"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 7 settembre 2019

Terzapagina. 98 «La fine dell’Astrazione nell’era dei Big Data».


Tratto da “Un mammut di nome Ue”, intervista di Stefano Vastano allo storico Dan Diner pubblicata sul settimanale L’Espresso del 23 di dicembre dell’anno 2018:
(…). Il diciannovesimo è stato il secolo dei nazionalismi in Europa. Perché oggi, all’inizio del ventunesimo secolo, assistiamo alla loro rinascita in chiave pop o populista? «Il concetto di “populismo” non mi convince. Una cosa infatti sono i nazionalismi del diciannovesimo secolo che ad esempio in Italia e Germania hanno creato due “nazioni ritardate”, tutta un’altra l’origine dei movimenti delle nuove destre sparsi ovunque nell’Europa di oggi».
A differenza delle vecchie ideologie, cosa caratterizza - dal Front National in Francia alla Lega in Italia, sino ad Afd in Germania - le nuove destre? «Non sono partiti in guerra, rivolti cioè l’uno contro l’altro. In Francia, in Italia o in Germania le nuove destre si concentrano sullo spazio politico interno e mobilitano i loro fans agitando le paure della globalizzazione, lo spettro dell’insicurezza ai confini, dei migranti o del Mostro Europa che insieme minacciano il sostrato etnico di una loro presunta identità nazionale».
Sono quindi movimenti che, nell’era del capitalismo globale, aspirano a rinchiudersi nei confini nazionali... «No, sono movimenti che reagiscono con classici vocabolari di stampo nazionalistico a trasformazioni di portata antropologica della nuova era digitale. Le nuove tecnologie della comunicazione infatti stanno dissolvendo le forme dei rapporti storici, delle abitudini sociali e della comunicazione individuale. Le usiamo ogni giorno, ma non abbiamo ancora capito quanto le tecnologie digitali stiano cambiando le basi antropologiche dei nostri spazi sociali, e quindi plasmando un nuovo modo di fare e pensare la politica».
Qual è l’impatto di internet sulla nostra vita “activa”, come Hannah Arendt chiamava la base della politica? «Oggi abbiamo difficoltà a distinguere i margini del privato dai luoghi del pubblico, anche e soprattutto nella sfera politica privato e pubblico si ibridano a vicenda. È l’era della onnipresenza digitale che consente ai nuovi nazionalisti di ricaricare di senso politico la vita del cittadino nei confini nazionali: la sua nascita, presenza e durata fisica in quel luogo ridiventano privilegio e un titolo rispetto a chi aspira, arrivando dall’esterno, a far parte di tradizioni e beni della comunità dei nativi».
Qual è il Totem su cui le destre oggi puntano? «In tedesco direi “Anwartschaft” e cioè le “pretese sociali” a cui il singolo aspira in ragione della sua presenza in un luogo: ecco ciò che galvanizza oggi il terreno di scontro della politica. Questo conflitto delle “aspirazioni” nutre non solo la rinascita dell’estrema destra, ma anche la crisi della sinistra che in questo scenario digitale è per forza di cose in declino».
Non è strano che nonostante l’impatto del digitale sulla persona, su società e cultura, la parola più usata da Le Pen, Salvini o Trump sia quella così ambigua e romantica di “Popolo”? «È una parola con una vasta famiglia di significati: dai legami etno-tribali su cui insiste la destra alle risonanze sociali del termine, le classi meno abbienti, i proletari o il “popolino”’ su cui la sinistra ha imbastito i suoi racconti. Ebbene, oggi sembra che queste due visioni si mischino fra loro: chi appartiene a un popolo nell’era globale? Cosa e quali diritti spettano a chi, e quali prerogative dà l’appartenenza al gruppo nell’era in cui le tecnologie fluidificano tutti i confini tra Stati e fra pubblico e privato?».
Non per niente l’Appartenenza è il mito dei movimenti identitari... «Tutti i neonazionalismi identitari drammatizzano le derive della mutazione antropologica nell’era digitale e riservano i beni del welfare - prima di tutto - agli italiani, tedeschi o francesi. I partiti di sinistra invece sono in tilt nell’affrontare il riassetto di libertà individuali, sicurezze collettive ed aspettative del welfare in questa fase digitale che rimescola i paradigmi antropologici e i linguaggi della politica».
Non solo la sinistra, tutti i partiti popolari sembrano mammut nell’era glaciale del ventunesimo secolo. Tranne i populisti dell’anti-politica gli altri partiti sono destinati a soccombere? «Quando guardiamo indignati alla rinascita dei populismi di destra è come se dimenticassimo che la sicurezza e il benessere di cui abbiamo goduto in Europa dal 1945 in poi era il frutto della Guerra Fredda. Il mondo era una comoda struttura bipolare che consentiva, di qua e di là del Muro, un alto livello di stabilità. Le politiche del dopoguerra, della Dc in Italia e della Cdu in Germania, sono riflessi della matrix dei due schieramenti, come la nascita della Ue. Ma oggi il mondo non è più bipolare, gli uomini non si incontrano in piazze o sedi di partito, ma per lo più virtualmente. E in questo contesto elettronico degli scambi sociali e di fiducia i partiti popolari sono destinati a sparire».
Anche i luoghi per eccellenza della politica, le aule dei Parlamenti si svuotano. Il digitale sarà la fine della democrazia rappresentativa?  «Non ci sono dubbi visto che i deputati schierati per frazioni sugli scranni erano non solo rappresentanti di una generale volontà popolare, ma incarnazioni di forti astrazioni. Le forme sempre più dirette e diffuse di piattaforme digitali staccano la spina alle classiche ed astratte forme di rappresentatività politica. È questa l’inaudita conseguenza antropologica dell’era digitale: l’avvento del Concreto, ossia l’accumulo di data digitali che in politica sostituiscono via via ogni forma di astrazione».
Ma il discorso politico, la comunicazione e partecipazione umana possono davvero ridursi ai 140 caratteri twittati dal presidente Trump?  «Quando il Dio si ritira nell’alto dei cieli, nel mondo subentrano a compensarne l’assenza diverse “mani invisibili”, per usare la metafora che per Adam Smith reggeva mercati e ricchezze mondiali. I teorici della scienza parlano di una “Black box” che racchiude in sé i misteri del micro e macrocosmo: ebbene, la digitalizzazione, col suo dilagante predominio del Concreto, getta luce nella Black box dell’astrazione politica. Non è un caso se tutti i matador della destra sono eroi di Facebook e preferiscono i bagni di folla ai discorsi in parlamento».
Se è tutto l’arco del pensiero politico e del Parlamento ad esser colpito dai concretissimi media digitali perché solo i partiti socialdemocratici, e non i Verdi, crollano al 10 per cento? «Perché dai suoi albori la socialdemocrazia è un partito della industrializzazione. Nasce nel momento in cui il lavoro si organizza per collettivi operai nelle fabbriche, mentre oggi il lavoro non solo è precario ma sempre più individuale. Ha presente la storia di Bismarck e della nascita della Germania?»
Una nascita tarda, nel 1871. Ma che c’entra con la crisi della Spd di oggi? «C’entra, visto che subito dopo aver fatto il Reich, Bismarck ha varato le prime leggi sociali. I moderni Stati nazionali, le prerogative del welfare e la storia emancipatoria della sinistra riformista sono due lati della stessa medaglia. Suona triste dirlo, ma se il discorso della sinistra è sempre stato internazionalista, il partito è sempre stato legato alla nazione e al suo welfare. Oggi, a 100 anni dalla Grande guerra, vediamo quanto la Spd di Friedrich Ebert abbia garantito la stabilità del Reich durante e dopo l’ecatombe mondiale. Persino nell’era Brandt e Schmidt i socialdemocratici non sono mai stati veri europeisti».
Angela Merkel si è rivelata più europeista del socialdemocratico Gerhard Schröder? «Con la sua Agenda 2010, Schröder ha introdotto nel mercato del lavoro tedesco riforme di stampo “neo-liberale”. L’era Merkel passerà alla storia come l’assoluta medietà della politica tedesca, segnata dalla costante ricerca del compromesso nella società tedesca e in Europa».
Se, come sembra, la Kanzlerin dovesse crollare prima del tempo, che ne sarà dell’asse Berlino-Parigi? «La Francia si regge sino ad oggi sul suo regime presidenziale. Quella esercitata sinora da Macron è una politica nazionale, e non proprio europeista, che aspira a modernizzare la Francia secondo le riforme schröderiane. Le rivolte dei “gilet gialli”’ sono divampate contro il tentativo di Macron di germanizzare il più tradizionale assetto della società francese. Ma le crisi in Francia o in Germania sono niente in confronto alla catastrofe della Brexit».
Cosa significherà la Brexit per il Vecchio Continente? «Nei miei corsi di politica europea ho sempre ricordato che alla fine del diciannovesimo secolo la Germania era più moderna dell’Inghilterra, ma questa più parlamentare. Oggi in che caos si trova quel Parlamento e come è stato possibile indire un referendum su una questione così esistenziale per gli inglesi e per l’Europa? Per me, come storico, questa catastrofe in Inghilterra è il segno più evidente che il dialogo basato su argomenti storici in politica non ha più senso per cambiare presente e futuro nell’Era del Concreto. È angosciante, ma noi storici dobbiamo ammettere di esser giunti alla fine della rilevanza di ogni interpretazione della storia».
Nel 1922 invece, in piena Repubblica di Weimar, Carl Schmitt pubblicò la sua “Politische Theologie” o “Dottrina della sovranità”, come suona il sottotitolo. È lui il profeta degli odierni sovranisti?  «In quel saggio Schmitt si chiedeva, in riferimento al mondo “disincantato” analizzato da Weber, dove fosse rimasto il mito nella politica moderna. Ma nei sovranisti di oggi non esiste il minimo input teorico, neanche nei circoli più elitari degli “Identitari”. Il sovranismo non ha più bisogno di rifarsi a Schmitt o a teorie, gli basta il rimando alle pretese di chi da più tempo fa parte del gruppo».
Basta urlare «io sono italiano o francese» per seguire i nuovi Capitani di popolo? «Sì, zero astrazione appunto. Io sono nato qui e su questo territorio ci sto da tempo, in ogni caso più tempo dei nuovi arrivati e per questo ho più diritti di loro. Il messaggio del demagogo d’estrema destra contro i migranti, per quanto razzista, è molto intuitivo nella sua infantile crudeltà».
Che c’è di intuitivo e soprattutto infantile nella brutalità del razzismo? «Ogni bambino capisce al volo che, in mensa, tocca mettersi in fila e che solo a un certo punto arriverà il suo turno. Ma se qualcuno salta la fila, specie se non fa parte della sua classe o della s tessa scuola, scatta la protesta. Tutta qui la politica di Trump o Salvini quando urlano “America o Italia first!”: uno slogan che riconosce solo la durata dell’individuo nel gruppo, come criterio politico. Solo i nativi hanno diritto o precedenza alla distribuzione dei beni accumulati in passato».
Ma questa antropologia negativa di Trump non è contro le tradizioni della società aperta americana? «Certo, gli Usa sono un Paese nato e cresciuto sui flussi migratori. Ma non dimentichiamo che ogni migrante vorrebbe esser l’ultimo e vorrebbe che dopo di lui le porte della società si richiudessero. A sinistra bisogna essere più cauti con le immagini ecumeniche: i migranti sono esseri impotenti e a disagio, ma non per questo più buoni o migliori degli altri. Anche loro una volta giunti in una società aspirano a quei diritti e beni che vedono somministrare agli altri».
Vuol dire che nell’era glaciale di Internet lo spirito dell’Utopia è morto per sempre? «Tutte le ideologie che finiscono con un “-ismo” hanno un “telos” a cui tendere, e tutte le utopie sono nate nel lunghissimo 19° secolo. Ma oggi con la fine dell’Astrazione nell’era dei Big Data, l’unica utopia che forse ci resta è quella di preservare l’ambiente dalle catastrofi climatiche».
Ha dimenticato Vladimir Putin, l’ultimo zar della politica e i suoi sogni di una Eurasia... «Sì, Putin è l’ultimo mito delle destre perché mostra a cosa si sia ridotta la politica nello spazio europeo dopo la fine della Guerra fredda e dell’Astrazione. Per lui non contano i valori democratici della nostra tradizione illuminista ma, come direbbe Schmitt, il Nomos della Terra: le conquiste territoriali militari per rendere porosi i confini della Vecchia Europa».

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