A lato. "Un Natale da favola". Da salvare, costi quel che costi.
Ha scritto Marco Travaglio in “Vaccate di Natale” su “il Fatto Quotidiano” di oggi domenica 19 di
dicembre 2021: “Un piano per salvare il Natale” (Repubblica), “Arriva il Dpcm per
salvare il Natale” (Fatto), “Sacrifici per salvare il Natale” (Messaggero),
”Vogliono rubarci il Natale” (Verità), “Un Natale con poche aperture”
(Corriere), “Giù le mani dalla nostra festa” (Panarari, Stampa), “Salvateci
almeno il Natale” (Sorgi, Stampa), “Natale come agosto” (Giornale), “Il premier
sul Natale: ‘Baci e abbracci sono impensabili’” (Corriere), “Tregua di Natale
sulle chiusure” (Rep), “Chiusure, la tregua di Natale” (Messaggero), “Feste e
distanziamento: che tristezza il non Natale” (Battista, Corriere), “Quei riti
di Natale restano un diritto per tutti i bambini” (Ajello, Messaggero), “I
governatori tentano di salvare il Pil di Natale” (Stampa), “Pretendono di dare
ordini pure a Gesù Bambino” (Farina, Libero). No, non sono i titoli di oggi:
sono di un anno fa (…). Tratto da “Arriva
il Natale del nuovo inizio” di Michele Serra, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 24 di dicembre dell’anno 2020:
Lo scorso Natale eravamo alle
prese, chi più chi meno, con i menù allegramente esagerati della tradizione, e
l’arte dell’allungamento dei tavoli si manifestava in tutta la sua geometrica
potenza. L’orda dei parenti, i desiderati e gli indesiderati, batteva alle
porte. Tutto sembrava normale e ricorrente, i piaceri e le scocciature. Nessuno
sospettava che il cielo stava per caderci sulla testa. Il virus, poco importa
se nella sua variante cinese, bergamasca o marziana, già stava acquattato in
mezzo a noi. Questo Natale il diametro dei tegami e il volume delle pentole è
perlomeno dimezzato, ci si prepara a minime riunioni, abbracci lontanissimi,
brindisi a bassa voce. Qualcuno anche a niente, a una solitudine non sempre
greve, a un silenzio che, volendo, è molto natalizio. Il cielo ci è già caduto
sulla testa, è tra i suoi cocci che camminiamo cauti e salutiamo i morti,
calcolando a tentoni i giorni dell’avvento, quelli che ci separano dal nuovo
inizio, l’anno nascente, le speranze legate al vaccino, forse la riduzione
della catastrofe all’ordinaria gestione di una malattia minacciosa, ma non più
in grado di dettare l’agenda del mondo. Tra i due Natali quello era molto più spensierato,
ma questo è ben più cosciente, diciamo più calzante alla nostra condizione. Non
sapevamo niente, ora sappiamo anche troppo, perfino di quanti metri è la
gittata della nebulosa di sputi che restituiamo al mondo ad ogni respiro, ogni
parola, ogni boccone, ogni canzone (in Svizzera è vietato cantare, ho letto da
qualche parte, chissà se è vero o se è una delle tante fole in corso d’opera,
che di verificarle una per una francamente non abbiamo più la forza, e nemmeno
la voglia). Non possiamo dire di avere perduto l’innocenza, perché quella non è
di questo mondo e non la conoscevamo proprio, nemmeno prima del virus. Possiamo
dire, però, di avere perso qualche certezza e di avere capito un pochino meglio
che madre natura non concede deroghe ai suoi figli, e rimescola morte e vita
secondo il suo arbitrio. Che ci si ammala e si muore, sia pure con molti
comfort sanitari in più rispetto ai nostri avi. Che siamo in trincea, ma non
disarmati. E soprattutto che il tempo, passando, uccide, ma anche salva, riordina,
cambia. Ecco: cambia. Nella minacciosa immobilità delle varie clausure, rosse
arancioni gialle, ci eravamo quasi dimenticati di questa
formidabile regola del cosmo: tutto cambia, niente rimane uguale. Ci
credevamo inchiodati, non lo siamo. Anche la pandemia, vista dall’alto dei
tempi, è appena un attimo. Un brutto attimo, ma un attimo. I cristiani hanno
calendarizzato l’avvento, che raccoglie i giorni prima della nascita del
bambino incaricato di salvare l’umanità. In senso più lato, e forse più credibile,
il solstizio d’inverno è la porta del domani, il nuovo giro, la vita che
ricomincia. Questo sentimento (che ha, per altro, le sue solide pezze
d’appoggio astronomiche) è particolarmente forte al termine di questo micidiale
2020, che ci lascia così indolenziti. Beato chi attende la redenzione, il
miracolo, la Salvezza con la maiuscola, noi siamo già molto felici di sperare
che la fatica umana - la scienza ne è parte rilevante - ci venga in soccorso,
che il vaccino funzioni, che il dolore e la morte siano riportati alla norma,
che abbia fine questo lutto eccezionale. Si tratta di attese differenti ma è
bello poterle condividere, e dobbiamo rendere grazie alla religione cristiana
per avere scelto, come suo mito fondante, una nascita. Il simbolo della
natività è il più universale, è un giro di pagina magnifico e inequivoco, al di
sopra di ogni dubbio e di ogni commento. Se il presepe allieta anche molte case
di miscredenti è proprio perché incarna, per chi non crede nella divinità, la
vita: e i due concetti non sono poi così diversi e così distanti. Dunque questo
Natale rarefatto, sofferente, distanziato, è, se possibile, perfino più Natale
del consueto: meno scontato, meno facile, più concentrato sulla sua essenza,
che è festeggiare l’inizio. Dopo un anno passato a temere che tutto stesse
finendo, solo parlare di inizio è già una enorme consolazione. E continuiamo
a dimenticare, nella nostra cieca ostinazione,
“questa formidabile regola del
cosmo: tutto cambia, niente rimane uguale”.
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