Letturina di “fine anno” tratta da “Impariamo a leggere” di Enzo Bianchi,
pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 18 di novembre 2019: (…). Imparare
a pensare significa (…) anche imparare a leggere: leggere il mondo, le
situazioni, gli eventi, ciò che “sta scritto” perché altri lo hanno messo “nero
su bianco”.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 31 dicembre 2019
lunedì 30 dicembre 2019
Ifattinprima. 28 «Prescritti 1,5 milioni di processi, cioè l’avevano scampata oltre 2 milioni di colpevoli».
Tratto da “Funeral
Party” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 29 di dicembre
2019: (…). …negli ultimi 10 anni, si erano prescritti 1,5 milioni di
processi, cioè l’avevano scampata oltre 2 milioni di colpevoli (i processi di
solito hanno più imputati) ed erano rimaste senza giustizia almeno 3 milioni di
vittime.
domenica 29 dicembre 2019
Lalinguabatte. 89 «Siamo bruchi che sfottono farfalle. Siamo farfalle che sfottono bruchi».
È che il “tempo tecnologico” ha
preso a correre, da tanto tempo oramai in verità, in una maniera spaventosa. È
che le nostre strutture cerebrali, le nostre interconnessioni neuronali, in
fondo, sono state create, esistevano ed esistono per un “tempo” che abbia uno
scorrere ben diverso. Ho cercato con un banale espediente di aggirare
l’ostacolo rappresentato dalla insostenibile velocità del “tempo tecnologico”, per
non sentire calare addosso la condizione umiliante del sopravvissuto. È stato
quando, ancora calcando le polverose pedane delle cattedre scolastiche, mi sono
avvicinato agli strumenti dell’informatica e, come un passeggero ritardatario
che afferri all’ultimo istante il tram o bus che parte, agganciando
l’immancabile e provvidenziale sostegno metallico di quei mezzi di trasporto
pubblico, al pari di quel passeggero mi sono “attaccato alla “rete”
per non sentirmi il sopravvissuto di turno del “villaggio globale”. Lo
scemo del villaggio. E devo pur dire che il banale espediente mi è servito. Ma
in parte. È che il “tempo” in quanto tale, senza aggettivazione alcuna, scorre
ineluttabilmente. E se gli sforzi d’afferrare quel benedetto sostegno mi hanno
consentito di farmi sentire o illudermi di essere al passo con il “tempo
tecnologico”, seppur solamente da utilizzatore – comunque non finale –
di quelle tecnologie, lo scorrere del tempo ha segnato e segna
inequivocabilmente la condizione del “sopravvissuto”, condizione che, in
tante occasioni, si riaffaccia e prorompe impetuosa, implacabile, nella vita
quotidiana, per riportarmi alla mia reale condizione dell’esistere. Necessiterebbe
da parte mia una rincorsa continua e faticosa assai del “tempo tecnologico”, per
la quale rincorsa non ho la “stoffa” e neppure la volontà e la resistenza,
se non fisica, neppure cerebrale. È che “esistono
oggetti - l'ombrello, la bicicletta, la caffettiera - che sopravvivono ai tempi
che li hanno creati.” Così scrive Giacomo Papi nella Sua riflessione,
nella consueta rubrica settimanale su di un supplemento del quotidiano “la
Repubblica” (da un personale indizio nel 2010), che ha per titolo “Un signore d'altri tempi”, riflessione
che di seguito trascrivo in parte. È che, da sopravvissuti, si corre il rischio
d’essere nella e d’occupare, al tempo nostro che ci è dato di vivere, la condizione
propria di quegli oggetti. Anche i cosiddetti mezzi della informazione, della
comunicazione di massa, privilegiano coltivare e diffondere le immagini di un “giovalinismo”
sfrenato, senza se e senza ma. Al di fuori di quella condizione che buca lo
schermo, il vuoto. È pur vero che, quella condizione diffusa mediaticamente senza
risparmio di un “giovanilismo” imperante, allude alla, e rappresenta al meglio,
la condizione dei “consumatori” per eccellenza, i giovani, condizione che connota
anche l’essere e l’apparire ad un tempo dei nostri giorni. “Consumatori” senza
cittadinanza, “consumatori” senza futuro certo peraltro, immersi sino al
collo nella cosiddetta baumaniana “vita liquida”, stante il futuro
negato ai giovani, della età della globalizzazione e della flessibilità senza
limiti e freni, dalla stessa società che li vezzeggia e li circuisce, li
irretisce nei suoi lusinghieri richiami virtuali, annientandoli nella e
denudandoli della loro più intima umanità, che stenta a farsi strada, che
stenta ad essere la lanterna accesa, seppur con una fiammella tremolante, che
li aiuti e li guidi con sicurezza nel percorso lungo della via tortuosa assai
che è la vita. Ha scritto Giacomo Papi: (…). Esistono oggetti - l'ombrello, la
bicicletta, la caffettiera - che sopravvivono ai tempi che li hanno creati.
Esistono persone modellate dall'epoca che li ha partoriti, che riescono a
spingersi in anni estranei, dove non c'è più posto per loro. Nella loro buffa
bellezza fuori luogo, i sopravvissuti raccontano che niente è più ridicolo dell'arroganza
di chi si sente moderno perché tra breve saremo tutti antichi. Il Parco
nazionale del Novecento, se soltanto esistesse, sarebbe un bel posto. Le
scolaresche si aggirerebbero tra operai che giocano a briscola e signore
borghesi impegnate in tornei di canasta, scorrazzerebbero tra braccianti e
casalinghe, sarte, arrotini e impiegati di concetto. Per i bambini sarebbe un
buon modo di crescere, per i vecchi un buon modo di salutare. I ragazzi la
smetterebbero di desiderare ciò che è nuovo perché è nuovo, e i vecchi si
tratterrebbero dall'idolatrare ciò che è vecchio perché era nuovo quando lo
erano anche loro. Non si tratta di rispetto dovuto all'età né di stantia
retorica della memoria. Si tratta di capire che ogni epoca è un groviglio di
abitudini, mode, speranze, simboli, destinati a cambiare e a svanire. Di
ricordarsi che anche i morti erano vivi. Se a 33 anni, invece di farsi
ammazzare, Gesù avesse avuto un figlio che a 33 anni avesse avuto un figlio e
così via fino al 2000, la catena umana necessaria per arrivare fino a noi
conterebbe la miseria di 60 individui. Per colmare duemila anni di storia
basterebbero, cioè, sei squadre di calcio senza portieri, una pizzeria mezza
piena, tre classi elementari, metà della metà della metà della gente in fila a
una mostra di Caravaggio. - Dicono che guardiamo più lontano perché siamo nani
sulle spalle dei giganti -, annota nel 1937 il cineasta surrealista francese
Jules Les Jour in Je n'existe pas, - Risponderei che siamo giganti seduti sui
nani, poveri nani. Ma mi fanno ridere queste classifiche. La storia non è una
gara, ma un fiume sotterraneo che ci scava e forma da dentro -. Non siamo
migliori di chi ci ha preceduto e loro non sono stati migliori di noi. (…). I
60 figli di Gesù per scavalcare due millenni dimostrano che, in fondo, anche i
padri e le madri sono fratelli e sorelle. Siamo bruchi che sfottono farfalle.
Siamo farfalle che sfottono bruchi.
sabato 28 dicembre 2019
Letturedeigiornipassati. 78 «La nostra è una società dello scarto».
Ha scritto Kahlil Gibran in “Il Profeta”: “Disse allora un ricco: parlaci del dare. Ed
egli rispose: voi non date che cosa di poco conto quando date qualcosa dei
vostri beni. È quando date qualcosa di voi stessi che date veramente. Poiché
cosa sono i vostri beni se non cose che serbate e custodite per paura di averne
bisogno domani? E domani, che cosa porterà il domani al cane troppo prudente
che nasconde gli ossi nella sabbia che non lascia tracce mentre segue i
pellegrini diretti alla città santa? E che cos’è la paura del bisogno se non il
bisogno stesso? E la paura della sete quando il vostro pozzo è pieno, non è
forse insaziabile sete? (…)”. Ecco, «in una società dello scarto»,
così come la definisce Michela Marzano in “L’elogio della povertà e della
rassegnazione” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 28 di dicembre
dell’anno 2016, a divenire “scarto” – anzi “scarti”, per milioni di
esseri umani - non sono solamente gli “scarti” alimentari dell’abbondanza
spropositata del Natale ma anche gli esseri umani più indifesi, senza lavoro e
senza patria. Scriveva tre anni addietro Michela Marzano: (…). …cos’è oggi strettamente
necessario alla sussistenza e non superfluo? Dove inizia e dove finisce lo
sperpero? Ha veramente senso parlare di eccesso, quando tante famiglie vivono
di stenti, il numero dei disoccupati è allarmante, e numerosi giovani sono
costretti a lasciare il nostro paese in cerca di un futuro migliore? “La
povertà è conoscere le cose per necessità”, scriveva Parise quando in molti,
per ignoranza o malafede, confondevano la felicità con la ricchezza, il
benessere con i consumi. Era l’inizio degli anni folli e spensierati del boom
economico, subito prima dell’ultraliberismo degli anni Ottanta quando la
propaganda spinse tante persone a credere che il progresso non si sarebbe mai
fermato: basta volere per potere; ognuno è artefice del proprio destino; solo
gli incapaci, gli svogliati, i perdenti e i falliti non possono farcela a
raggiungere il successo e a scalare il potere. Era l’epoca in cui anche un
altro grande scrittore e intellettuale italiano, Pier Paolo Pasolini, non esitò
a parlare del consumismo come di una nuova, e forse peggiore, forma di
fascismo. Ma oggi che la ricchezza si concentra nelle mani dell’1% della
popolazione mentre il restante 99% si spartisce le briciole, oggi che la crisi
economica è conclamata, oggi che la povertà non è più solo una figura retorica
ma una realtà, come si fa a fare un elogio della mancanza e del bisogno? Certo,
l’essere non coincide con l’avere. Esattamente come non coincide con
l’apparire, nonostante la società sia ancora succube delle apparenze e siano tanti
i giovani che si illudono che il proprio valore sia legato al numero dei “mi
piace” sui propri post, o alla quantità di “amici” e di “follower” che si
possono avere su Twitter o Instagram. Certo, una delle caratteristiche
dell’esistenza umana è l’insieme di qualità e di cose che “non si hanno” o che
“non si è”, come direbbe lo psicanalista francese Jacques Lacan che ha definito
persino l’amore come quel sentimento che ci porta “a dare quello che non
abbiamo a chi non lo vuole”, proprio per insistere sull’importanza della
mancanza e del vuoto come fattori strutturanti dell’identità di ciascuno.
Certo, la felicità ha poco a che vedere con il Prodotto Interno Lordo, anche
quando per calcolare il PIL, oltre ai consumi, vengono presi in considerazione
altri fattore di benessere: la massimizzazione dei profitti e degli interessi,
ormai lo sappiamo bene, è solo uno dei tanti miti dell’individualismo
post-moderno. (…). Il nostro, oggi, non è più un paese che “compra e basta”.
Sono numerosi coloro che comprano pochissimo; troppi coloro che, per necessità,
molte cose non le conoscono nemmeno. Tanto più che, per conoscere, non è
affatto vero che sia necessario passare attraverso il bisogno e la necessità.
Anzi. Questo lo pensa e lo afferma solo chi, forse, non ha mai avuto realmente
bisogno. E immagina che la vita possa essere pienamente dignitosa limitandosi a
distribuire a tutti un “reddito di cittadinanza” (o “reddito di sussistenza” o
“reddito minimo universale”), come diceva già il padre dell’ultraliberismo,
Friedrich von Hayek, interessato solo a garantire l’ordine e la pace sociale –
reddito minimo che, poi, non è altro che una versione moderna, e forse più
presentabile, della vecchia “carità” dei notabili. Ma quale dignità viene
garantita quando si parte dal presupposto che la povertà può essere un “segno
distintivo più ricco della ricchezza”? Rispettare la dignità di tutti significa
dare a ciascuno la possibilità di scegliere quello che gli è necessario o no, e
non decretare a priori ciò che è superfluo e inutile. La nostra è una società
dello scarto, (…). La soluzione non può quindi essere quella di farne l’elogio,
spingendo alla rassegnazione gli “scartati”, ma pensare e costruire una vera
cultura dell’inclusione.
venerdì 27 dicembre 2019
Strettamentepersonale. 26 «Gli inganni dell'io».
Ha scritto Umberto Galimberti in
“Gli inganni dell'io”, pubblicato su di un supplemento al quotidiano “la
Repubblica” dell’8 di maggio dell’anno 2010: Recita la sapienza greca: - Chi
conosce il suo limite non teme il destino -. Incominciamo a dire che, a
differenza di tutti i mammiferi, ma qui potremmo dire anche di tutti gli
animali, gli uomini non hanno istinti, ma solo pulsioni a meta indeterminata.
Non potremmo altrimenti concederci a tutte le perversioni, cosa che non sembra
sia concessa agli animali, e tantomeno alle sublimazioni che consentono di
trasformare una pulsione sessuale in un'opera poetica o d'arte. Grazie a questa
indeterminatezza biologica, l'uomo è libero. La libertà, infatti, non scende
dal cielo, ma dipende dal fatto che l'uomo non è codificato da istinti, che
sono risposte rigide agli stimoli. In questo modo abbiamo fatto un po' d'ordine
tra le illusioni dell'uomo che trae vanto della sua libertà e di tutte le
creazioni che la libertà gli concede. Tra queste, la più potente, la più significativa
è quella che abbiamo chiamato io, che di fondo, come dice Derrida, è solo uno
pseudonimo con cui cerchiamo di tenere a bada quel baccano indiavolato di
demoni che ci abitano. Quando ci riusciamo, affidiamo all'io il compito di
costruire la nostra biografia, nella ricerca disperata di un senso che la morte
sconfigge, riportandoci alla nostra vera realtà che è poi quella di essere
semplici funzionari della specie, la quale ci fornisce per un certo tempo una
sessualità per la procreazione e un dose di aggressività per la difesa della
prole. Finché la morte non azzera tutti i nostri progetti, riconducendoci alla
verità che il nostro io ha cercato in tutti i modi di tenerci celata, per
consentirci di vivere per il tempo che ci è stato concesso. La nostra morte,
quella che non riusciamo mai a pensare, quella per cui un paziente di Freud, un
giorno ebbe a dirgli: - Ho fatto un patto con mia moglie. Quando uno di noi due
morirà, io vado a Parigi -. Inganni dell'io, inganni d'amore che noi pensiamo
sempre rivolto agli altri, quando invece è sempre amore di sé. Ed è per il
terrore che ci incute l'idea di perdere l'amore che abbiamo durante la vita
maturato per noi stessi, che ci atterrisce la morte. Diventare consapevoli di
tutto questo non induce alla disperazione (sentimento appropriato a tutti
quanti hanno sperato, esagerando nel loro desiderio al di là della condizione
umana), ma piuttosto alla consapevolezza del proprio limite, attenendosi al
quale, come dice la Sapienza greca, non si teme il destino. Quanta più grande
bontà circolerebbe se non cadessimo vittime della tracotanza dell'io e quanti
inganni d'amore eviteremmo se diventassimo consapevoli della sua caducità come
caduca è la nostra vita. Solo da queste premesse può nascere l'entusiasmo nei
momenti alti della nostra esistenza e la capacità di sopportare il dolore che
ci consegna alla nostra ineludibile mortalità. Del resto, ce lo ricorda
Nietzsche, se riuscissimo a immaginare “il giorno in cui si spegnerà quella
stella dove ha fatto la sua comparsa l'uomo, ci renderemmo conto che fu
l'attimo più tracotante e menzognero della storia dell'universo, perché in
quell'attimo l'uomo pensò che i cardini dell'universo ruotassero intorno a lui”.
È stato rileggendo la dotta riflessione del professor Galimberti, che ho prima
trascritto nella sua interezza, che mi sono ricordato di un incontro fatto
tanti anni or sono nel mezzo, come poeticamente potrebbe dirsi, della “mia giovinezza” che è trascorsa oramai.
E ripassano nella mia mente quelle straordinarie parole di allora allorché,
stupefacendomi, quel mio canuto interlocutore ebbe a dirmi – sarebbe giusto che nella nostra
vita non si facessero promesse – aggiungendo subito dopo, scoprendo forse
il mio stato di enorme sorpresa suscitato da quelle Sue parole, - poiché
più che le promesse sarebbe bene nella nostra vita farci carico dei desideri dell’altro
e delle persone amate e quei desideri realizzarli senza avere promesso nulla -.
È stato per questo che nella mia vita ho cercato, forse non riuscendoci
sempre ed appieno, di indovinare i desideri delle persone care o a me vicine facendomene
carico senza apparirne il realizzatore. È stato un bell’esercizio per il mio ”io”.
Un “io”
al quale mi è stato difficile, nel corso degli anni, sottrarre il mio vivere
quotidiano. È accaduto anche che le onerosità della vita, le convenienze
sociali, la condizione alla quale tendo d’istinto di “cittadino riflessivo”,
abbiano posto sotto ferreo controllo quell’”io”, lo abbiano spesso “ristretto”
in ambiti angusti affinché concedesse l’emergere degli altri “talenti”,
seppur ce ne fossero, che la mia realtà psico-fisica, al di là della pura e
semplice mia complessione, doveva pur contare. È spesso accaduto. Ma l”io”
latente, ristretto e/o costretto, non ha tardato a farsi sentire, a porsi in
seria competizione/lotta con quella parte del mio essere che per educazione, cultura,
esercizio o quant’altro lo aveva posto nelle condizioni di non esorbitare
occupando nella sua interezza la mia esistenza, condizionandone il rapporto con
gli altri o meglio con il “prossimo” tutto. Non nascondo i
tormenti derivanti a seguito dell’intestina violenta lotta tra quell’”io”
tante volte mortificato, combattuto e costretto a starsene buono buono affinché
fossero soddisfatte le richieste e le necessità derivanti dalla onerosità propria
del vivere o dall’impegno mio per una cittadinanza attiva e responsabile, e la
razionalità propria dell’essere portatore fortunato di quei pochi “talenti”,
che ha cercato caparbiamente di mettere in atto, nel quotidiano, quelle parole di vita che sono state come una
flebile ma non spegnibile fiammella nel
non sempre facile percorso della vita.
giovedì 26 dicembre 2019
Lalinguabatte. 88 Don Milani: «Non si possono amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola».
Quanto siamo disposti a concedere
al cosiddetto fisico “stretto contatto” con il prossimo
nostro? Intendendo prossimo nostro certamente non l’invisibile corrispondente
del nostro vacuo ciattare, dell’incontrollabile, inutile e neghittoso
cicaleccio della rete, non l’incauto visitatore che stabilisca un improvvisato
approccio telematico con noi, ma quell’essere in carne ed ossa, umori corporali
ed odori spesso nauseabondi, che ci passa accanto, che ci olezza con i suoi effluvi
nel bus o nel tram, che ci sta davanti agitandosi inopportunamente nella fila
all’ufficio postale o in banca o in un qualsiasi altrove frequentato dagli
animali umani o resi tali. Quanto siamo disposti a cedere del nostro recinto
personale a questo prossimo nostro? Sembra, stando ai meglio informati, che sia
una questione di ormoni, di feromoni, di ghiandole endocrine ed intrecci
neuronali, insomma un qualcosa di quel “determinismo biologico” che tanto
ci spaventa e che mette in forse la nostra convinzione nella assoluta nostra libertà
personale di determinarci, insomma il tanto decantato nostro “libero
arbitrio”. Ecco, corre meglio dire “arbitrio” senza aggettivazione
alcuna. Ne ha scritto come sempre da par Suo l’indimenticato Vittorio Zucconi,
con quella Sua sempre graffiante scrittura, su di un supplemento del quotidiano
“la Repubblica” (2010?) col titolo “Non
abbracciate un americano”. Di seguito trascrivo in parte quello scritto non
senza ricordare quanto ebbe a dire, anzi a scrivere, quell’indimenticabile Don
Milani a chi gli chiedeva quale e quanto dovesse essere l’amore da portare al prossimo nostro: “(…).
So che a voi studenti queste parole fanno rabbia, che vorreste ch’io fossi un
uomo pubblico a disposizione di tutti…non si possono amare tutti gli uomini. Si
può amare una classe sola. Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale
se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero di persone
limitato, forse qualche decina forse
qualche centinaio. E siccome l’esperienza ci dice che all’uomo è possibile solo
questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più… Quando avrai perso la
testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come
premio. (…).” Grande quel Don Milani, che amò fortemente una certa
classe sociale e non un’altra, quella dei derelitti, ed utilizzò tutta per
intero la Sua breve vita per soccorrere, istruire ed amare i pochi di quella
tale classe sociale, senza grandi pronunciamenti e solennità di sorta, proprio
come il maestro Suo di Nazareth! Ha scritto l’indimenticato
Vittorio Zucconi: Spazio. (…). I confini dello spazio personale, l'aria che deve separare
due esseri umani perché si sentano a proprio agio sono incomparabilmente più
larghi in America di quanto siano in Italia. Pare che questa differenza dipenda
dall'amigdala, un gruppetto di cellule cerebrali che funzionano come quei
radarini nelle automobili di lusso che misurano le distanze e cominciano a
emettere gracidi e pigolii, bip-bip e poi lamenti strazianti quando la distanza
fra i paraurti si fa pericolosamente stretta. Gli americani devono possedere
amigdale di dimensioni colossali e attivissime, perché sono il popolo che meno
di ogni altro (con l'eccezione dei pastori della Mongolia abituati a vivere
nelle steppe) sopporta la vicinanza fisica con un'altra persona, che non sia
colui o colei con i quali ogni tanto si deve interagire mettendo a tacere
queste amigdale. Per un europeo del sud, come noi, la distanza minima
accettabile prima di gridare aiuto o di spogliarsi è di circa 60 centimetri, fino a
90 per le popolazione del nord. Per un americano, se si scende sotto il metro e
venti, il doppio di noi, si rischia una denuncia per molestie o una proposta
per uscire insieme a cena. La bolla invisibile che ciascuno porta attorno, e
che schiere di studiosi del comportamento degli animali, noi inclusi, hanno
calcolato, può essere bucata soltanto con l'autorizzazione di chi sta dentro la
bolla. Non vedrete mai due uomini americani baciarsi, certamente non come quei
vecchi dirigenti comunisti dell'Est che si slinguavano a ogni visita di stato
per il disgusto dei presenti, girare a braccetto, tenere le braccia sulle
spalle del vicino, se non per foto di gruppo o per eccitazione sportiva davanti
a una vittoria, che sbriciola ogni bolla e spinge uomini ad avvinghiarsi,
intrecciarsi, montarsi, allacciarsi l'uno con l'altro in pose e atteggiamenti
che, senza il gol, la meta realizzata, il canestro da tre punti all'ultimo
secondo, verrebbero considerate come manifestazioni di omosessualità divorante.
Anche le donne, pur meno fanatiche nella difesa dello spazio personale o forse
dotate di amigdale meno irritabili, hanno inventato il famoso air kiss, il
finto bacio scambiato con le labbra al vento e il bacino rigorosamente spinto
all'indietro. Quando proprio la sacra distanza di almeno un metro e venti
(grosso modo quella che separa due uomini quando si stringono la mano) si deve
ridurre a zero e i corpi entrano in contatto forzato, come sulla metro all'ora
di punta o nei seggiolini infernali costruiti da ex torturatori delle SS per le
compagnie aeree low cost, il cervello americano soccorre le amigdale con un
trucco.
mercoledì 25 dicembre 2019
Ifattinprima. 27 «Il Natale, ridotto da tempo a un fenomeno di consumo nevrotico privo di alcuna spiritualità».
Tratto da “Che
senso ha il Natale se non nascono più bambini?” di Massimo Fini, pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” del 24 di dicembre 2019: (…). …papa Francesco ha ricordato
che il Natale “è la festa della famiglia”. Peccato che la famiglia non esista
più. Dagli anni cinquanta in Occidente e nei paesi che hanno adottato il suo
modello di sviluppo, siamo sotto il cosiddetto “livello di sostituzione”, quel
2,1 di fertilità per donna che consente che la popolazione rimanga stabile. In
Portogallo il tasso di fertilità per donna è dell’1,2, in Germania 1,5, in
Canada 1,6, a Singapore 1,2, a Hong Kong 1,3, in Giappone 1,5, in Corea del Sud
0,89, a Taiwan 1,2 e in Italia, che occupa il terzultimo posto in questa
classifica sinistra, è dell’1,3. Le ragioni di questa infertilità sono così
numerose che non è possibile metterle tutte a fuoco in questa sede. Ne citiamo
alcune: economiche, psicologiche, sociali. Più è alto il livello di istruzione
più è bassa la fertilità. Le donne, avendo raggiunto, in linea di massima, la
sacrosanta parità dei diritti, riluttano a far figli abbandonando la funzione
antropologica di madri. Convinte dalla scienza medica che tutto è possibile,
rimandano l’età del concepimento verso i quarant’anni. Ma avere il primo figlio
a quell’età non è facile, ancora più difficile è seguirlo a meno che non si sia
così ricchi da avere un esercito di ‘tate’. Più in generale in Occidente non
siamo più capaci di soffrire e quindi di affrontare quelli che i filosofi
chiamano “i nuclei tragici dell’esistenza”: il dolore, la vecchiaia, la morte. Premesso
che in una società individualista qual è la nostra ognuno è libero di fare
della propria vita ciò che più gli aggrada tutto ciò che abbiamo fin qui
cercato di descrivere ha delle pesanti conseguenze sociali ed economiche.
Sociali. Nei paesi che abbiamo citato c’è, se non la maggioranza, un numero
molto consistente di vecchi. Cesare Musatti, lo psicologo, a più di novant’anni
e quindi al di sopra di ogni sospetto, diceva: “vivere in un mondo di vecchi mi
sembrerebbe spaventoso”. Economiche. Non è lontano il tempo in cui il numero
dei giovani non sarà più in grado di sostenere le pensioni dei vecchi e questo
è un problema che, come noto, assilla anche l’Italia. La vita si è allungata
troppo. È uno degli effetti “paradossi “ della Ragione o, se si vuole, della Scienza,
come quelle medicine che intendendo curare una malattia la aggravano. A titolo
di consolazione, sui media, si fa gran parlare di vecchiaie estreme in buona
salute come quella di Gillo Dorfles in piena lucidità fino ai suoi centosette
anni.
martedì 24 dicembre 2019
Lalinguabatte. 87 «Quasi (luna) piena il 29 aprile 1945, mentre Mussolini pendeva in piazzale Loreto».
Ha scritto il poeta giapponese
Junichiro Kawasaki: "Quando il dito indica la luna, l'imbecille si mette in
viaggio". È che oggi vorrei parlarvi della luna, anzi del “Mal di luna”, che è il secondo degli
episodi di quell’opera cinematografica straordinaria dei fratelli Paolo ed
Emilio Taviani che ha per titolo “Kaos”.
Un’opera straordinaria e monumentale, dell’anno 1984, monumentale pensando
anche alla sua durata che è di ben quasi 140 minuti. Parlare oggi della luna
per sfuggire all’irrespirabile realtà che ci circonda. Volare sulla luna come
fuga da una realtà opprimente e della quale non se ne individuano i contorni
d’uscita. È che il nostro viaggio si è fatto complicato assai al punto che,
come creduloni ed imbecilli, il dito che ci indica la luna spinge alla fuga dall’irrealtà
della condizione attuale. Divenire, oggi, novelli Astolfo, figura mitica del
grande Ariosto, paladino nelle leggendarie storie scritte per edificare la
gloria di un tale Carlo Magno. È che quell’Astolfo possedeva un cavallo straordinario
di nome Rabicano, straordinario perché immateriale, già senza peso sul pianeta
Terra, figurarsi sul suo satellite Luna ove la gravità è ben ridotta. E
quell’Astolfo viaggiò nello spazio sino alla Luna per appropriarsi, in quel
mondo, del senno di Orlando, senno smarrito dall’eroe dopo essere stato
abbandonato dalla dolcissima Angelica. Si potesse ancor’oggi volare sulla Luna
per recuperare il senno smarrito in Terra! Affermava il grande Hegel, “ciò
che è reale è razionale”, per aggiungere, a completamento del Suo
sommo pensiero, “ciò che è razionale è reale”. Cosa c’è di razionale nel nostro
vivere? Cosa c’è di razionale nella condizione sociale e politica del bel
paese? Torno alla straordinaria opera cinematografica. Nel secondo episodio che
ha per titolo “Mal di luna” si narra
di una giovane ed avvenente fanciulla a
nome Isidora che, ad appena un mese dal suo matrimonio, scopre che il suo amato, che ha
nome Batà, è affetto da licantropia. Alla terribile scoperta segue l’amarezza per
un segreto che il suo amato avrebbe dovuto rivelarle prima del matrimonio. E
qui scatta la tresca; confidatasi Isidora con la madre, donna “esperta” assai,
esperta nelle cose della vita, concorda con il cugino Saro che, nelle notti di
luna piena, il prestante giovine si rechi nella modesta abitazione della
novella sposa per tenerle una tenera compagnia. Al sopraggiungere della prima
notte di luna piena i giovani si barricano, come concordato, in casa, mentre il
povero Batà si dimena ed ulula nella notte. La giovine Isidora, che ha aspettato
con grande trepidazione ed ansia l'apparire della luna piena nel cielo, avendo
a suo tempo amato il prestante cugino Saro, si dispone a tradire lo sposo. Ma un
profondo senso di umanità prende inaspettatamente il cugino Saro che, resistendo
alle invitanti offerte sessuali della giovine,
abbandona d’impeto il letto coniugale
della cugina, accorre all’aperto, sotto il chiaro di luna, per soccorrere l'infelice
Batà, che si dimena come un animale ferito, lacerato nelle carni dalle sue
stesse unghiate, e rimane all’aperto, per tutta la splendida notte lunare, stringendo
tra sue le mani la testa che gli è cara di Batà. È l’umanità piena di Saro,
quella che a molti viventi manca. Della luna e della sua magia sugli esseri
viventi che abbiano ancor oggi in serbo un briciolo di umanità, ha scritto Giacomo Papi sul supplemento “D” del
quotidiano “la Repubblica” col titolo “La
luna”, pezzo pregevole che di seguito trascrivo in parte: (…). Da
bambino guardavo spesso la mappa della luna: il Mare delle Crisi, del Nettare,
del Margine, del Freddo, dell'Umido e delle Nubi, il Lago dei Sogni, l'Oceano
delle Tempeste, la Baia della Rugiada e degli Arcobaleni, l'Isola dei Venti, il
Muro Dritto, la Penisola dei deliri, la Palude del Sonno. E mi domandavo chi
avesse mai inventato quei nomi meravigliosi. Adesso lo so: dopo i tentativi di
Galileo, Hevelius ed Eustachio Divini, fu Giovanni Riccioli, gesuita tolemaico
ferrarese, a dare alle stampe nel 1651 l'Almagestum Novum con la prima mappa
completa.
lunedì 23 dicembre 2019
Letturedeigiornipassati. 77 «La cretinità è segno della nostra finitezza».
Tratto da “Impotenti
prepotenti” di Massimo Cacciari, pubblicato sul settimanale L’Espresso del
23 di dicembre dell’anno 2018: I termini che spesso usiamo come sinonimi -
cretino, stupido, idiota - comprendono in realtà tipi e caratteri ben distinti.
Il loro tratto comune sembra consistere nell'indicare una specie di inabilità a
pensare e ad agire con prontezza ed efficacia, un'innata difficoltà a
comprendere e affrontare le situazioni critiche. Per questo verso, il cretino
non ha nulla a che fare col pazzo o col fool, che può essere invece,
Shakespeare insegna, colui che più radicalmente vede e denuncia la stupidità
che pervade la vita e le azioni dei suoi simili. Anzi, potremmo dire che fool è
chi è cosciente anche della propria stessa cretinità. Sembra infatti che questa
voce provenga da cristiano, come l'espressione "un povero Cristo"
lascia supporre. Il fool ci ricorda che tutti lo siamo, "poveri
Cristi", e con spietata ironia mette a nudo borie, vanaglorie, superbie,
supponenze e insolenze. La cretinità è segno della nostra finitezza, e il folle
colui che ci impedisce di dimenticarlo. Cretino, almeno etimologicamente,
varrebbe allora come un sano segno di modestia, o addirittura di bontà
(ricordiamo l'Idiota di Dostoevskij, in cui la bontà convive drammaticamente
con l'"inabilità" a vivere nel mondo); altra cosa è la stupidità che
il fool-cretino smaschera. Lo stupido ha lo sguardo ebete del semplice stupore:
facile a incantarsi e lasciarsi incantare, preda di ogni pifferaio magico,
credulone superstizioso, vittima predestinata di promesse e cieche speranze.
Nulla a che fare con quella meraviglia che afferra lo scienziato e il filosofo
di fronte allo spettacolo del cielo stellato e li fa cadere nel fosso,
suscitando il riso del passante, come accadde al povero Talete. Allo stupido
sembra sempre stupido chi si affatica intorno a problemi che a lui sembrano
"astratti"; lo stupido è irresistibilmente sedotto da riposte
semplici e rapide, che sembrino garantire tornaconto e soddisfazione; egli è
propenso a credere senz'altro a chi sbandieri ovunque facili soluzioni.
Tuttavia, chi non sia stupido, e cioè riconosca che problemi come quelli che
angustiavano Talete non possano trovare risposte semplici, sa che la stupidità
svolge un suo ruolo nelle vita comune e che, in qualche modo, tutti vi siamo
immersi. Per vivere siamo, infatti, costretti a semplificare, per comunicare o
fra-intenderci gli uni con gli altri non possiamo rinunciare a luoghi comuni,
banalità, pregiudizi. Almeno occasionalmente vestiamo tutti anche gli abiti dei
Bouvard e dei Pécuchet, i profeti dell'età dell'informazione-chiacchiera e
della frase fatta inventati dal genio di Flaubert. La differenza forse
essenziale tra stupidità e intelligenza sta nel fatto che la seconda è
consapevole di questo suo limite. Lo stupido si fa davvero pericoloso solo
quando viene manipolato e diretto da chi stupido non è, ma prospera soltanto se
immerso nella stupidità, e dunque non ha alcun interesse a fare in modo che
essa si riconosca tale, proprio ciò in cui invece consiste la provvida azione
del fool. Lo stupido, per natura, è un superstizioso, non immagina la propria
sicurezza se non sul fondamento di qualche Autorità, religiosa o politica che
sia. Nella stupidità si esalta quel tratto infimo della nostra natura che
consiste nel tendere a obbedire e servire in cambio della tutela del proprio
"particulare". Chi progetta di affermarsi facendo leva su questo
aspetto del nostro carattere non è affatto stupido, ma dovrà assecondare e
promuovere la stupidità, affermare che essa sola è buona e ragionevole. E
"educarla"perciò a divenire un movimento di massa. Lo stupido, di per
sé, è un solitario "privato" (la figura di idiota opposta a quella
dostoevskiana), che ha cura esclusivamente dei propri affari; l'Autorità che da
esso trae legittimità e di esso si alimenta vuole farne invece una massa. Qui
il pericolosissimo passaggio. Lo stupido al potere dismette anche la più
lontana parentela con il cretino, diventa arrogante e insolente, il suo
atteggiamento assume i timbri dell'imposizione e del comando. Rozzezza e
volgarità vengono da lui esibite come virtù. Il suo era il linguaggio della
semplice ovvietà (verba obvia sono quelli che si incontrano per la strada, che
girano su tutte le bocche senza mediazione o riflessione), ora egli pretende
che proprio questo sia l'unico dotato di senso. I linguaggi che non capisce
appartengono a "intellettuali" estranei all'anima del popolo sovrano,
quando non a barbari nemici. Prestare loro ascolto può diventare anche un
crimine. La stupidità al potere trasforma in certezza il proprio opinare,
espone come calcolati obbiettivi le proprie vaghe speranze, nasconde con
prepotenze verbali la propria reale impotenza. Quando grandi sono i mutamenti
sotto il cielo il rischio di forme di potere che fondino le proprie fortune
sulla nostra naturale stupidità crescono a dismisura. Sarebbe da stupidi
stupirsene. Ma dà qualche speranza di poterne uscire la loro intrinseca
contraddittorietà: più profonda è la crisi che si attraversa, e drammatico lo
stesso modo in cui è percepita, più cresce la domanda di sicurezza, meno questa
potrà essere soddisfatta da politiche corrispondenti esclusivamente alla sua
espressione più elementare, immediata, semplice, e cioè stupida. Si sarà allora
costretti a moltiplicare annunci e promesse, a surrogare con una sorta di
permanente agitazione l'assenza di una coerente linea di condotta, con l'evocazione
di oscure inimicizie e sabotaggi nell'ombra. Ma si tratta di pratiche e
retoriche meramente difensive. Quando la stupidità si avveda che il potere
esercitato in suo nome non risponde affatto ad alcuna delle sue reali esigenze
potrebbe disincantarsi molto rapidamente.
domenica 22 dicembre 2019
Lalinguabatte. 86 «Prendete un libro».
“Prendete un libro. Fatto? No,
non l'avete preso. Non l'avete preso tutto: un libro è qualcosa che vi sfugge e
vi supera di continuo, tanto è esteso nello spazio e nel tempo. Nello spazio
perché i libri attraversano il mondo più velocemente di noi e dei nostri
pensieri. Nel tempo perché la giostra degli anni ha per loro una antica e ben
nota clemenza. (…). I libri sono posti dove le persone si incontrano e si
confrontano, luoghi immateriali fatti di parole e scie di parole che
attraversano il pianeta senza fermarsi. In ogni generazione può trovarsi
qualcuno che ha il coraggio di opporsi alla propaganda e dire che ciò che ci
unisce è più grande e importante di ciò che ci divide. Prendete un libro. Non
ci riuscirete, non potete davvero prendere un libro: nessun abbraccio umano è
tanto grande. Però potete provarci. Potete provarci sussurrando a voi stessi
che è una cosa che vale la pena di fare, che è qualcosa che fa bene. Potete,
anzi dovete provare a prendere un libro. Perché in fondo, tentandoci, potreste
ritrovarvi in mano il mondo.” Così ha scritto Geraldine Brooks in una
Sua un po’ datata riflessione che ho ritrovato tra le mie carte, riflessione
pubblicata sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” il 25 di ottobre
dell’anno 2008. Geraldine Brooks, scrittrice australiana, ha vinto nell’anno 2006
il Premio “Pulitzer” per la Sua attività di giornalista che affianca, con
grande impegno, alla Sua attività letteraria. In Italia ha pubblicato, per i tipi Neri Pozza, “I custodi del libro”. “Prendete
un libro”: mi sembra debba essere questo, oggigiorno, l’imperativo
categorico per non sprofondare nella turpitudine più completa di una società
quanto mai scollacciata e senza più un navigare sicuro; ma con quali strumenti
diffondere l’imperativo predetto? Da quella riflessione di Geraldine Brooks sono trascorsi undici anni e passa
abbondanti, ma di quali misfatti, in fatto di mal di vivere, mal di vivere
difeso ad oltranza come libertà individuale di un singolo prima , di ciascuno
poi e quindi come diritto inequivocabile per tutti, contro i soliti bacchettoni
e moralisti di questo mondo, di quali misfatti, dicevo, è stato osservatore
distratto l’inebetito, mediaticamente mitridatizzato cittadino del bel paese?
Quali gli strumenti per raddrizzare una rotta che inequivocabilmente porterà a
schiantarsi, la fragile navicella del nostro vivere collettivo, contro gli
immensi scogli dell’indifferenza e dell’ottusità? Il ritrovare la bella
riflessione di Geraldine Brooks mi spinge, di conseguenza, ad associarvi la “seconda
parte” – “seconda parte” artificiosamente da me creata, ché non esiste
nell’originale di quello scritto - di quel bellissimo, interessantissimo
recente intervento dello scrittore Pietro Citati pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 9 di febbraio dell’anno 2011 col titolo “Perché ormai i nostri ragazzi pensano che studiare sia inutile”. Una
lettura illuminante assai, nell’oscurità del periglioso tempo nel quale siamo
chiamati a vivere, chiamati a vivere in verità così come il sommo Poeta ebbe a
dire "…fatti
non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. Ha
scritto Pietro Citati che “nel 1943, avevo tredici anni, (…). Non
andavo mai a scuola: non studiavo né il latino né il greco. I bombardamenti di
Torino avevano costretto la mia famiglia a rifugiarsi in un'immensa casa in
Liguria, con stanze altissime, scale ombrose, soffitte che accoglievano
uccelliere vaste come saloni. In quel piccolo paese di mare, vivevo quasi solo.
La scuola del capoluogo vicino era chiusa perché gli aerei inglesi
mitragliavano le strade: i miei due migliori amici erano stati fucilati durante
un rastrellamento tedesco; e qualcosa nel mio contegno teneva lontani da me i
ragazzi del paese, coi quali avrei voluto giocare a pallone. Tutti i libri
della mia casa di Torino erano finiti in una cucina abbandonata: identica a
quella del Castello di Fratta. Mio padre li aveva sistemati a caso dentro
vecchie librerie o lasciati dentro le casse. Dovunque mi avventurassi e
esplorassi, l'immensa casa grondava di libri.
sabato 21 dicembre 2019
Cosedaleggere. 20 «La scienza ha messo nell’angolo l’etica».
Tratto da “Che
cosa divide scienza e coscienza” di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 19 di ottobre 2019: Nel tempo della sua prodigiosa
esplosione, la scienza ha messo nell’angolo l’etica. Entrambe sono nella natura
dell’essere umano, ma l’una procede indipendentemente dall’altra. Corre per le
sue strade la prima, la seconda annaspa. “L’uomo è antiquato”, s’è detto per
indicare questa condizione. Ricerca, innovazione, sperimentazione, sviluppo
sono le sue veloci parole d’ordine. Quelle dell’etica sono altre, lente:
giudizio, giustizia, rispetto, senso del limite, “non fare agli altri…”, ecc.
La scienza è neutrale: si occupa di fatti, l’etica di valori. Il collegamento
tra gli uni e gli altri spetta ad altre “agenzie”: politiche, economiche,
morali. La scienza è scienza e l’etica è l’etica. Troppo facile. Il senso
comune spesso diffida della scienza, come s’è visto nelle controversie su
vaccinazioni, metodo Stamina, cura Di Bella. Il degrado ambientale è tema che
fornirà tante nuove occasioni di scontro tra negazionisti e catastrofisti,
senza che la scienza possa mettere fine con una sua parola. I motivi di diffidenza
sono vari: lo spirito sopra la materia, il soggetto prima dell’oggetto, la
metafisica contro la fisica, il libero arbitrio contro il determinismo, il
catastrofismo e il sospetto di complotti. Soprattutto, aleggia la sindrome
dell’apprendista stregone. Le macchine raccolgono ed elaborano dati e
informazioni in misura che il cervello umano non può sognarsi di padroneggiare.
Ma sono senz’anima e tra poco saranno capaci di procedere per proprio conto, di
“pensare, parlare e fare per noi”. Se incrociamo queste due rischiose
proposizioni: “ciò che è stato scoperto, lo è per sempre” “tutto ciò che può
essere fatto, può essere fatto” — dove “potere” ha due significati: come
capacità e come liceità — si comprendono i rischi d’una scienza che non conosce
limiti. Che cosa uscirà dal vaso della bella e ambigua Pandora? Jules Verne (I
cinquecento milioni della Bégum) narra dell’invenzione del cannone onnipotente
che finisce per annientare l’artificiere.
venerdì 20 dicembre 2019
Letturedeigiornipassati. 76 «Quel circolo vizioso in cui si è incagliata la nostra economia».
Tratto da “L'ossessione
del lavoro al tempo della crisi” di
Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica
del 20 di dicembre dell’anno 2014: Più l’occupazione scarseggia, più nella sua ricerca
riponiamo ogni speranza di realizzazione.
giovedì 19 dicembre 2019
Strettamentepersonale. 25 «Siamo gamberi della nostra stessa vita».
Non Vi sbalordisca e non crei
scompiglio nelle vostre radicate certezze se dico che ho un interesse “minore”
per la mia realtà biologica rispetto all’interesse, maggiore, che riservo alla
mia realtà a-biologica, quella legata al pensiero ed alla “consapevolezza”
dell’esistere. Il biologico non assicura “consapevolezza” dell’esistere, ché
altrimenti tutte le forme biologiche ne dovrebbero avere una piena contezza,
amebe incluse. È certo che mi interessi del mio stato di salute, che me ne
preoccupi in date circostanze, stato di salute che è strettamente aspetto biologico
della mia realtà ma non del mio “esistere”, che è solamente il mio
apparire ma non il mio essere, ma non disdegno di pensare che anche esso, il
mio stato biologico di benessere, possa avere un qualche remoto legame con la
mia struttura di pensiero, con quella che chiamo sovente la mia “impronta
psichica”. Sono interconnessioni intuite – ma solamente intuite, si
badi bene - da tempo, ma non ancora convenientemente indagate e scientificamente
dimostrate; sarà possibile mai una dimostrazione esaustiva di una tale
interconnessione del corpo con il proprio pensiero? Ma torno ad affermare come
preminente mi appaia la “salute” della mia “impronta
psichica”, persa o compromessa la quale ben poca cosa sopravviverebbe
di me stesso, della mia percezione del vivere ma ancor più della mia “consapevolezza”
di vivere “un tempo”, anzi “il tempo”, un tempo preciso
e difficilmente scambiabile con un altro tempo che sia diverso dal mio. Pensavo
a queste cose al tempo della notizia del mancamento, esorcizzato ma purtroppo
dolorosamente avvenuto, di un carissimo amico, R. D*N., che ci fu
carissimo assai, e che ci ha lasciati, in quell’amaro momento, la levità del
Suo “vivere”,
la Sua “educazione” senza pari, come intrisa fuori da questo tempo, la
Sua consapevole “remissività” che gli faceva da fedele compagna allorquando le
immancabili “storture” della vita non mancavano di tediarlo. Gli amici se
ne vanno, quasi in punta di piedi, per non disturbare il turbinio di questo
inquieto mondo, e di essi non ci rimane che la loro memoria, memoria che è
quella speciale categoria dello spirito che connota il nostro precario transito
in questo mondo. Ma è essa, la memoria, l’unico mezzo che conforta e rafforza la
nostra “consapevolezza” d’essere al mondo e nel “tempo”, e dopo, per il
tramite d’altri, d’esserci stati nel mondo. E gli amici che ci hanno lasciati e
che ci lasciano, dismessa la propria realtà corporale, lasciato oramai
quell’inutile ingombro, me li immagino incamminarsi per gli inesplorati
sentieri e per sempre verdi distese a coltivare la memoria, unica ancora che ci
tiene ben fermi e radicati a quello che è stato il nostro reale “vivere”
nel tempo. Ha scritto Giacomo Papi in una Sua memoria che ha per titolo “Noi stessi”, memoria pubblicata sul
supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” (marzo 2011), che di seguito
trascrivo in parte: “Il passato ci gonfia e ci abita, ci esiste in segreto davanti, senza
rivelarci mai che siamo già avvenuti. Camminiamo a ritroso dentro la storia.
Siamo gamberi della nostra stessa vita. Soltanto ciò che è avvenuto esiste
davvero e per sempre. Per questo cerchiamo di restare”. Dovrebbe essere
la paura di non lasciare nulla nel nostro dopo, al di là della paura della
nostra “morte biologica”, che dovrebbe spingere ciascuno a quella “religiosità”
della vita, ad una indispensabile, irrinunciabile “religiosità” della vita,
che non abbisogna di precettistica e di indottrinamenti particolari, “religiosità”
che viene oggigiorno disdegnata per godere pienamente dell’abbraccio suadente,
che tradisce, del momento fuggevole ed incerto che si è chiamati spensieratamente
a vivere. Ancora Giacomo Papi: Il passato ci gonfia e ci abita, ci esiste
in segreto davanti, senza mai rivelarci che siamo già avvenuti. (…). Gli
chiedo: - Dimmi una cosa passata di moda -. Risponde: - Me stesso -. (…). Ci
allontaniamo a piedi su strade costruite tanto tempo fa, sovrastati da case che
hanno ospitato le vite di centinaia di persone che non ci sono più e anche noi,
mentre parliamo, siamo fatti di passato. - Se penso a tutte le cose che sono
stato -, dice, - alunno di judo, di nuoto, delle medie, delle superiori, se
penso alle mode che mi hanno attraversato, ai pantaloni che ci facevano
indossare da bambini e a quelli che mi facevo indossare io da adolescente, so
che l'individuo più passato di moda sono io. Sono tutti. Andrò avanti così per
tutta la vita finché non potrò essere altro che niente. Non c'è verso di essere
contemporanei checché ne dicano gli stilisti -. Come istantanee, rivedo i baffi
all'ingiù di mio papà, gli ombretti di mia mamma, la nostra Ami 8 beige, Kabir
Bedi, lo zio Zeb della Conquista del West, Fonzie, Miguel Bosé, Lio, le Superga
d'inverno. Se non ci fosse memoria, si dice, non avremmo identità. Noi siamo i
nostri ricordi, solo che i nostri ricordi sono tutti fuori moda. - L'istante è
un germoglio dalle radici infinite che immagina l'albero che non diventerà mai
-, scrive Junichiro Kawasaki, il poeta giapponese. E poi conclude: - Il
presente è una scoreggia del passato che si disperde nel futuro -.
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