A lato. Leila e Sebastiao Salgado.
Tratto da “Spegnere
i giorni del fuoco”, intervista di Anais Ginori a Sebastiao Salgado
pubblicata sul settimanale Robinson del quotidiano la Repubblica il 14 di
settembre 2019:
(…). Che cosa ha pensato vedendo le immagini degli incendi? «Sapevamo che sarebbe successo. La foresta tropicale non brucia facilmente perché è rigogliosa, il legno è fresco, bisogna prima abbatterlo e aspettare che secchi. E quindi erano mesi che si preparavano gli incendi, tutti ci eravamo accorti di un’accelerazione nel disboscamento che purtroppo non è nuovo. Negli ultimi cinquant’anni è stato distrutto quasi il venti per cento dell’Amazzonia. Bolsonaro non fa altro che continuare in modo ancora più brutale. Dall’epoca della dittatura militare è stata promossa una politica di colonizzazione delle terras devolutas, abbattendo foreste, costruendo immense fattorie. E anche dopo l’arrivo della democrazia si è continuato. Ci sono stati governi più complici, altri che hanno solo fatto finta di niente. Ora Bolsonaro è più pericoloso perché vuole destabilizzare anche le zone finora preservate».
(…). Che cosa ha pensato vedendo le immagini degli incendi? «Sapevamo che sarebbe successo. La foresta tropicale non brucia facilmente perché è rigogliosa, il legno è fresco, bisogna prima abbatterlo e aspettare che secchi. E quindi erano mesi che si preparavano gli incendi, tutti ci eravamo accorti di un’accelerazione nel disboscamento che purtroppo non è nuovo. Negli ultimi cinquant’anni è stato distrutto quasi il venti per cento dell’Amazzonia. Bolsonaro non fa altro che continuare in modo ancora più brutale. Dall’epoca della dittatura militare è stata promossa una politica di colonizzazione delle terras devolutas, abbattendo foreste, costruendo immense fattorie. E anche dopo l’arrivo della democrazia si è continuato. Ci sono stati governi più complici, altri che hanno solo fatto finta di niente. Ora Bolsonaro è più pericoloso perché vuole destabilizzare anche le zone finora preservate».
Chi sono i colpevoli? «Bolsonaro ha detto in
campagna elettorale che bisognava allargare la superficie abitata e coltivata
dell’Amazzonia. Non appena è arrivato al potere ha tolto tutti i tecnici del
ministro dell’Ambiente sostituiti da militari di sua fiducia. Ha eliminato la
legge che puniva i responsabili di deforestazione. E poi ha tagliato i fondi al
Funai, l’organismo statale che si occupa delle riserve degli indiani che
rappresentano territori grandi due volte e mezzo la Francia. Non c’è niente di
casuale, tutto è stato pianificato. Anche il momento in cui scatenare gli
incendi. È stato fissato il giorno del fuoco».
Sta dicendo che c’è stato un coordinamento? «Certo,
tutte le fattorie dell’Amazzonia sono collegate via radio, con la regia di
gruppi dell’agroalimentare di destra o estrema destra che hanno votato per
Bolsonaro. L’altra forza destabilizzante per l’Amazzonia sono le sette
evangeliche che vogliono convertire gli indiani, pensano di catechizzare queste
anime. Bolsonaro e sua moglie fanno parte di una setta, rappresentano anche
questo elettorato».
Anche la sinistra, il Partito dei
lavoratori, ha delle colpe? «Il Brasile è l’unico Paese al mondo in cui la
classe operaia è arrivata al potere senza la lotta armata. La vittoria di Lula
nel 2003 è stato un grande momento. Lula ha fatto tante cose per dare più
tutele agli indiani in Amazzonia anche se non ha saputo cambiare davvero il
modello produttivista dell’industria agro-alimentare. Né lui, né Dilma
Rousseff».
Lula adesso è in carcere, fatica a esserci
una vera opposizione a Bolsonaro. «All’epoca ho sostenuto Lula come tante altre
persone di sinistra ma oggi sono duro con lui perché ha compiuto tremendi
errori. Il più grave è essersi intestardito a essere il candidato del Partito
dei lavoratori l’anno scorso, nonostante fosse ovvio che sarebbe finito in
galera. Il Pt avrebbe potuto vincere le elezioni. Lula non lo ha permesso, ha
tenuto il partito in ostaggio. E quando finalmente c’è stato il via libera alla
candidatura di Fernando Haddad, che per me è fantastico, era già troppo tardi,
non c’era più tempo di fare campagna elettorale. In un certo senso, Lula ha
permesso che Bolsonaro arrivasse al potere. È una colpa gravissima».
Come si può fermare la devastazione dell’Amazzonia?
«Attraverso la mobilitazione internazionale Bolsonaro rischia di perdere
l’appoggio di una parte della grande industria agroalimentare che ora teme
conseguenze sulle esportazioni. I governi europei devono fermare l’accordo di
libero scambio con il Brasile e gli altri paesi dell’America latina, quel
Mercosur che la Francia ha già detto di non voler più sottoscrivere. Anche
l’Italia deve rinunciare a questa intesa che spinge ad aumentare la superficie
coltivabile e quindi la deforestazione. Aggiungo poi che Bolsonaro ha
liberalizzato i prodotti più tossici nell’agricoltura, e quindi attraverso il
Mercosur i paesi europei rischiano di essere invasi da cibo avvelenato».
C’è qualcosa di visionario nel suo lavoro? «Quando
negli anni Ottanta ho cominciato a lavorare sulla fine della seconda
rivoluzione industriale nel progetto La mano dell’uomo ho passato anni a
osservare la trasformazione del lavoro e dei sistemi produttivi automatizzati
accompagnati dallo spostamento dell’industria verso paesi nei quali la
manodopera era a basso costo. All’epoca nessuno parlava ancora di
globalizzazione, ma ho sentito che era un altro grande tema. In modo naturale
ho deciso di occuparmi della riorganizzazione della famiglia umana. È nato il
progetto In cammino che parla degli spostamenti di popolazioni,
dell’immigrazione, è una storia dentro alla quale stiamo ancora, ma che per me
rappresenta un ciclo chiuso».
Perché? «Ho avuto molti riconoscimenti per
In cammino, ma per me è stato un lavoro molto pesante. Ne sono uscito provato,
in qualche modo anche depresso a causa di tutta la violenza umana che avevo
visto. Sono tornato con Lélia nelle mie terre natali, nella regione del Minas
Gerais, per ricostruirmi fisicamente e mentalmente. È stato così che sono
arrivato all’ecologia. Mi è sembrato evidente allora – eravamo all’inizio degli
anni Duemila – che sarebbe stata la grande storia del nuovo secolo. Per otto
anni ho girato il mondo verso i luoghi più incontaminati del pianeta e ho
lavorato molto in Amazzonia».
Fotografare la natura è molto diverso? «Fino
a Genesis mi ero occupato di un solo animale, l’Uomo. E sinceramente non sapevo
come avrei fatto. Poi ho scoperto che, quale che sia il soggetto, bisogna
cominciare con un atto d’amore. Ci devi mettere il cuore. Per fotografare gli
umani devi rispettarli, parlarci, capire da dove vengono, che cosa desiderano.
Devi farti accettare perché solo così riceverai la foto che cerchi. Il mio
primo reportage per Genesis era alle Galapagos. Volevo vedere le tartarughe ma loro
sfuggivano al mio obiettivo».
Alla fine ci è riuscito. «Dopo giorni di
blocco totale ho immaginato di essere anche io una tartaruga. Mi sono messo a
terra e sono avanzato lentamente a carponi. Le tartarughe mi hanno finalmente
accolto nel loro mondo. Un’altra volta in Brasile ho fatto la stessa cosa in
una riserva di caimani. Sono diventato un coccodrillo, e giuro che i caimani
ridevano e alla fine sembravano quasi mettersi in posa. Per fotografare un
albero è uguale. Devi amarlo, rispettare il suo silenzio, farti accogliere
nella luce e nello spazio. Mi ricordo che all’inizio il mio agente a Londra mi
diceva: “Sebastião, non farlo, è un rischio, sei un fotografo sociale, ti
rovinerai”».
Questa funzione sociale è scomparsa? «Il
problema è che siamo animali politici. Tutto quello che facciamo si inserisce
nella società e nel momento storico, quindi è ovvio che c’è una componente
sociale anche in Genesis o nel mio nuovo progetto. Oggi mi interessa
soprattutto che le mie foto insegnino alle persone ad amare l’Amazzonia, a
capire la bellezza di questi paesaggi, la ricchezza della cultura indiana, e il
bisogno di proteggerla. La militanza, l’impegno, viene dopo. Non ho nessun
messaggio politico».
Crede in Dio? «No, non sono credente. Per me
il grande pensiero spirituale è l’evoluzione del mondo minerale, vegetale,
animale. Da quando ho cominciato Genesis mi sento parte di quest’armonia. C’è
una perfezione che mi sorprende ogni volta. I cristiani rispettano Cristo, io
rispetto Darwin».
Perché ha deciso di impegnarsi concretamente
attraverso l’Instituto Terra? «Con Lélia abbiamo ripreso la fattoria dei miei
genitori. Sono figlio di contadini, anche io ho partecipato alla
deforestazione, non dell’Amazzonia ma della foresta atlantica del Brasile che è
stata distrutta ancora di più ed è quasi scomparsa del tutto. Da piccolo mio
padre mi faceva andare a dorso di mulo con i carichi di legname. Allora non
c’era la consapevolezza dei danni che stavamo facendo. Con l’Instituto Terra
abbiamo creato una riserva naturale immensa, grande quanto il Portogallo.
Abbiamo piantato milioni di alberi, oltre trecento specie. Sono tornati gli
animali, stiamo recuperando le sorgenti d’acqua. Ci vorranno ancora venti o
trent’anni per riportare il paesaggio a come era prima, ma lo faremo, anche se
io e Lélia non potremo vedere questo sogno completamente realizzato».
È il sogno che la rende ottimista? «Non sono
molto ottimista se guardo a quanta devastazione ha già fatto l’homo sapiens.
Siamo predatori incredibili. L’unica cosa rimasta è l’Amazzonia che alimenta la
produzione di ossigeno del pianeta. Bolsonaro è solo una tappa nella continuità
di un processo terribile. Credo che l’essere umano non resterà qui ancora per
molto. Siamo già nella fase terminale, non viviamo più sul pianeta. Chi abita a
Roma, Parigi o Rio, è già un alieno. Forse resteranno forme di vita sul
pianeta, ma non so se ci saremo ancora noi umani. Se ci fosse una catastrofe
naturale non saremmo più capaci di sopravvivere, abbiamo disimparato le nozioni
più elementari del rapporto con la natura, quello che gli indiani in Amazzonia
sanno invece ancora fare. È giusto tentare qualsiasi cosa per salvarci, ma
quello che vedo non è di buon augurio».
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