Dalla premessa dell’Autore: “La mia chiacchierata con
Alessandro Baricco sul suo ultimo libro, The Game, ha un prologo piuttosto
divertente. (...). Il prologo è questo: trovandoci in città diverse, e parecchio
lontane, avevamo concordato un collegamento Skype. Ma per l'insipienza
tecnologica di uno di noi due (il fair play impone di non fare nomi), il
collegamento non ha potuto avere luogo, e abbiamo dovuto arrangiarci con il
telefono. Bene. Questo piccolo incidente, a parte l'inevitabile buon umore di
entrambi, e le battute (reciproche) sull'anacronismo delle nostre povere persone,
ha decisamente favorito l'avvio della nostra conversazione”. Tratto da “Vi dico io a che game stiamo giocando”
di Michele Serra, “chiacchierata con Alessandro Baricco” pubblicata sul
settimanale “il Venerdì” del quotidiano la Repubblica del 28 di settembre dell’anno
2018: Leggendo il tuo libro ho capito, a proposito della rete, parecchie cose
che non avevo messo bene a fuoco. A partire dal tuo invito a
"ribaltare" la lettura del fenomeno: non bisogna chiedersi quale tipo
di umanità sarà forgiata da Google. Bisogna chiedersi, al contrario, quale tipo
di umanità ha creato Google, e perché lo ha fatto. Per quali bisogni. Per
fuggire da che cosa, e per andare in quale direzione. Per dimostrare la tua
tesi storicizzi, analizzi, metti in relazione eventi e date. E dunque, se posso
permettermi, ci voleva proprio un intellettuale novecentesco, non un nativo
digitale, per mettere in fila gli eventi e ragionarci sopra. Voglio dire: ci
vuole profondità e ci vuole tempo, per raccontare l'Evo della Superficie e
della Velocità. "Il Game (è questa la definizione, molto centrata e
perfino filologica, che Baricco dà del web e dell'umanità che lo abita, a
partire dalla sua documentata genesi, ndr) non ha prodotto istruzioni per l'uso,
una saggistica, un pensiero articolato. Ma non perché sia scemo. Perché è già
tutto scritto nei tool (strumenti) e nei device (dispositivi). È una
rivoluzione progettata da ingegneri, non da umanisti. Il codice del Game è
scritto, ma in una forma molto differente dall'autodescrizione novecentesca.
Magari, ecco, può tornare utile che persone con un Dna vecchio, come me,
provino a mettere a disposizione un linguaggio misto, di transizione. (…)".
Ma a me sembra un libro di testo. Nel senso, classico, che mette ordine in una materia ancora largamente inesplorata. Che ha cronologia, ha metodo. Ed è molto preciso nella ricostruzione della genesi del Game, nel tempo e nello spazio: la California degli anni Sessanta e Settanta, la "controcultura" libertaria, l'attacco alle élite, perfino l'Lsd e il mito dell'"espansione della coscienza". E i primi videogame, come Space Invaders, al quale fai risalire la postura uomo-tastiera-schermo che ha cambiato il mondo. Mi sono chiesto se anche un nerd ventenne, leggendoti, scoprendo che discende da una storia in un certo senso così "vecchia", con radici così precise, può imparare qualcosa di se stesso. "I ragazzi tra i 25 e i 35 che mi hanno aiutato nelle ricerche, letto il libro mi dicono: sono contento che qualcuno abbia capito la mia solitudine, sia stato capace di descriverla. Percepiscono se stessi come non più isolati, non più inspiegabili, ma infiniti pezzi di un sistema collettivo, protagonisti di un nuovo linguaggio. L'effetto-scuola, direi, in questo caso ha funzionato, è servito. Qualcuno mi ha detto: ah, ma allora non sono pazzo...".
Una soddisfazione, se posso dire... "Ma
io, sia chiaro, non avevo nessun sentimento di rivalsa nei confronti di un
mondo, di un sistema che non patisco. Lo trovo divertente, interessante,
salvifico, con un'impressione di fondo positiva, di facilità, di levigatezza.
Ho solo cercato, come mi suggeriva la mia formazione predigitale, di collocare
in una mappa ragionevole gli elementi a disposizione. E poi, forse, mi sono
ricordato che io per primo, a vent'anni, ero un portatore di solitudine. Se mi
rivedi in tivù agli inizi ci sono delle cose che ritrovi meglio scritte, a
posteriori, in questo libro. Per esempio il multitasking: parlavo di opera
lirica e citavo Woody Allen, mettevo in connessione punti che sulla mappa di
allora non lo erano affatto".
Vuoi dire che eri un nerd analogico? "Beh,
Castelli di rabbia non era certo un libro lineare. La mia scrittura cercava il
movimento, non stava mai ferma. Facevo televisione in un modo che le élite del
tempo, i critici, i letterati, non concepivano. Lo facevo per istinto, ma
alcune cose le ritrovo nel Game. Chissà, il fatto che io sia a mio agio,
nell'evo del Game, magari vuol dire che riconosco la patria che non ho mai
avuto. Dopodiché non uso Skype, e va beh...".
Mischiare alto e basso, confondere i
livelli. Torna in mente il primo Umberto Eco, quello per il quale il fumetto,
il feuilleton, la canzone popolare avevano la stessa importanza culturale dei
libroni. Poi però, negli ultimi anni, Eco non fu per niente tenero, con il tuo
Game... "Ricostruiamo: Eco è stato un vero e proprio anticipatore del
Game, un uomo formidabile, Game ante litteram. Dobbiamo essere grati al
Maestro. Il primo che ha detto che Wikipedia era una cosa seria. Io pensai: che
cagata. Lui disse: fidatevi, non fatevi accecare dai pregiudizi o dalla pigrizia.
E aveva ragione lui. Certo, se ne è andato dicendoci: attenti! Ha fatto in
tempo a vedere l'entrata in crisi del Game. Guardate che scricchiola, ha detto.
Guardate che è sbilanciato, che così non può reggere. Lo aveva capito. Ma non
ha sdottoreggiato, ha solo segnalato il problema. Del resto potrà risolverlo,
il problema, solo la gente che nel Game ci è nata".
E qual è, il problema? "Cerco di dirlo
nella parte finale del libro. Il Game ha un buco. È stato veloce, velocissimo,
seducente, ma lo strappo violento con il passato crea un vuoto, e crea
angoscia. È dentro quel vuoto e quell'angoscia che prosperano, alla fine, le
semplificazioni brutte, le tentazioni peggiori, anche quelle politiche. Sono
debolezze difficili da recuperare, squilibri tremendi, ed è anche colpa
nostra".
Nostra di chi? "Di noi europei, se
posso generalizzare. Il Game è stato congegnato da giovani bianchi americani,
ingegneri. E lì più o meno siamo rimasti. Noi non ci abbiamo messo i nostri
pensatori, siamo su una china assurda di pessimismo, raffinato cinismo,
sfiducia in noi, lamentosità, e in questo siamo atroci. E doppiamente
colpevoli, perché l'Europa è uno scrigno di memoria e di gusto, di qualità
della vita, di gioia della vita. Di riconnessione virtuosa con il passato, tutte
cose delle quali il Game avrebbe un bisogno disperato. Per giunta siamo
avanzati tecnologicamente, dunque non abbiamo alibi. Gli americani hanno quegli
intellettuali lì, non è che possiamo pretendere, la differenza è data,
banalmente, dal numero di secoli memorizzati..."
Riequilibrare il Game in senso europeo,
dunque in senso umanistico, come ti auguri nelle ultime pagine. Ma non sarà il
classico lieto fine messo lì per rassicurarci? Quando lavoravo da Fabio Fazio
venne ospite Bill Gates. Fazio gli chiese: nel futuro ci sarà più bisogno di
tecnici o di poeti? Gates rispose, piatto piatto: poeti? E che c'entrano i
poeti? "Il problema è che i nostri poeti sono tutti massicciamente
impegnati a contestare il Game e a crogiolarsi nella nostalgia di secoli orrendi,
che hanno prodotto orrore. E nel vuoto lasciato dagli intellettuali, avanzano
gli ingegneri...".
"Avanzano gli ingegneri" sembra il
titolo di un film alla Romero, quello di Zombi. Un poco fa sorridere, ma un
poco spaventa. Non ho niente contro gli ingegneri, ma tu stesso, che pure hai
scritto un libro tutt'altro che ostile al web, consideri squilibrata e lacunosa
quell'immane tessitura. "Le grandi
rivoluzioni mentali nascono sempre da gruppi ristretti e molto specifici. Il
Romanticismo si generò da una manciata di intellettuali tedeschi di provincia,
molto religiosi, tutti uguali. I primi umanisti erano tutti apolidi senza casa,
gruppo ristretto e fazioso, diciamo così. Poi nel tempo, certo, ogni
rivoluzione deve riuscire a metabolizzare tutto quello che le manca: nel caso
del Game la cultura non americana e la cultura femminile".
Non mi sembrano dettagli... "Sulle
donne il discorso si fa difficile, così difficile che nel libro non ho nemmeno
provato ad affrontarlo, mi sono limitato a prendere atto che i Padri Fondatori
sono tutti giovani maschi americani. Ma se continueranno a essere tutti maschi,
tutti americani e tutti ingegneri, quelli che costruiscono il Game, e se quelli
e soprattutto quelle che hanno studiato greco antico non ci mettono del loro,
il sistema entrerà in loop. Questo è sicuro".
Non mi convince, nel libro, una cosa che hai
ripetuto poco fa: che la genesi del Game sta nella volontà di fuga da secoli
orrendi, sanguinari. Che chi ha inventato il Game era determinato a fuggire da
un passato insopportabile, totalitario. Ma scusa: quelli si facevano le canne,
erano figli dei consumi, giocavano a Space Invaders tutto il santo giorno. Da
quale totalitarismo dovevano mai fuggire? Riformulo: il Game non sarà piuttosto
figlio tipico della società dei consumi, dell'enorme disponibilità di tempo
libero, della liberazione dal bisogno? "Beh, certo, il Game è una civiltà
festiva, oziosa. È anche il suo lato più piacevole e nuovo, no? Sul ruolo del
consumismo dunque posso darti ragione, anzi hai proprio ragione, ma guarda che
il mio libro in questo senso è figlio del Game: va incrociato con altre letture
e altri punti di vista. È un libro che va combinato con altri, è concentrato su
una fascia di nervi particolare. La mia ricostruzione tiene in piedi un'ipotesi
e valuta certe spinte. Altre spinte laterali non le valuta".
E sulla fuga dal totalitarismo che mi dici?
Quali garanzie sta offrendo il Game, per esempio sulla scena politica, contro
il totalitarismo? Quarant'anni dopo il mito libertario dei Padri Fondatori (un
computer per tutti, e tutti connessi tra loro: che cosa può esistere di più
democratico?), non ti sembra che la situazione non sia così rosea? "Penso
che il Game, rispetto ai sistemi precedenti, abbia maggiori antidoti contro se
stesso. Offre scappatoie molto più ampie. Noi avevamo dei sistemi monolitici,
il comunismo, la religione. Il Game è una somma di molti "tutto", è
un sistema molto più poroso, elastico, friabile, tutti possono scappare, noi
andavano in guerra come soldatini disciplinati, questi qui disobbediscono come
e quando gli pare. Quando avevi solo il Tg1, scusa, come scappavi? Qui, a raccontarmi
le cose, mi si parano davanti in dodici. In cento. In diecimila. Il rischio,
piuttosto, è che di fronte a una sovrabbondanza di dati perdiamo capacità di
lettura. Non siamo in grado di leggere l'insieme, ci piglia il panico e ci
affidiamo al primo che passa. È un po' quello che sta succedendo, no?".
Stai parlando di politica? "Beh, in
parte sì. La sinistra è nella merda perché è inchiodata alla complessità e alla
profondità, non riesce a parlare la lingua del Game. Ma la nostra generazione
ha molto sopravvalutato la politica, che a ben vedere, per molti di noi, non è
stata la prova più significativa. Ci sono molte cose, in giro per il mondo,
almeno altrettanto decisive e importanti, per esempio riequilibrare il Game,
che è il linguaggio di tutti, quello universale, quello che deciderà davvero il
futuro. Siamo nel massimo della turbolenza, se riusciamo a farcela ci
ricorderanno come una civiltà fortunata. Se non ci riusciamo... siamo
inclinati, e tutto sta tremando".
Che possiamo fare? "Tu e io non è che
ci si debba rimproverare più di tanto, non è che siamo tenuti a edificare la
civiltà che ci distruggerà. Le vere intelligenze del futuro hanno trent'anni. È
loro la grande latitanza, sono loro che possono inventare le soluzioni nuove.
Identikit: intellettuale europeo trentenne. Tocca a lui".
Ah bene, così posso invecchiare continuando
a fare quello che mi piace. Non so come dirlo all'autore di The Game, ma io
sono felice soprattutto quando taglio la legna. "Che sia la legna o una
memoria o una forma di gusto, il Game, se ha bisogno di qualcosa, si gira con
lo sguardo e la inquadra".
Confortante. Stai dicendo che non siamo
inutili? "Siamo decorativi (…). Il Game manifesta un certo rispetto,
impensabile agli inizi, per gli artisti e gli intellettuali. Forse perché anche
noi, dopotutto, proveniamo da un precedente Oltremondo, la scrittura, il
pensiero, che in qualche maniera ci apparenta al nuovo Oltremondo tecnologico.
Siamo noi che sbagliamo quando tendiamo a proteggerci dal presente, perché è
proprio facendo così che ci consegniamo all'inutilità. Lo dico all'autore degli
Sdraiati: nessuno potrà mai camminare in montagna come un figlio del Game,
perché loro saranno più colti, più veloci, più svegli di noi, e sono nati per
dare un senso alle cose. Si tratta di farlo scendere dal sofà e metterlo sul
sentiero". Hai detto poco...
Nessun commento:
Posta un commento