Tratto da “Il lavoro misurato in ore” di Giacomo Papi pubblicato sul
settimanale D del 22 di settembre dell’anno 2012: "Mi chiamo Gertrude
Pasqualetto. Nel 1937, a
15 anni, sono entrata in filanda. Mio papà non voleva, diceva che era meglio se
aiutavo la mamma, ma le mie amiche eran tutte lì. Per me era una festa. Prima
di andar dentro, nel porticato, se cantava tanto tanto e se ballava. Ma anche
dentro era un coro, tutte 'ste ragazze e 'ste donne in quella sala lunga che
cantavan Faccetta nera e le canzoni della radio...". La filanda
Romanin-Jacur di Salzano, Venezia, fu costruita nel 1872 da una famiglia ebrea
padovana, e fu chiusa dalle leggi razziali e dalla guerra. Era all'avanguardia.
Smise di produrre per sempre negli anni Cinquanta. "Eravamo 150 donne
suppergiù", ricorda Gertrude, "e c'eran solo tre uomini, el diretòr,
el machinista e el foghista. Io facevo la filatrice sulla bacinella dove
c'erano i bozzoli, a quintali". Le filande furono le prime fabbriche ad
attirare le donne fuori di casa, al lavoro, furono i laboratori in cui
l'agricoltura diventò fabbrica, il raccolto salario, e il tempo vecchio,
ciclico e lento, scandito da ombre solari, fasi lunari e stagioni, fu
colonizzato, misurato spezzato scandito ritmato, in modo che la quantità di
merce prodotta in ogni singola unità di tempo potesse essere verificabile e si
sapesse, sempre, se si stava lavorando abbastanza. I canti, si sa, servono
anche a non perdere il ritmo. "Sì, c'era l'orologio là in sala",
ricorda Gertrude, "e la campana, "la cuca", ma non mi ricordo
bene dei tempi. So solo che ero sempre l'ultima a entrare". Un libretto
del Ministero dell'Agricoltura e Commercio del 1901 - Statistica degli scioperi
nell'anno 1899 - elenca proteste ovunque, quell'anno, di donne in filanda. A
Piazzola sul Brenta, ad Arzignano, perfino nell'impianto modello Romanin-Jacur:
"Un giorno siamo rimaste a casa anche noi", ricorda Gertrude. I
padroni cedevano quasi sempre. E cedevano subito. Ma perdevano le battaglie per
vincere la guerra, una guerra non dichiarata, soltanto intuita: la guerra del
tempo. Quella grazie a cui si affermò un principio che ci grava ancora addosso,
come un anacronistico padrone interiorizzato. È l'idea per cui il lavoro debba
essere non soltanto pesabile, ma anche cronometrabile. C'è un appunto di Gafyn
Llawgoch, l'anarchico gallese che dice: "La fabbrica è una macchina del
tempo". Significa che l'industria mise a punto l'equazione tra tempo e
fatica. Che aveva senso per bachi e bulloni. (…).
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