto per l'enorme numero dei
morti, ma per la sua totale arbitrarietà; a causa della sua organizzazione e
pianificazione in termini di apparato burocratico e di meccanismo industriale;
per il fatto che gli autori avevano piena consapevolezza di stare compiendo un
abominio, di cui pertanto era necessario nascondere ogni traccia agli occhi del
mondo. La storia dei concetti di Genocidio, Olocausto e Shoah, (…) merita di
essere meglio conosciuta, insieme con le implicazioni psicologiche, culturali,
politiche e religiose che sottende, soprattutto quando facciamo un uso pubblico
della memoria. La parola Genocidio è come la farina di kamut: sembra avere
un'origine etimologica e persino un sapore antichi, ma in realtà è stata
prodotta in un laboratorio contemporaneo. La coniò nel 1944 il giurista polacco
Raphael Lemkin mescolando il greco ("stirpe") e il latino
("uccisione") con riferimento a quanto subito dagli armeni e dagli
ucraini nei decenni precedenti ma con un occhio già rivolto anche a quanto
stava accadendo agli ebrei nel cuore dell'Europa. La riflessione teorica di
Lemkin servì a definire il delitto di genocidio tra il processo di Norimberga e
la Convenzione dell'Onu del 1948, ma mentre quel termine acquistava forza come
strumento giuridico erga omnes perdeva inevitabilmente la sua unicità
antinazista e per questo alcuni iniziarono a trovarlo inadeguato a designare la
specificità degli eventi che avevano travolto gli ebrei. Negli stessi anni nei
Paesi anglosassoni si affermò l'uso del vocabolo Olocausto (dal greco
"bruciare per intero"), registrato dall'Oxford Dictionary già nel
1942 con lo specifico significato di distruzione degli ebrei. Se nella storia
della lingua inglese questo termine aveva ormai perduto ogni connotazione di
tipo sacrificale, in altre lingue, come ad esempio il francese e l'italiano, ha
continuato a conservarlo. Questo destino semantico ha reso tale parola
sottilmente ambigua perché ciò che ha prodotto lo sterminio degli ebrei non è
stato un'idea di sacrificio, che prevede dei martiri e dei sacerdoti, ma
l'intenzione di distruggere una popolazione intera in quanto e perché tale. Sempre
nell'immediato dopoguerra, con l'istituzione dello Stato di Israele nel 1948,
prevalse nel mondo ebraico il termine Shoah, traducibile con
"distruzione" e "catastrofe" che nel 1951 entrò nel
linguaggio ufficiale con l'istituzionalizzazione della Giornata del ricordo
della persecuzione denominata Yom ha-Shoah. Il pregio di questa parola, che ha
una origine biblica, è quello di appartenere a un campo semantico largo che
include anche i concetti di "buio e vuoto totali" e "desolazione
assoluta" che ben connotano la disumanità del progetto nazista. Soprattutto
in Francia e in Italia l'opera di promozione delle rispettive comunità ebraiche
e le scelte compiute dalle istituzioni in favore del termine Shoah nelle loro
politiche della memoria hanno consentito a quella parola di sopravanzare
nell'uso corrente il lemma Olocausto. Il termine Shoah deve essere preferito a
Olocausto e Genocidio perché la sua forza sta nel fatto che, pur collocando
l'evento nella storia ebraica, non lo pone al confronto con le altre tragedie
precedenti sottolineandone l'aspetto sacro, ma gli offre una sua laica e
individuale autonomia storica. In questo modo si attenua il rischio incombente
di una de-storicizzazione dello sterminio degli ebrei (…): prima di coltivare
la memoria è bene conoscere il linguaggio che la esprime perché, come diceva
quel tale, "le parole sono importanti".
Nessun commento:
Posta un commento