Tratto da “Morti
sul lavoro: la mattanza dimenticata (pure dalla retorica)” di Alessandro
Robecchi, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 4 di settembre 2019: Sessantasei
(66) stragi di piazza Fontana. Quattordici (14) stragi di Ustica.
E ora ditemi che non fa impressione, paura, ditemi se non è un’offesa al nostro vivere civile. Ma non c’è nemmeno bisogno di confronti aritmetici e paradossi, basta anche il numero secco. Anno di grazia 2018, Italia: millecentotrentatré (1.133) morti sul lavoro, più di tre al giorno contando anche Natale, Capodanno, Ferragosto. E i primi sei mesi del 2019 da record: 482 infortuni mortali, tredici in più dell’anno prima, che già aveva un bilancio spaventoso (peggio del 2017, peggio del 2016). Una strage, molte stragi, anzi, che finiscono di solito in un trafiletto di venti righe: il nome, il posto, la dinamica dell’incidente (nemmeno sempre) e avanti fino a domani, con altri trafiletti a pagina venti, altre parole di circostanza. Va bene, non siamo sprovveduti, sappiamo quanto l’informazione possa essere lontana dalla vita, distante e distaccata. Ma nel caso delle morti sul lavoro quella distanza è siderale. Finite le dieci righe di prammatica, l’informazione va avanti, parla d’altro, si distrae, e la realtà invece resta lì. Le vedove, i figli, i compagni di lavoro, quel sudore freddo che mischia dolore e dispiacere, insieme a un pensiero che agghiaccia: poteva capitare a me. La rabbia del “dopo” non la si racconta quasi mai, e come al solito le statistiche sono un coltello a due lame: utili a dare le dimensioni del fenomeno – della mattanza, per chiamare le cose col loro nome – e così fredde, invece, nel parlare delle vite, delle dita schiacciate, dei muletti rovesciati, delle esalazioni assassine, del caldo dei campi e delle serre. Insomma, siamo sempre lì: i numeri e la vita vera, i grafici (in salita sempre, maledizione) e il lutto. Ogni tanto una storia balza in primo piano. Questi giorni, ad esempio: Pasquale Fusco, 55 anni, tre figli, morto per il caldo e la fatica in una serra di meloni, in un campo vicino Giugliano, regolarizzato dai datori di lavoro un’ora dopo la morte, come dire che non gli è stata risparmiata nemmeno la grottesca rincorsa della burocrazia, la vergogna delle carte in ordine, dei diritti, finalmente, ma post mortem. Di lavoro si parla molto, moltissimo. Da mesi, da anni, le statistiche su occupazione e disoccupazione tengono banco nella polemica politica, servono ad accusare l’avversario, se ne misurano le impercettibili variazioni, si cantano vittorie e si denunciano sconfitte per qualche zero virgola. E intanto si muore, con quella vigliacca copertura delle parole per dirlo: incidente, morti bianche, infortuni, disgrazie. Si aggiunga il maleodorante dibattito sulla “sicurezza”, così sbandierato e pompato, così utile ai facili consensi e all’operazione indefessa di instillare paura. Tutte cazzate: i crimini sono in picchiata, gli omicidi diminuiscono. Tutti, tranne quelli che si compiono sui posti di lavoro, che invece aumentano, e però lì, in quell’ambito, la parola “sicurezza” si usa meno, si bandiera meno, diventa anzi a volte sinonimo di seccatura. Uff, la burocrazia, uff, le norme, uff, la prevenzione, tutte cose che costano, che erodono i margini di profitto. Come se “sicurezza” fosse una parola che va bene per lo scippo e lo scippatore e non per il lavoro e il lavoratore, come se si accettasse come rischio naturale che, lavorando, puoi restarci secco. Destino, fatalità, parole pietose che coprono una vergogna nazionale. Ecco: dato lo stato dell’arte della politica non c’è da stare allegri, non si vede all’orizzonte nessun deciso cambio di parametri, nessuna rivoluzione, continuerà il sacrosanto dibattito di come dare un lavoro a chi non ce l’ha, ma su come salvare la vita a chi ce l’ha il dibattito langue, non interessa, non fa notizia. Come se in una Repubblica “fondata sul lavoro” il primo diritto non fosse quello di tornare a casa vivi, dopo il lavoro.
E ora ditemi che non fa impressione, paura, ditemi se non è un’offesa al nostro vivere civile. Ma non c’è nemmeno bisogno di confronti aritmetici e paradossi, basta anche il numero secco. Anno di grazia 2018, Italia: millecentotrentatré (1.133) morti sul lavoro, più di tre al giorno contando anche Natale, Capodanno, Ferragosto. E i primi sei mesi del 2019 da record: 482 infortuni mortali, tredici in più dell’anno prima, che già aveva un bilancio spaventoso (peggio del 2017, peggio del 2016). Una strage, molte stragi, anzi, che finiscono di solito in un trafiletto di venti righe: il nome, il posto, la dinamica dell’incidente (nemmeno sempre) e avanti fino a domani, con altri trafiletti a pagina venti, altre parole di circostanza. Va bene, non siamo sprovveduti, sappiamo quanto l’informazione possa essere lontana dalla vita, distante e distaccata. Ma nel caso delle morti sul lavoro quella distanza è siderale. Finite le dieci righe di prammatica, l’informazione va avanti, parla d’altro, si distrae, e la realtà invece resta lì. Le vedove, i figli, i compagni di lavoro, quel sudore freddo che mischia dolore e dispiacere, insieme a un pensiero che agghiaccia: poteva capitare a me. La rabbia del “dopo” non la si racconta quasi mai, e come al solito le statistiche sono un coltello a due lame: utili a dare le dimensioni del fenomeno – della mattanza, per chiamare le cose col loro nome – e così fredde, invece, nel parlare delle vite, delle dita schiacciate, dei muletti rovesciati, delle esalazioni assassine, del caldo dei campi e delle serre. Insomma, siamo sempre lì: i numeri e la vita vera, i grafici (in salita sempre, maledizione) e il lutto. Ogni tanto una storia balza in primo piano. Questi giorni, ad esempio: Pasquale Fusco, 55 anni, tre figli, morto per il caldo e la fatica in una serra di meloni, in un campo vicino Giugliano, regolarizzato dai datori di lavoro un’ora dopo la morte, come dire che non gli è stata risparmiata nemmeno la grottesca rincorsa della burocrazia, la vergogna delle carte in ordine, dei diritti, finalmente, ma post mortem. Di lavoro si parla molto, moltissimo. Da mesi, da anni, le statistiche su occupazione e disoccupazione tengono banco nella polemica politica, servono ad accusare l’avversario, se ne misurano le impercettibili variazioni, si cantano vittorie e si denunciano sconfitte per qualche zero virgola. E intanto si muore, con quella vigliacca copertura delle parole per dirlo: incidente, morti bianche, infortuni, disgrazie. Si aggiunga il maleodorante dibattito sulla “sicurezza”, così sbandierato e pompato, così utile ai facili consensi e all’operazione indefessa di instillare paura. Tutte cazzate: i crimini sono in picchiata, gli omicidi diminuiscono. Tutti, tranne quelli che si compiono sui posti di lavoro, che invece aumentano, e però lì, in quell’ambito, la parola “sicurezza” si usa meno, si bandiera meno, diventa anzi a volte sinonimo di seccatura. Uff, la burocrazia, uff, le norme, uff, la prevenzione, tutte cose che costano, che erodono i margini di profitto. Come se “sicurezza” fosse una parola che va bene per lo scippo e lo scippatore e non per il lavoro e il lavoratore, come se si accettasse come rischio naturale che, lavorando, puoi restarci secco. Destino, fatalità, parole pietose che coprono una vergogna nazionale. Ecco: dato lo stato dell’arte della politica non c’è da stare allegri, non si vede all’orizzonte nessun deciso cambio di parametri, nessuna rivoluzione, continuerà il sacrosanto dibattito di come dare un lavoro a chi non ce l’ha, ma su come salvare la vita a chi ce l’ha il dibattito langue, non interessa, non fa notizia. Come se in una Repubblica “fondata sul lavoro” il primo diritto non fosse quello di tornare a casa vivi, dopo il lavoro.
Nessun commento:
Posta un commento