Ha scritto Claudia de Lillo – in arte Elasti – in “Agli occhi dei figli nessuna mamma è
normale” pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del
10 di settembre dell’anno 2016: Quando Malia Obama ha compiuto diciotto
anni, incidentalmente lo stesso giorno dell'indipendenza americana, il padre
Barack, dopo avere pronunciato un discorso alla nazione sull'importanza della
libertà e della sua quotidiana difesa, ha dichiarato: «Il compito dei padri è quello
di mettere in imbarazzo i figli». E, senza dar tempo a Malia di
smaterializzarsi o teletrasportarsi altrove o attuare una di quelle strategia
di fuga che di certo si imparano alla Casa Bianca, il presidenziale genitore ha
intonato «Tanti auguri a te» di fronte al mondo intero. Da quel giorno mi sento
meno sola e più serena se mio figlio adolescente dice: «Ti prego, madre»,
soffocato dall'indignazione o dalla vergogna perché, ferma al semaforo, ballo
in automobile ascoltando la radio o perché indosso un vestito corto a fiori
sgargianti invece del burqa che lui sceglierebbe per me o perché, in un momento
d'imperdonabile distrazione o incontenibile affetto, lo bacio in pubblico. Barack
e tutti noi che solitamente non parliamo alla nazione, abbiamo il dovere di
imbarazzare i nostri figli affinché prendano le distanze da noi, sviluppino il
senso critico e costruiscano se stessi in autonomia per poi un giorno,
sperabilmente non troppo lontano, tornare da noi e, forti di un'identità
solida, guardarci soltanto attraverso le lenti dell'affetto. Quando avevo l'età
di mio figlio volevo essere come tutti gli altri. Il conformismo era il mio
spirito guida e la presunta normalità era l'evanescente e inafferrabile
obiettivo a cui tendevo. Eppure, di quegli anni ibridi e scomodi, l'imbarazzo,
il disagio, il fastidio sono mali passeggeri, destinati a rimpicciolirsi in un
angolo della nostra memoria. In quell'età di fragilità e superomismo, di paura
e spavalderia, si scopre la potenza dei gesti irrituali che possono provocare
talvolta rossore, turbamento o vergogna, ma sono espressione di coraggio, di
pensiero libero, di indipendenza e di grandezza. Sono gesti irrituali quelli
inaspettati e sorprendenti, a volte imbarazzanti, a volte sublimi. È irrituale
un improvviso slancio d'affetto ma anche un regalo senza motivo o una
dichiarazione d'amore in mezzo a una strada. È irrituale indossare una scarpa
blu e una rossa, ma anche prendere una settimana di ferie dal lavoro e partire
per un campo profughi, o dire il contrario di quello che gli altri si
aspettano. Sono gesti irrituali quelli sbilenchi, anticonformisti, generosi,
temerari, diversi, nuovi, che lasciano senza parole ma fanno pensare, che
aprono la porta alla diversità, all'alternativa, alla libertà. A tre anni mio
figlio di mezzo andava all'asilo con gli occhialini da piscina e, se avesse
potuto, avrebbe indossato anche le pinne. Parlava con un amico immaginario di
nome Marìotereso che abitava nel muro della cucina e dichiarava di essere «il
più medio del mondo». Insieme ballavamo scalzi, a occhi chiusi, davanti allo
specchio. Perché ai bambini, di dove vanno gli altri, non importa nulla. Presto
anche lui, insieme al suo sguardo obliquo, vorrà camminare, come il fratello,
sui fragili ma rassicuranti e diritti binari dell'anonimato e reprimerà i
guizzi sghembi. La tentazione di assecondare i figli, di mimetizzarsi, di «fare
i normali», come dicono loro, è prepotente e allettante perché aspettare che
passi la tempesta non richiede alcuna fatica. E invece non ci tratterremo e
affermeremo il nostro diritto e il nostro dovere di assomigliare soltanto a noi
stessi e, se occorre, di imbarazzarli. Perché è all'irritualità del vivere, ben
più che alla sua normalità, che devono ambire. Pertanto, continuiamo pure a
ballare ascoltando la radio, a baciarli in pubblico, a vestirci come ci pare, a
cantare «tanti auguri» in luoghi inopportuni, a resistere, a dire no, a essere
strani e diversi. Facciamolo per loro ma soprattutto per noi. Perché sono
quelli irrituali, i gesti che più parlano di noi. Perché la libertà è un
esercizio quotidiano che, se non si pratica, si dimentica. Di seguito, “La lettera a mia madre che non ho mai
potuto scrivere” di Paolo Sorrentino, pubblicata sul quotidiano “la
Repubblica” di oggi venerdì 3 di dicembre 2021: Chissà se, nell’aldilà, è
consentito andare al cinema. Così mia madre potrebbe vedere la lettera che le
ho scritto, attraverso questo film. La lettera che sosta tutti i giorni nell’anima
dei figli diventati grandi. Dove scriviamo, col pensiero e con le parole che
non abbiamo detto, quella meraviglia che è stata o non è stata, ma che sempre
rimarrà nella nostra vita sentimentale, l’idea di meraviglioso. Abbiamo avuto
madri meravigliose e da ragazzi non lo sapevamo. Coltivavano pedagogie
traballanti, fameliche di sensi di colpa. Mia madre, per esempio, nei momenti
di conflitto, era solita dire: "Quando non ci sarò più, soffrirete
tantissimo". Non volevamo crederci, perché rifiutavamo il concetto di
scomparsa. Invece, naturalmente, è stato così. Come poteva essere altrimenti.
Era uno squarcio di cattiveria gratuita e in buona fede. D’altronde la
cattiveria tende a essere sempre gratuita. Ma era un altro mondo. Mia madre era
sbrigativa ma molto affettuosa. L’ironia era il sollievo per qualsiasi
problema. Ai primi sintomi di adolescenza, quando si cominciava a frequentare,
con quella gravosità affranta, la profondità, mia madre ricorreva a uno
strumento irritante: minimizzava. Da adulto, ho compreso. Mi è parsa l’unica
strada. Minimizzare. Non è utile, ma è difficile rintracciarne altre. Oggi
l’educazione dei figli è una missione. Per la generazione di mia madre era solo
un altro fardello che la vita imponeva. Eppure, era tutto amore. Ma l’ho capito
dopo. E quando ho avuto le parole per dirglielo, lei non c’era più. Per questo
mi piace pensare, con un’ingenuità da bambino profondo, che nell’aldilà si
possa vedere un film. Per dire quello che non ho potuto dire. E per chi può, ho
un solo consiglio: ditelo. A costo di essere ridicoli, sentimentali e pieni di
lacrime. È necessario, per diventare grandi, passare attraverso le porte del
ridicolo e del pianto. Il pianto degli adulti. L’unico modo, per una madre, di
ritrovare, davanti a sé, il bambino meraviglioso che tutti siamo stati.
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