Tratto da “La
mia vita a sinistra da La Torre alla crisi. Per rinascere smettiamo di
guardarci allo specchio”, intervista di Daniele Ienna all'ex senatrice
comunista Simona Mafai (Roma, 5 luglio 1928 - Palermo, 16 giugno 2019),
pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 2 di settembre dell’anno 2018: (…). I
suoi genitori sono stati grandi artisti. Suo padre, Mario Mafai, si professava
agnostico. Sua madre, Antonietta Raphael, era ebrea. Come vivono in lei le sue
radici? «Mia madre era molto rigorosa.
Direi che era quasi quacchera, non solo ebrea. Mio padre, al contrario, era un po’ anarchico, un bonaccione alla romana, molto libertario. Credo di avere preso un po’ dell’una e un po’ dell’altro. Da mia madre sento, comunque, di avere ricevuto una certa severità morale, che secondo alcune mie amiche è anche un po’ esagerata».
Come ha conosciuto suo marito Pancrazio De Pasquale che è stato uno dei leader del Pci? «È stato un bell’incontro, nato dentro la politica. Io ero già funzionario del partito comunista. Venivo dal Veneto e poi da Genova, dove ero stata la responsabile delle donne comuniste. Ero stata mandata all’Istituto di studi comunisti, la famosa Scuola delle Frattocchie, vicino a Roma. Mi parlarono di Pancrazio come il più giovane segretario federale di tutta Italia. Il giorno dopo lo incontrai: era un allievo anche lui. Quando finì il corso, ci dissero di scrivere cosa avessimo imparato in quella scuola. Io, un po’ romanticamente, dissi a Pancrazio: la cosa più importante è stato averti conosciuto. Da lì ci siamo fidanzati e sposati. Nel ’52 ci siamo trasferiti a Palermo. Un anno dopo, ho promosso il congresso delle donne siciliane. Ricordo benissimo che il congresso si tenne a Palermo nel marzo del ’53, in prossimità della morte di Stalin. C’erano Anna Grasso, Giuliana Saladino, Concetta Mezzasalma e altre meravigliose donne palermitane. Posso dire che ho conosciuto Palermo attraverso le donne. Un volto buono, drammatico per le sofferenze di quel tempo e molto impegnato nel cercare di migliorare figlie».
Direi che era quasi quacchera, non solo ebrea. Mio padre, al contrario, era un po’ anarchico, un bonaccione alla romana, molto libertario. Credo di avere preso un po’ dell’una e un po’ dell’altro. Da mia madre sento, comunque, di avere ricevuto una certa severità morale, che secondo alcune mie amiche è anche un po’ esagerata».
Come ha conosciuto suo marito Pancrazio De Pasquale che è stato uno dei leader del Pci? «È stato un bell’incontro, nato dentro la politica. Io ero già funzionario del partito comunista. Venivo dal Veneto e poi da Genova, dove ero stata la responsabile delle donne comuniste. Ero stata mandata all’Istituto di studi comunisti, la famosa Scuola delle Frattocchie, vicino a Roma. Mi parlarono di Pancrazio come il più giovane segretario federale di tutta Italia. Il giorno dopo lo incontrai: era un allievo anche lui. Quando finì il corso, ci dissero di scrivere cosa avessimo imparato in quella scuola. Io, un po’ romanticamente, dissi a Pancrazio: la cosa più importante è stato averti conosciuto. Da lì ci siamo fidanzati e sposati. Nel ’52 ci siamo trasferiti a Palermo. Un anno dopo, ho promosso il congresso delle donne siciliane. Ricordo benissimo che il congresso si tenne a Palermo nel marzo del ’53, in prossimità della morte di Stalin. C’erano Anna Grasso, Giuliana Saladino, Concetta Mezzasalma e altre meravigliose donne palermitane. Posso dire che ho conosciuto Palermo attraverso le donne. Un volto buono, drammatico per le sofferenze di quel tempo e molto impegnato nel cercare di migliorare figlie».
La politica a Palermo le avrebbe riservato
altro. «Nel ‘67 mio marito era deputato a Roma. Pio La Torre gli disse di
tornare a Palermo per prepararsi a fare il deputato regionale. La Torre era un
organizzatore formidabile, credo che pensasse solo alla politica e non ad
altro. Mi disse che ero stata già eletta nel comitato federale. Feci, così,
l’attivista nella federazione di Palermo e fu un impegno totale. Dopo La Torre,
come segretario della federazione, venne da Roma Achille Occhetto. Uomo pieno
di fantasie e idee, però un colonnello».
Com’era il Partito Comunista a Palermo? «Pieno
di grandissime potenzialità. Allora c’era tanta voglia di fare e c’erano
davvero molte persone brave. Le sezioni erano un innesto di tutti i ceti sociali:
dal professore all’uomo che andava a fare la lettura del gas, dallo studente al
disoccupato e all’artista. C’era una presenza notevole di operai, che allora
c’erano ed erano tanti: ai Cantieri Navali e all’Aerosicula, per esempio».
Oggi la sinistra siciliana come sta? «Non
sta bene. È del tutto frantumata, sparpagliata. Non so se avrà la forza di
ritrovare presto l’unità. Se non ci si mette in mente che si può stare anche
con chi non la pensa precisamente come te, non si esce da questa situazione. Qui,
invece, ognuno cerca lo “specchio” e vuole fare il suo gruppetto di uguali nel
pensiero. Per me il veleno della sinistra è il volere dire che siamo solo noi
quelli bravi e che gli altri sono consociativi e traditori. Se non si supera
questa cosa, difficilmente si ricompatterà».
(…). In casa Pd, Renzi in cosa ha sbagliato?
«Ha voluto immettere in una visione di sinistra l’ondata di populismo e il suo
errore è stato quello di averlo voluto fare da solo. Avrebbe dovuto, per lo
meno, lavorare molto sul partito. Poi non parliamo della Sicilia: non ci ha
messo piede. La rottamazione era una bella idea, a parte la parola. Però,
specie nel Mezzogiorno, non si possono tagliare i capipopolo, altrimenti perdi
pure il popolo. E’ anche vero che la resistenza conservatrice, nel nostro
Paese, è senza limiti. Contro il referendum costituzionale, per esempio,
c’erano sia Salvini che i centri sociali e l’Anpi. È comunque difficile essere,
insieme, gli eredi della tradizione e i portatori dei cambiamenti più radicali.
(…).».
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