"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 3 dicembre 2021

Paginedaleggere. 72 «Abbiamo il dovere di imbarazzare i nostri figli affinché prendano le distanze da noi, sviluppino il senso critico e costruiscano se stessi in autonomia».

 

Ha scritto Claudia de Lillo – in arte Elasti – in “Agli occhi dei figli nessuna mamma è normale” pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 10 di settembre dell’anno 2016: Quando Malia Obama ha compiuto diciotto anni, incidentalmente lo stesso giorno dell'indipendenza americana, il padre Barack, dopo avere pronunciato un discorso alla nazione sull'importanza della libertà e della sua quotidiana difesa, ha dichiarato: «Il compito dei padri è quello di mettere in imbarazzo i figli». E, senza dar tempo a Malia di smaterializzarsi o teletrasportarsi altrove o attuare una di quelle strategia di fuga che di certo si imparano alla Casa Bianca, il presidenziale genitore ha intonato «Tanti auguri a te» di fronte al mondo intero. Da quel giorno mi sento meno sola e più serena se mio figlio adolescente dice: «Ti prego, madre», soffocato dall'indignazione o dalla vergogna perché, ferma al semaforo, ballo in automobile ascoltando la radio o perché indosso un vestito corto a fiori sgargianti invece del burqa che lui sceglierebbe per me o perché, in un momento d'imperdonabile distrazione o incontenibile affetto, lo bacio in pubblico. Barack e tutti noi che solitamente non parliamo alla nazione, abbiamo il dovere di imbarazzare i nostri figli affinché prendano le distanze da noi, sviluppino il senso critico e costruiscano se stessi in autonomia per poi un giorno, sperabilmente non troppo lontano, tornare da noi e, forti di un'identità solida, guardarci soltanto attraverso le lenti dell'affetto. Quando avevo l'età di mio figlio volevo essere come tutti gli altri. Il conformismo era il mio spirito guida e la presunta normalità era l'evanescente e inafferrabile obiettivo a cui tendevo. Eppure, di quegli anni ibridi e scomodi, l'imbarazzo, il disagio, il fastidio sono mali passeggeri, destinati a rimpicciolirsi in un angolo della nostra memoria. In quell'età di fragilità e superomismo, di paura e spavalderia, si scopre la potenza dei gesti irrituali che possono provocare talvolta rossore, turbamento o vergogna, ma sono espressione di coraggio, di pensiero libero, di indipendenza e di grandezza. Sono gesti irrituali quelli inaspettati e sorprendenti, a volte imbarazzanti, a volte sublimi. È irrituale un improvviso slancio d'affetto ma anche un regalo senza motivo o una dichiarazione d'amore in mezzo a una strada. È irrituale indossare una scarpa blu e una rossa, ma anche prendere una settimana di ferie dal lavoro e partire per un campo profughi, o dire il contrario di quello che gli altri si aspettano. Sono gesti irrituali quelli sbilenchi, anticonformisti, generosi, temerari, diversi, nuovi, che lasciano senza parole ma fanno pensare, che aprono la porta alla diversità, all'alternativa, alla libertà. A tre anni mio figlio di mezzo andava all'asilo con gli occhialini da piscina e, se avesse potuto, avrebbe indossato anche le pinne. Parlava con un amico immaginario di nome Marìotereso che abitava nel muro della cucina e dichiarava di essere «il più medio del mondo». Insieme ballavamo scalzi, a occhi chiusi, davanti allo specchio. Perché ai bambini, di dove vanno gli altri, non importa nulla. Presto anche lui, insieme al suo sguardo obliquo, vorrà camminare, come il fratello, sui fragili ma rassicuranti e diritti binari dell'anonimato e reprimerà i guizzi sghembi. La tentazione di assecondare i figli, di mimetizzarsi, di «fare i normali», come dicono loro, è prepotente e allettante perché aspettare che passi la tempesta non richiede alcuna fatica. E invece non ci tratterremo e affermeremo il nostro diritto e il nostro dovere di assomigliare soltanto a noi stessi e, se occorre, di imbarazzarli. Perché è all'irritualità del vivere, ben più che alla sua normalità, che devono ambire. Pertanto, continuiamo pure a ballare ascoltando la radio, a baciarli in pubblico, a vestirci come ci pare, a cantare «tanti auguri» in luoghi inopportuni, a resistere, a dire no, a essere strani e diversi. Facciamolo per loro ma soprattutto per noi. Perché sono quelli irrituali, i gesti che più parlano di noi. Perché la libertà è un esercizio quotidiano che, se non si pratica, si dimentica. Di seguito, “La lettera a mia madre che non ho mai potuto scrivere” di Paolo Sorrentino, pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” di oggi venerdì 3 di dicembre 2021: Chissà se, nell’aldilà, è consentito andare al cinema. Così mia madre potrebbe vedere la lettera che le ho scritto, attraverso questo film. La lettera che sosta tutti i giorni nell’anima dei figli diventati grandi. Dove scriviamo, col pensiero e con le parole che non abbiamo detto, quella meraviglia che è stata o non è stata, ma che sempre rimarrà nella nostra vita sentimentale, l’idea di meraviglioso. Abbiamo avuto madri meravigliose e da ragazzi non lo sapevamo. Coltivavano pedagogie traballanti, fameliche di sensi di colpa. Mia madre, per esempio, nei momenti di conflitto, era solita dire: "Quando non ci sarò più, soffrirete tantissimo". Non volevamo crederci, perché rifiutavamo il concetto di scomparsa. Invece, naturalmente, è stato così. Come poteva essere altrimenti. Era uno squarcio di cattiveria gratuita e in buona fede. D’altronde la cattiveria tende a essere sempre gratuita. Ma era un altro mondo. Mia madre era sbrigativa ma molto affettuosa. L’ironia era il sollievo per qualsiasi problema. Ai primi sintomi di adolescenza, quando si cominciava a frequentare, con quella gravosità affranta, la profondità, mia madre ricorreva a uno strumento irritante: minimizzava. Da adulto, ho compreso. Mi è parsa l’unica strada. Minimizzare. Non è utile, ma è difficile rintracciarne altre. Oggi l’educazione dei figli è una missione. Per la generazione di mia madre era solo un altro fardello che la vita imponeva. Eppure, era tutto amore. Ma l’ho capito dopo. E quando ho avuto le parole per dirglielo, lei non c’era più. Per questo mi piace pensare, con un’ingenuità da bambino profondo, che nell’aldilà si possa vedere un film. Per dire quello che non ho potuto dire. E per chi può, ho un solo consiglio: ditelo. A costo di essere ridicoli, sentimentali e pieni di lacrime. È necessario, per diventare grandi, passare attraverso le porte del ridicolo e del pianto. Il pianto degli adulti. L’unico modo, per una madre, di ritrovare, davanti a sé, il bambino meraviglioso che tutti siamo stati.

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