Ha scritto Michele Serra in “Gli archivi tra le nuvole” pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 28 di novembre 2021: (…). Non si capisce perché mai i
rivoluzionari in servizio permanente chiacchierino così tanto, e così
volentieri, della fantomatica dittatura sanitaria, piuttosto che affrontare
l'evidenza: il capitalismo della sorveglianza (dal titolo del notevole libro di
Shoshana Zuboff) è già in atto, e non ha avuto alcun bisogno di iniettarci chip
con i vaccini. Gli basta la nostra distratta arrendevolezza quando, pur di
levarci di torno i banner che ostruiscono il nostro cammino on line, clicchiamo
"accetto" ai vari cookies. Di noi tutto è già noto e custodito in
sterminati archivi sospesi tra le nuvole. Se ci va bene, gli archivisti ne
faranno solo un uso commerciale. Se ci va male, anche un uso politico. Capita
che la forma di cattività già in atto, che è quella del consumismo
"scientifico", programmato e somministrato dose per dose, persona per
persona, rischi di passare quasi inosservata, a favore di fantasmi e paranoie
destinate a sparire nel nulla, prive come sono di spessore critico e di peso
politico. Un bravo complottista direbbe dunque che i No Vax, e i teorici della
dittatura sanitaria, sono utilissimi al potere perché distraggono dai veri
conflitti e dalle nuove forme di dominio e subalternità. Di seguito, “Caro Agamben, ti scrivo”, lettera “aperta”
di Donatella Di Cesare al Suo collega “filosofo” Giorgio Agamben, pubblicata
sul settimanale “L’Espresso” del 19 di dicembre 2021: Mentre volge al termine il
secondo anno della pandemia planetaria non si può fare a meno di riconoscere,
tra i tanti devastanti effetti dell’immane catastrofe, un evento tragico che
investe in pieno la filosofia. Vorrei chiamarlo il “caso Agamben”, non per
oggettualizzare il protagonista, a cui invece mi rivolgo, come scrivendogli una
lettera da lontano, bensì per sottolinearne l’importanza. Giorgio Agamben -
piaccia o no - è stato ed è il filosofo più significativo di questi ultimi
decenni, non solo nello scenario europeo, ma in quello mondiale. Dalle aule
universitarie statunitensi ai più periferici gruppi antagonisti latinoamericani
il nome di Agamben, per qualche verso anche al di là del filosofo, è diventato
l’insegna di un nuovo pensiero critico. Per quelli della mia generazione, che
hanno vissuto gli anni Settanta, i suoi libri - soprattutto a partire da “Homo
sacer. Il potere sovrano e la nuda vita” del 1995 - hanno costituito la
possibilità non solo di scrutare il fondo inquietante e autoritario del
neoliberismo, ma anche di smascherare la pseudosinistra vincente e annacquata,
che oggi si autodefinisce progressismo moderato. Nessuna critica del progresso,
un inventario filosofico fermo tutt’al più agli anni Ottanta, una pratica della
politica che la riduce a governance amministrativa sotto il dettato
dell’economia. Sulla scia della migliore tradizione del Novecento - da Foucault
ad Arendt, da Benjamin a Heidegger - Agamben ci ha offerto il vocabolario e il
repertorio concettuale per tentare di orientarci nel complesso scenario del XXI
secolo. Come dimenticare le pagine sul “campo”, che dopo Auschwitz, anziché
scomparire, entra a far parte del paesaggio politico, e ancora quelle sulla
nuda vita, anzitutto di chi è esposto senza diritti, o sulla democrazia
post-totalitaria che mantiene un legame con il passato? Tanto più traumatico è
quel che accaduto. Nel blog “Una voce”, ospitato sul sito della casa editrice
Quodlibet, Agamben ha preso a commentare l’irruzione del coronavirus in termini
semigiornalistici. Il primo post del 26 febbraio 2020 era intitolato
“L’invenzione di una pandemia”. Oggi suona come una funesta profezia. Allora
Agamben non era però il solo a illudersi che il Covid-19 fosse poco meno che un’influenza.
Mancavano dati e l’entità del male non si era ancora rivelata. Nel mio
pessimismo, che mi spingeva a scorgere nei primi segnali l’ingresso di una
nuova epoca, mi sentivo circondata da persone che preferivano minimizzare o
rimuovere. Durante il lockdown fummo tutti colpiti dalle misure prese per
contrastare il virus, tanto indispensabili quanto scioccanti. La vita confinata
tra le mura domestiche, consegnata allo schermo, privata degli altri e della
polis, ci sembrò quasi insopportabile - fin quando non emerse la sofferenza di
chi, senza respiro, lottava per la vita nelle terapie intensive. L’immagine dei
camion che a Bergamo trasportavano i feretri segnò per tutto il mondo il punto
di non ritorno. Il virus sovrano, che i regimi sovranisti, da Trump a
Bolsonaro, pretendevano o di ignorare grottescamente o di piegare ai propri
scopi, si manifestò in tutta la sua terribile potenza. La catastrofe era
ingovernabile. E metteva allo scoperto meschinità e inettitudine della politica
dei confini chiusi. L’Europa reagì. Per Agamben era tempo di riconoscere a
chiare lettere: «Ho commesso un errore interpretativo, perché la pandemia non è
un’invenzione». Ma Agamben non ha mai rettificato. I suoi post si sono
susseguiti fino a luglio 2020 con lo stesso tenore. Mentre la notizia del suo
incipiente negazionismo si diffondeva all’estero, leggevo quelle righe
imbarazzanti convinta che l’incubo sarebbe presto finito. Così non è stato. I
post sono diventati materia di due libri e la “voce” del blog ha continuato a
vaticinare raggiungendo il punto più basso con due interventi del luglio 2021 -
“Cittadini di seconda classe” e “Tessera verde” - dove il green pass viene
paragonato alla stella gialla. Un paragone osceno, che ha dato la stura ai
peggiori movimenti no vax legittimandoli. Il resto, compresa la “Commissione
per il dubbio e la precauzione”, è storia recente. È motivata la preoccupazione
per una deriva securitaria. La politica della paura, la fobocrazia che governa
e sottomette il “noi” instillando il timore per ciò che è fuori, fomentando
l’odio per l’altro, è il fenomeno politico attuale che caratterizza le
democrazie immunitarie e precede la pandemia. In modi diversi lo hanno
denunciato filosofi, sociologi, economisti, politologi. Altrettanto giusto è
sostenere che il contesto italiano è sotto questo aspetto un laboratorio
politico senza uguali. Tuttavia non si può confondere lo stato d’emergenza con
lo stato d’eccezione. Un terremoto, un’alluvione, una pandemia sono un evento
inatteso che va fronteggiato nella sua necessità. Lo stato d’eccezione è
dettato da una volontà sovrana. Certo l’uno può sconfinare nell’altro e siamo
perciò consapevoli sia del pericolo di uno stato d’emergenza istituzionalizzato
sia della minaccia rappresentata da quelle misure di controllo e sorveglianza
che, una volta inserite, rischiano di diventare incancellabili. È vero: non c’è
governo che non possa valersi della pandemia. Manteniamo il sospetto, che è il
sale della democrazia. Ma il passo ulteriore, quello della deriva complottistica,
non lo compiamo. Perciò non diciamo né che l’epidemia da Covid-19 è
un’invenzione né che viene presa a pretesto intenzionalmente, come fa Agamben
nell’avvertenza del suo libro: «Se i poteri che governano il mondo hanno deciso
di cogliere il pretesto di una pandemia - a questo punto non importa se vera o
simulata…». Personalizzare il potere, renderlo un soggetto con tanto di
volontà, attribuirgli un’intenzione, significa avallare una visione
complottistica. E vuol dire anche non considerare il ruolo della tecnica,
quell’ingranaggio che, come insegna Heidegger, impiega quanti pretenderebbero
di impiegarlo. I progettisti diventano i progettati. Non si può oggi non vedere
il potere attraverso questo dispositivo. Proprio il virus sovrano ha mostrato
tutti i limiti di un potere che gira a vuoto, ingiusto, violento, e tuttavia
impotente di fronte al disastro, incapace di affrontare la malattia del mondo. No,
non mi associo alla vulgata anticomplottista di quelli che, certi di possedere
ragione e verità, riducono un fenomeno complesso a un crampo mentale o a una
menzogna. Con tanto più rammarico dico che le cupe insinuazioni di Agamben, le
sue dichiarazioni sulla «costruzione di uno scenario fittizio» e sulla
«organizzazione integrale del corpo dei cittadini», che rinviano a un nuovo
paradigma di biosicurezza e a una sorta di terrore sanitario, lo inscrivono
purtroppo nel panorama attuale del complottismo. Com’è noto Agamben si è
ritrovato a destra, anzi all’ultradestra, con un seguito di no vax e no pass.
Di tanto in tanto si è perfino scagliato contro chi a sinistra difendeva il
piano di vaccinazione. Non mi risulta, invece, che in questi due anni abbia
speso una parola per le rivolte nelle carceri, per gli anziani decimati nelle
rsa, per i senzatetto abbandonati nelle città, per quelli rimasti d’un tratto
senza lavoro, per i rider, i braccianti e gli invisibili. Mi sarei aspettata
dal filosofo che ci ha fatto riflettere sulla “nuda vita” un appello per i
migranti che alle frontiere europee vengono brutalizzati, respinti, lasciati
morire. Anzi, un’iniziativa che, con la sua autorevolezza, avrebbe avuto certo
peso. Nulla di ciò. Ci ha costretto spesso a elucubrazioni fuorvianti e
soprattutto, prendendo posizioni paradossali, ci ha spinto verso il senso
comune. Per quel che mi riguarda forse questo è uno dei maggiori danni, dato
che la filosofia richiede radicalità. Ma i danni sono ulteriori e difficilmente
stimabili, a partire da un sovrappiù di discredito gettato sulla filosofia. Per
noi agambeniani, sopravvissuti a questo trauma, si tratterà di ripensare
categorie concetti, termini, alcuni - come “stato d’eccezione” - divenuti quasi
ormai grotteschi. E sarà necessario salvare Agamben da Agamben, il lascito del
suo pensiero da questa deriva. Né si può sorvolare sulla questione politica,
dato che viene meno nel modo peggiore uno dei punti decisivi di riferimento per
una sinistra che non si arrende né al neoliberismo né alla versione del
progressismo moderato. Il cammino sarà impervio.
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